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Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?

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[ 26 dicembre 2009 ]

 

di Samir Amin

Il principio dell’accumulazione senza fine che definisce il capitalismo è sinonimo di crescita esponenziale, ed essa – come il cancro – porta alla morte. Stuart Mill, che l’aveva capito, immaginava uno “stato stazionario” che avrebbe posto fine a questo processo irrazionale. Keynes condivideva questo ottimismo della ragione. Ma né l’uno né l’altro erano attrezzati per capire come poter realizzare il necessario superamento del capitalismo. Marx invece, facendo posto alla nuova lotta di classe, poteva immaginare di rovesciare il potere della classe capitalistica, concentrato oggi nelle mani dell’oligarchia.
L’accumulazione, sinonimo anche di pauperizzazione, disegna il quadro oggettivo delle lotte contro il capitalismo. Ma essa si esprime soprattutto con il contrasto crescente fra l’opulenza delle società del centro, beneficiarie della rendita imperialistica, e la miseria di quelle delle periferie dominate. Questo conflitto diventa di fatto l’asse centrale dell’alternativa “socialismo o barbarie”.
Il capitalismo storico “realmente esistente” è associato a forme successive di accumulazione per spossessamento, non soltanto all’origine (l’accumulazione primitiva) ma in tutte le tappe del suo sviluppo. Una volta costituito, questo capitalismo “atlantico” è partito alla conquista del mondo e lo ha ridisegnato sulla base del permanere dello spossessamento delle regioni conquistate, che diventavano così le periferie dominate del sistema.
Questa mondializzazione “vittoriosa” si è dimostrata incapace di imporsi in modo durevole. Solo mezzo secolo dopo il suo trionfo, che sembrava già inaugurare la “fine della storia”, essa veniva messa in discussione dalla rivoluzione della semiperiferia russa e dalle lotte (vittoriose) di liberazione in Asia e Africa, che hanno fatto la storia del XX secolo – la prima ondata di lotta per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli.
L’accumulazione per spossessamento prosegue sotto i nostri occhi nel tardo capitalismo degli oligopoli contemporanei. Nei paesi del centro, la rendita di monopolio di cui beneficiano le plutocrazie oligopolistiche è sinonimo di spossessamento dell’insieme della base produttiva della società. Nelle periferie, questo spossessamento pauperizzante si manifesta nell’espropriazione dei contadini e con il saccheggio delle risorse naturali delle regioni interessate. Entrambe le pratiche costituiscono i pilastri essenziali delle strategie espansionistiche del tardo capitalismo degli oligopoli.
In questo spirito, io pongo la “nuova questione agraria” al centro della sfida per il XXI secolo. Lo spossessamento delle società contadine (in Asia, Africa e America Latina) costituisce la forma contemporanea più saliente della tendenza alla pauperizzazione (nel senso che dava Marx a questa “legge”) associata all’accumulazione. La sua attuazione è indissociabile dalle strategie di captazione della rendita imperialistica da parte degli oligopoli, con o senza agrocombustibili. Ne deduco che lo sviluppo delle lotte su questo terreno, le risposte che saranno date all’avvenire delle società contadine del Sud (circa la metà dell’umanità) determineranno ampiamente la capacità o meno dei lavoratori di progredire sulla strada della costruzione di una civiltà autentica, liberata dal dominio del capitale, per la quale io non vedo altro nome che quello di socialismo.
Il saccheggio delle risorse naturali del Sud necessario per proseguire il modello di consumo basato sullo spreco a beneficio esclusivo delle società opulente del Nord annulla ogni prospettiva di sviluppo degno di questo nome per i popoli interessati, e costituisce perciò l’altra faccia della pauperizzazione a livello mondiale. In questo spirito, la “crisi dell’energia” non è il prodotto della rarefazione di certe risorse necessarie per la sua produzione (naturalmente si parla del petrolio), e neppure il prodotto degli effetti distruttivi delle forme energivore di produzione e di consumo oggi in vigore. Questa descrizione – peraltro corretta – non va oltre le evidenze banali e immediate. Questa crisi è il prodotto della volontà degli oligopoli dell’imperialismo collettivo di assicurarsi il monopolio dell’accesso alle risorse naturali del pianeta,più o meno rare, per appropriarsi della rendita imperialistica, anche nel caso in cui l’utilizzo di queste risorse restasse com’è (energivora e di spreco) oppure fosse soggetto a nuove politiche correttive “ecologiste”. Ne deduco inoltre che se la strategia di espansione del tardo capitalismo degli oligopoli continuerà in questa maniera, provocherà necessariamente la crescente resistenza delle nazioni del Sud.
La crisi attuale non è dunque una crisi finanziaria, e neppure la somma di crisi sistemiche multiple, ma è la crisi del capitalismo imperialistico degli oligopoli, ilo cui potere esclusivo e suprema rischia di venir messo in questione, ancora una volta, con le lotte dell’insieme delle classi popolari nonché dei popoli e delle nazioni delle periferie dominate, anche se in apparenza “emergenti”. E’ nello stesso tempo una crisi dell’egemonia degli Stati Uniti. Capitalismo degli oligopoli, potere politico delle oligarchie, mondializzazione barbara, finanziarizzazione, egemonia degli Stati Uniti, militarizzazione della gestione della mondializzazione al servizio degli oligopoli, declino della democrazia, saccheggio delle risorse del pianeta e abbandono delle prospettive di sviluppo del Sud sono tutti fenomeni indissociabili.
La vera sfida è dunque questa: queste lotte riusciranno a convergere per aprire la strada – o le strade – sul lungo cammino verso la transizione al socialismo mondiale? Oppure resteranno separate le une dalle altre, o addirittura in conflitto, e perciò inefficaci, in modo da lasciare l’iniziativa al capitale degli oligopoli?

