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CRISI “NEL” O “DEL” CAPITALISMO?

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[ 28 dicembre 2009 ]
di Osvaldo Pesce*

L’attuale crisi economica mondiale mette in discussione la globalizzazione – attuata nel corso degli ultimi dieci anni dagli USA, seguiti dall’Europa – che non può più essere perseguita.  Il meccanismo di crescita dell’economia si è inceppato, i vari paesi vengono a turno stravolti dai crack finanziari e coinvolti nella stagnazione produttiva, e per evitare che la crisi si riversi su di loro questi devono “chiudersi” in parte all’esterno e cercare  soluzioni proprie.

Oggi si prospettano tre diverse opzioni dei governi per far ripartire l’economia:
1.    aumentare il debito pubblico nei vari paesi;
2.    rispondere alla crisi con la guerra;
3.    sviluppare blocchi continentali.

Prima strada: debito pubblico.

 
Il debito pubblico è già considerevole in USA (circa il 65% del PIL); i fondi federali vengono utilizzati per “salvataggi” che puntellano le attività finanziarie (banche) e alcune industrie decotte (i colossi automobilistici), lasciando tuttavia la situazione sostanzialmente invariata.
L’attuazione di un’innovazione tecnologica che può rilanciare la produzione passa per la riduzione drastica delle spese poiché mancano i capitali da investire (essendo stati “bruciati” dalla speculazione o trovandosi ancorati all’interno delle banche che non vogliono rischiare di perderli). Per esempio la soluzione pensata per la General Motors consiste nel farla fallire e poi rinascere attraverso nuovi investimenti; ciò implica far fuori il fondo pensioni (accordo degli anni 60) che attualmente grava pesantemente sui costi (ogni occupato mantiene due pensionati): sarebbe la rovina per 4 milioni di famiglie, con conseguenze sociali gravissime.
La crisi attuale ha provocato il tracollo economico dell’Islanda e sta imperversando in Irlanda, Gran Bretagna, Olanda e Danimarca, paesi che hanno puntato  molto sul settore terziario (finanza, assicurazioni, settore immobiliare) a danno della produzione. L’esperienza insegna che i paesi non possono vivere di servizi, perché questi non producono ricchezza. Tuttavia laddove la produzione era stata delocalizzata, cioè nei paesi emergenti come India e Cina, si evidenzia una fase di recessione.
La disoccupazione cresce in tutto il mondo, con conseguente danno per i sistemi pensionistici e di capitalizzazione. Infine, occorre ricordare che i debiti prima o poi vanno saldati: gonfiare il debito pubblico significa quindi gravare sulle generazioni future!

Seconda strada: guerra.

 
Israele ha già risposto alla crisi, per dimostrare la sua forza, con l’invasione della Striscia di Gaza e i raid in Cisgiordania, e non si tratta soltanto dell’ennesimo episodio (basti pensare alle bombe al fosforo, al numero di vittime civili e all’attacco a sedi ONU); senza il sostegno degli USA Israele non potrebbe agire. Questa aggressione potrebbe inoltre portare ad accusare l’Iran di fornire missili ad Hamas, con il rischio di un’altra invasione del Libano e addirittura di possibili bombardamenti israeliani sull’Iran. In tutta quell’area ciò provocherebbe un’instabilità tale da favorire una nuova guerra India – Pakistan, fomentata dall’espansionismo indiano già rinfocolato dall’attentato di Mumbai.
Che questa guerra non sia un episodio meramente “locale” ma una pericolosa avvisaglia della possibile risposta alla crisi con la guerra, lo insegna la storia: nel 1931 il Giappone invase la Manciuria (Cina) e sembrò un “affare privato” del Giappone; nel 1935 l’Italia invase l’Etiopia e sembrò “un posto al sole” di colonialisti in ritardo; nel 1936 ci fu l’attacco di Franco alla repubblica spagnola, con l’intervento dei nazisti e fascisti, e da allora il mondo non ebbe più pace fino al 1945.
D’altra parte sulla crisi mediorientale i governi arabi sono latitanti, l’Europa mette sullo stesso piano aggressore e aggredito per preparare l’opinione pubblica all’eventualità della guerra, Putin tace valutando la pericolosità della situazione.

Terza strada: blocchi continentali.