Da una lunga crisi all’altra

Il crollo finanziario del settembre 2008 probabilmente ha colto di sorpresa gli economisti convenzionali della “mondializzazione felice” e ha disarcionato qualche costruttore del discorso liberale che trionfava dal tempo della caduta del muro di Berlino, come si usa dire. Se invece l’evento non ha sorpreso noi – noi l’aspettavamo (senza certo averne predetto la data) – è semplicemente perché per noi esso si iscriveva naturalmente nello sviluppo della lunga crisi del capitalismo in fase di senescenza fin dagli anni 70.
E’ opportuno tornare a riflettere sulla prima lunga crisi del capitalismo, che ha forgiato il XX secolo, tanto è impressionante il parallelo fra le tappe di sviluppo delle due crisi.
Il capitalismo industriale trionfante del XIX secolo entra in crisi a partire dal 1873. I tassi di profitto crollano, per le ragioni evidenziate da Marx. Il capitale reagisce con un doppio movimento di concentrazione e di espansione mondializzata. I nuovi monopoli confiscano a loro profitto una rendita prelevata sulla massa di plusvalore generata dallo sfruttamento del lavoro. Essi accelerano la conquista coloniale del pianeta. Queste trasformazioni strutturali permettono una nuova ascesa dei profitti e aprono la “belle époque” – dal 1890 al 1914 – che è segnata dal dominio mondializzato del capitale dei monopoli finanziarizzati. I discorsi allora dominanti fanno l’elogio della colonizzazione (la “missione civilizzatrice”), fanno della mondializzazione il sinonimo di pace, e la socialdemocrazia operaia europea si unisce a questo coro.
La “belle époque”, annunciata come la “fine della storia” dagli ideologi del tempo, termina con la guerra mondiale, come solo Lenin aveva previsto. Il periodo che segue, fino all’indomani della seconda guerra mondiale, sarà un periodo di guerre e rivoluzioni. Nel 1920, isolata la rivoluzione russa (l’“anello debole” del sistema) dopo la sconfitta delle speranze rivoluzionarie in Europa centrale, il capitale dei monopoli finanziarizzati restaura contro venti e maree il sistema della “belle époque”. Una restaurazione, denunciata allora da Keynes, che è all’origine del crollo finanziario del 1929 e della depressione che comporta fino alla seconda guerra mondiale.
Il lungo XX secolo – 1873/1990 – è dunque il secolo della prima profonda crisi sistemica del capitalismo senescente (al punto che Lenin pensa che quel capitalismo dei monopoli costituisca la “fase suprema del capitalismo”) e nello stesso tempo quello di una prima ondata trionfante di rivoluzioni anticapitalistiche (Russia, Cina) e di movimenti antimperialistici dei popoli d’Asia e Africa.
La seconda crisi sistemica del capitalismo si apre nel 1971, con l’abbandono della convertibilità in oro del dollaro, quasi esattamente un secolo dopo l’inizio della prima. I tassi di profitto, di investimento e di crescita crollano (non ritroveranno mai più il livello che avevano raggiunto nel periodo 1945-75). Il capitale risponde alla sfida come nella crisi precedente facendo un doppio movimento di concentrazione e mondializzazione. Instaura così delle strutture che definiranno la seconda “belle époque” (1990-2008) di mondializzazione finanziarizzata che permette ai gruppi oligopolistici di prelevare la rendita di monopolio. Gli stessi discorsi di accompagnamento: il “mercato” garantisce la prosperità, la democrazia e la pace; è la “fine della storia”. Stesso allineamento dei socialisti europei al nuovo liberismo.  Eppure questa nuova “belle époque” viene accompagnata fin dall’inizio dalla guerra, quella del Nord contro il Sud, iniziata fin dal 1990. E appunto come la prima mondializzazione aveva provocato il 1929, la seconda ha prodotto il 2008. Siamo giunti oggi al momento cruciale che annuncia la probabilità di una nuova ondata di guerre rivoluzioni. Tanto più che i poteri attuali non sanno prevedere altro che la restaurazione del sistema come era prima del crollo finanziario.
L’analogia fra lo sviluppo delle due lunghe crisi sistemiche del capitalismo senescente è impressionante. Ci sono peraltro delle differenze la cui portata politica è importante.


Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?

Dietro la crisi finanziaria, la crisi sistemica del capitalismo degli oligopoli

Il capitalismo contemporaneo è soprattutto e anzitutto un capitalismo di oligopoli nel senso pieno del termine (finora non lo era che in parte). Intendo dire che gli oligopoli da soli dominano la riproduzione del sistema produttivo nel suo complesso. Essi sono “finanzia rizzati” nel senso che essi soli hanno accesso al mercato dei capitali. Tale finanziarizzazione presta al mercato monetario e finanziario – il loro mercato, quello su cui si fanno concorrenza fra loro – lo status di mercato dominante, che a sua volta forgia e domina i mercati del lavoro e dello scambio dei prodotti.
La finanziarizzazione mondializzata si esprime con una trasformazione della classe dirigente borghese, divenuta ora plutocrazia redditiera. Gli oligarchi non sono solo russi, come troppo spesso si dice, ma molto di più statunitensi, europei e giapponesi. Il declino della democrazia è il prodotto inevitabile di questa concentrazione del potere a beneficio esclusivo degli oligopoli.
E’ importante d’altra parte precisare la nuova forma della mondializzazione capitalistica, che corrisponde a questa trasformazione, in contrapposizione a quella che caratterizzava la prima “belle époque”. Io la esprimo in una frase: il passaggio dall’imperialismo declinato al plurale (quello delle potenze imperialistiche in conflitto permanente fra loro) all’imperialismo collettivo della triade (Stati Uniti, Europa, Giappone).
I monopoli che emergono in risposta alla prima crisi del tasso di profitto si sono costituiti su basi che hanno rafforzato la violenza della concorrenza fra le maggiori potenze imperialistiche del tempo, e hanno portato al grande conflitto iniziato nel 1914, proseguito attraverso la pace di Versailles e poi con la seconda guerra mondiale fino al 1945. Ciò che Arrighi, Frank, Wallerstein e io stesso avevamo definito fin dagli anni 70 come la “guerra dei trent’anni”, termine ripreso poi da altri.
Invece la seconda ondata di concentrazione oligopolistica, iniziata negli anni 70, si è costituita su basi totalmente diverse, nel quadro di un sistema che ho definito “imperialismo collettivo della triade” (Stati Uniti, Europa, Giappone). In questa nuova mondializzazione imperialistica, il dominio dei centri non si esercita più per mezzo del monopolio della produzione industriale (come era il caso prima) ma con altri mezzi (il controllo delle tecnologie, dei mercati finanziari, dell’accesso alle risorse naturali, dell’informazione e della comunicazione, delle armi di distruzione di massa). Il sistema che ho definito di “apartheid su scala mondiale” implica la guerra permanente contro gli Stati e i popoli delle periferie recalcitranti, guerra iniziata nel 1990 con il controllo militare del pianeta da parte degli Stati Uniti e gli alleati subalterni della Nato.
La finanziarizzazione del sistema è indissociabile, nella mia analisi, dal suo carattere oligopolistico. Si tratta di un rapporto organico fondamentale. Questo punto di vista non è quello dominante, non solo nella voluminosa letteratura degli economisti convenzionali, ma anche nella maggior parte degli scritti critici sulla crisi in corso.