Sviluppare dei blocchi continentali significa da un punto di vista politico andare verso un mondo policentrico, non più accentrato negli USA, da un punto di vista economico favorire uno sviluppo industriale avanzato – a scapito della finanza speculativa internazionale – e il dirigismo.
Sappiamo che la politica è l’espressione degli interessi delle diverse categorie sociali all’interno dei vari paesi: nel periodo di estesa globalizzazione il capitale (la finanza internazionale e le grandi imprese multinazionali) era estremamente più forte del sistema politico (stati nazionali e unioni di stati) nell’influenzare lo sviluppo sociale dato che il movimento dei lavoratori era indebolito dal declino della industria, dal precariato, dalla fase delle illusioni sul socialismo reale. Con il policentrismo invece aumentano le possibilità di ripresa di stati e governi. Ciò non elimina il rischio che dei blocchi continentali si indirizzino verso la guerra (accadde in Europa negli anni ‘30), ma occorre che il rafforzamento della politica sia orientato ad affrontare i problemi sociali e di sviluppo economico dalla spinta e dalla partecipazione popolare.
Essendo questa una crisi “del” capitalismo la soluzione del policentrismo è quella che ridà fiato alla ricerca, alla produzione ed agli scambi dei prodotti del lavoro (merci).
Ne trarrebbero vantaggio, in una prima fase, sia i popoli nel tenore di vita, ma anche il capitalismo, che sicuramente non vorrà perire, e la rinnovata produzione di merci e ripresa degli scambi gli ridarebbero linfa vitale.
In effetti  volendo rappresentare graficamente la situazione attuale si potrebbe immaginare un cerchio che immagazzina la globalizzazione nel quale prevale la superpotenza USA, che ha generato la crisi a catena e dalla quale cerca di rigenerarsi a spese degli altri ed il cui interesse è di tenere il tutto chiuso nel cerchio.
In questa situazione la sovrapproduzione delle merci, che non trovano mercati, blocca gli scambi rimanendo ingessata sia la formula M-D-M (merce-denaro-merce) sia quella di circolazione e valorizzazione del capitale D-M-D (denaro-merce-denaro). Conseguenza diretta il mercato dei capitali, quello finanziario, non trova sbocchi né ritorni rimanendo stagnante la produzione di merci reali.
La guerra appare l’unica soluzione di sblocco.
Diversamente il policentrismo rappresenta la rottura del cerchio, tutto rapportato al recinto della globalizzazione USA.
L’autonomia dei blocchi continentali determina indipendenza economica e gestionale trasformandola in politiche di salvaguardia dei propri interessi e dei rapporti commerciali con gli altri.
Oggi il policentrismo diviene l’unica strada praticabile nell’affrontare la contraddizione tra capitale e lavoro, come sempre dipendente dai rapporti di forza, nella condizione più favorevole alle masse. In Italia non esistono forze politiche in grado di proporre soluzioni o di intraprendere la terza strada che è orientata a possibili sviluppi positivi. I Partiti di governo sono sempre più filo americani che europeisti; ora agitano lo spauracchio del debito pubblico per tagliare sulla ricerca  e distribuire elemosine (40 euro), mentre elargiscono fondi per garantire le banche, privatizzare e svendere i trasporti pubblici e si limitano alla cassa integrazione per le industrie in crisi invece di creare un piano di investimenti per il rilancio produttivo, l’innovazione e l’occupazione.
I politici dell’ex PCI confluiti nel PD, per farsi perdonare di essere stati “comunisti”, sono filo – USA; le generazioni con esperienze di lotta si consumano nella “nostalgia”, la cosiddetta “sinistra radicale” non ha capito la storia e ripete le posizioni dell’Internazionale del ’29-31 per cui la crisi porta automaticamente al socialismo e bisogna radicalizzare la lotta muro contro muro. I partiti comunisti di allora condussero lotte per la democrazia e rivendicazioni sindacali senza avere una linea di risposta alla crisi, compresa una politica di alleanze (per l’ Italia si deduce da quanto hanno scritto Teresa Noce, Rivoluzionaria professionale, La Pietra 1974; Giorgio Amendola, Storia del PCI 1921-43, Editori Riuniti 1978; Carlo Salinari, in “I comunisti raccontano”, v.1, Teti 1975): l’unico a porre correttamente la questione di fare politica fu Gramsci, isolato in carcere e impossibilitato ad agire. Di conseguenza, in Europa vinse il nazismo e si affermarono varie forme di fascismo; in Italia si consolidò il regime, in USA, Gran Bretagna, Francia il capitalismo mantenne il suo dominio.
Oggi maggioranza ed opposizione non hanno una linea; la contrapposizione politica non arriva a niente, occorre un programma che garantisca lo sviluppo economico,l’occupazione e il reddito, e che raccolga attorno ai lavoratori ampie alleanze sociali, considerando che il 90% del ceto medio si sta impoverendo ed il divario tra i ricchi ed i poveri continua a crescere.