Il sistema è tutto ormai in difficoltà

I fatti sono noti: il crollo finanziario sta già producendo non una “recessione” ma una vera, profonda depressione. Ma oltre questo, sono emerse alla coscienza pubblica altre dimensioni della crisi del sistema, ancor prima del crollo finanziario. Se ne conoscono le grandi linee – crisi energetica, crisi alimentare, crisi ecologica, cambiamenti climatici – e vengono quotidianamente presentate varie analisi, alcune pregevoli, di questi aspetti delle sfide contemporanee.
Io rimando comunque critico circa questo modo di trattare la crisi sistemica del capitalismo, che isola le diverse dimensioni della sfida. Ridefinisco quindi le “crisi” diverse come sfaccettature della stessa sfida, quella del sistema della mondializzazione capitalistica contemporanea (liberista o meno) fondato sul prelievo che la rendita capitalistica opera su scala mondiale, a profitto degli oligopoli dell’imperialismo collettivo della triade.
La vera battaglia si combatte su questo terreno decisivo fra gli oligopoli che cercano di produrre e riprodurre le condizioni che gli permettono di appropriarsi della rendita imperialistica e tutte le loro vittime – lavoratori di tutti i paesi del Nord e del Sud, popoli delle periferie dominate, condannati a rinunciare ad ogni prospettiva di sviluppo degno di questo nome.

Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?

La formula era stata proposta da André Gunder Frank e da me nel 1974.
L’analisi che noi proponevamo della nuova grande crisi che giudicavamo già iniziata ci aveva portato a concludere che il capitale avrebbe risposto alla sfida con una nuova ondata di concentrazioni, sulla cui base avrebbe proceduto a delocalizzazioni di massa. Cosa ampiamente confermata dalle ulteriori evoluzioni. Il titolo di un nostro intervento a un colloquio organizzato dal “Manifesto” a Roma in quella data (“Non aspettiamo il 1984”, con riferimento all’opera di George Orwell tratta dall’oblio in quell’occasione) invitava la sinistra radicale dell’epoca a rinunciare a correre in soccorso del capitale con la ricerca di “uscite dalla crisi”, per impegnarsi invece in strategie di “uscita dal capitalismo in crisi”.
Ho continuato su questa linea di analisi con una ostinazione che non rimpiango.
Io proponevo di teorizzare le nuove forme di dominio dei centri imperialistici fondandosi sull’affermazione di modi nuovi di controllo che si sostituivano al vecchio monopolio dell’esclusiva industriale, cosa confermata poi dall’ascesa dei paesi poi definiti “emergenti”. Io definivo la nuova mondializzazione in costruzione come “apartheid su scala mondiale”, che esigeva la gestione militarizzata del pianeta, e che perpetuava con nuove condizioni la polarizzazione indissociabile dall’espansione del “capitalismo realmente esistente”.

La seconda ondata di emancipazione dei popoli: un remake del XX secolo o qualcosa di meglio?

Non ci sono alternative alla prospettiva socialista

Il mondo contemporaneo è governato dalle oligarchie. Oligarchie finanziarie negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone, che dominano non soltanto la vita economica, ma anche la politica e la vita quotidiana. Oligarchie russe a loro immagine che lo Stato russo cerca di controllare. Statocrazia in Cina. Autocrazie (a volte nascoste dietro qualche apparenza di democrazia elettorale “a bassa intensità”) inquadrate in questo sistema mondiale altrove, nel resto del pianeta.
La gestione della mondializzazione contemporanea da parte delle oligarchie è in crisi.
Le oligarchie del Nord non si sentono minacciate e pensano di restare al potere, una volta passato il tempo della crisi. Invece la fragilità dei poteri delle autocrazie del Sud è ben visibile. L’attuale mondializzazione si presenta per questo molto fragile. Sarà rimessa in discussione dalla rivolta del Sud, come nel secolo passato? Probabile. Ma triste. Giacché l’umanità si impegnerà sulla via del socialismo – sola alternativa umana al caos – solo quando i poteri delle oligarchie, dei loro alleati e dei loro lacchè saranno sconfitti sia nei paesi del Nord che in quelli del Sud.
Viva l’internazionalismo dei popoli contro il cosmopolitismo delle oligarchie.

E’ possibile che il capitalismo degli oligopoli finanziarizzati e mondializzati torni in sella?