Il sistema capitalistico non può risolvere la crisi; questa è una crisi “del” e non “nel” capitalismo come quella del 1929.
Le proposte che vengono avanzate da politici, economisti e intellettuali verso l’opinione pubblica sono:
•    rivitalizzare il mercato (neoliberismo)
•    promuovere l’intervento pubblico (statalismo)
•    valutare i limiti dello sviluppo, ridurre lo spreco di risorse e promuovere la decrescita (no global, localismo).

In tutte esiste un elemento di critica che non viene  portata fino in fondo di conseguenza non emerge nessun nuovo modello e si cade nella passività e nell’impotenza. Diversamente sarebbe necessario approfondire la critica:
– Dov’è il mercato? Da quando esistono le grandi multinazionali, gli accordi di cartello e le guerre commerciali, cioè almeno da tutto il ‘900, non esiste più il “libero mercato” in cui teoricamente tutti i produttori si fanno concorrenza; esistono invece la speculazione internazionale sulle materie prime, l’imposizione dei prezzi al pubblico, la spartizione più o meno “pacifica” dei mercati di consumo,  lo spezzettamento o il raggruppamento di aziende secondo le convenienze di bilancio e di borsa, il controllo sui brevetti e l’innovazione.
– L’intervento pubblico si limita a regalare soldi pubblici a banche, società finanziarie e grandi S.p.A. senza regolamentarne l’attività, così che i profitti degli anni di “vacche grasse” restano a loro e i debiti dovuti alla speculazione folle vengono pagati dai cittadini, mentre i beneficiari ne approfittano per appropriarsi di altre aziende in crisi o di settori una volta pubblici (Alitalia).
– Lo sviluppo capitalistico porta a depredare selvaggiamente la natura, mettendo a rischio la disponibilità di risorse essenziali alla vita e la salute umana; tuttavia limitare i propri consumi individuali o rifornirsi solo sul mercato locale non è la soluzione ai problemi di fame, epidemie, inquinamento globale, povertà e disoccupazione. La scienza e la tecnologia non possono essere viste come sciagure che portano a uno sviluppo incontrollato e incontrollabile ma come fattori che, politicamente ben diretti, danno impulso all’innovazione per il miglioramento sociale.

Dobbiamo concludere che:
–    il mito del libero mercato è crollato (lo ammette anche Tremonti); che il sistema sia capace di risollevarsi da sé è una grande e provata menzogna;
–    è il lavoro, non la speculazione, che crea ricchezza; il capitalismo lo comprime con costi sociali sempre più alti (disoccupazione, precarietà, assenza o crisi della sicurezza sociale);
–    l’intervento dello stato per essere efficace deve regolare il sistema produttivo e non fornirgli stampelle assistenziali;
–    le banche e gli organismi finanziari devono essere regolamentati per dare ossigeno agli investimenti e non alla speculazione borsistica e monetaria;
–    alcuni settori essenziali, come acqua ed energia, sanità, istruzione, reti di trasporti, servizi di sicurezza sociale, devono essere sotto controllo pubblico.

In un mondo multipolare si può sviluppare un nuovo modello di sviluppo del XXI secolo che superi quelli novecenteschi della competizione USA-URSS e della globalizzazione, e che implichi rapporti tra le varie aree del mondo con pari dignità politica e vantaggi reciproci dovuti alla cooperazione e non alla competizione selvaggia. All’interno dei blocchi continentali, e nei rapporti tra i vari blocchi, ogni paese dovrebbe avere garantita la propria indipendenza e garantire quella degli altri, deve poter salvaguardare le proprie basi economiche nel quadro della cooperazione con gli altri paesi. 

Questo nuovo modello di sviluppo comprende:
–    la fine delle delocalizzazioni, lo sviluppo di industrie di eccellenza, basate sulla ricerca e l’innovazione, la ricostruzione di industrie manifatturiere e dell’agricoltura,
–    il miglioramento dei redditi dei lavoratori e dei piccoli o medi produttori;
–    una politica corretta sull’ambiente e l’uso di materie prime;
–    un commercio internazionale basato sul vantaggio reciproco;
–    una diffusione omogenea di una base minima di modernizzazione, l’utilizzo comune delle nuove tecnologie di base, una ricerca di respiro mondiale che rivitalizzi i settori industriali esistenti e ne sviluppi di nuovi.
Per l’Europa questo comporta la messa al bando del modello anglosassone responsabile della la crisi in tutti i campi, compresa la subordinazione militare. E’ necessario aprirsi ai paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente, fornitori di materie prime, che potrebbero collegarsi strettamente all’Unione Europea con accordi equi.

  

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