Il capitalismo è “liberista” per natura, se per “liberismo” si intende non quella cosa bella che il termine ispira ma l’esercizio pieno e intero del dominio del capitale non solo sul lavoro e l’economia, ma su tutti gli aspetti della vita sociale. Non esiste “economia di mercato” (espressione volgare per indicare il capitalismo) senza “società di mercato”. Il capitale persegue ostinatamente questo obiettivo unico. Il denaro. L’accumulazione per se stessa. Marx, ma dopo di lui altri teorici critici come Keynes, l’hanno capito perfettamente. Non i nostri economisti convenzionali, inclusi quelli di sinistra.
Questo modello di dominio esclusivo e totale del capitale era stato imposto con ostinazione dalle classi dirigenti per tutto il lungo periodo della crisi precedente, fino al 1945. Solo la triplice vittoria della democrazia,a del socialismo e della liberazione nazionale dei popoli aveva permesso – fra il 1945 e il 1980 – di sostituire a questo modello permanente dell’ideale capitalistico, la coesistenza conflittuale dei tre modelli sociali regolati quali sono stati il welfare state della socialdemocrazia a ovest, i socialismi realmente esistenti a est e i nazionalismi popolari al sud. Successivamente, l’indebolimento e poi il crollo dei tre modelli ha reso possibile un ritorno al dominio esclusivo del capitale, definito neoliberista.
Ho associato questo nuovo “liberismo” a un complesso di nuove caratteristiche di ciò che mi è sembrato meritare la definizione di “capitalismo senile”. Il libro così intitolato, pubblicato nel 2001, era fra i pochi scritti che in quell’epoca, lungi dal vedere nel neoliberismo mondializzato e finanziarizzato la “fine della storia”, analizzava il sistema del capitalismo senescente evidenziandone l’instabilità che lo destinava al crollo, precisamente a partire dalla sua dimensione finanzia rizzata (il suo “tallone d’Achille”, come ho scritto).
Gli economisti convenzionali sono rimasti ostinatamente sordi a ogni tentativo di mettere in discussione i loro dogmi. Al punto da esser stati incapaci di prevedere il crollo finanziario del 2008. Coloro che i media dominanti hanno presentato come “critici” non meritano molto la definizione. Stiglitz resta convinto che il sistema quale era – il liberismo mondializzato e finanzia rizzato – può tornare in sella, a patto di qualche correzione. Amartya Sen predica la morale senza osar pensare il capitalismo realmente esistente quale è necessariamente.
I disastri sociali che il liberismo – “l’utopia permanente del capitale”,come ho scritto – non avrebbe mancato di provocare hanno ispirato molte nostalgie del passato recente o lontano. Ma le nostalgie non servono per rispondere alla sfida. Esse sono il prodotto di un impoverimento del pensiero critico teorico che si era a poco a poco vietato di capire le contraddizioni interne e  limiti dei sistemi del dopoguerra, in cui le erosioni, le derive e i crolli sono apparsi come cataclismi imprevisti.
Tuttavia, nel vuoto creato da questi arretramenti del pensiero teorico critico, una presa di coscienza delle nuove dimensioni della crisi sistemica di civiltà ha trovato il modo di aprirsi la strada. Mi riferisco qui agli ecologisti. Ma i Verdi, che hanno preteso di distinguersi radicalmente sia dai Blu (conservatori e liberali) che dai Rossi (i socialisti) si sono rinchiusi in un vicolo cieco, incapaci di integrare la dimensione ecologica della sfida con una critica radicale del capitalismo.
Tutto era a posto dunque per assicurare il trionfo – di fatto passeggero, ma vissuto come “definitivo” – dell’alternativa detta della “democrazia liberale”. Un pensiero misero – un autentico non pensiero – che ignora ciò che Marx aveva detto di decisivo riguardo alla democrazia borghese, che ignora che coloro che decidono non sono coloro che sono toccati dalle decisioni. Coloro che decidono godono della libertà rafforzata dal controllo della proprietà, e sono oggi i plutocrati del capitalismo degli oligopoli e gli Stati che sono loro debitori. Per forza di cose i lavoratori e i popoli interessati non sono altro che le loro vittime. Ma simili sciocchezze potevano sembrare credibili, per un breve momento, per via delle derive dei sistemi del dopoguerra, quando la miseria delle dogmatiche non riusciva più a capire le origini. La democrazia liberale poteva allora sembrare il “migliore dei sistemi possibili”.
Oggi i poteri attuali, che non avevano previsto nulla di ciò, si sforzano di restaurare lo stesso sistema. Il loro eventuale successo, come quello dei conservatori degli anni 20 – che Keynes denunciava senza allora ottenere ascolto – potrà solo aggravare l’ampiezza delle contraddizioni che sono all’origine del crollo finanziario del 2008.
Non è meno grave il fatto che gli economisti “di sinistra” si sono allineati da tempo sulle tesi dell’economia volgare e hanno accettato l’idea – sbagliata – della razionalità dei mercati. Essi hanno concentrato i loro sforzi sulla definizione delle condizioni di tale razionalità, abbandonando Marx – che aveva da parte sua rivelato l’irrazionalità dei mercati dal punto di vista dell’emancipazione dei lavoratori e dei popoli – giudicato ormai “obsoleto”. Nella loro prospettiva, il capitalismo è flessibile, si adegua alle esigenze del progresso (tecnologico e anche sociale), se viene obbligato. Questi economisti di “sinistra” non erano preparati a capire che la crisi che è scoppiata era inevitabile. E sono ancor meno preparati a fronteggiare le sfide che i popoli hanno oggi di fronte. Come gli altri economisti volgari, essi cercheranno di riparare i guasti, senza capire che per riuscirvi è necessario intraprendere un’altra strada, quella del superamento delle logiche fondamentali del capitalismo. Invece di cercar di uscire dal capitalismo in crisi, pensano di poter uscire dalla crisi del capitalismo.

Crisi dell’egemonia degli Stati Uniti

La recente riunione del G20 (Londra, aprile 2009) non ha affatto avviato una “ricostruzione del mondo”. E forse non è un caso che sia stata seguita da quella della Nato, il braccio armato dell’imperialismo contemporaneo, e dal rafforzamento del suo impegno militare in Afghanistan. La guerra permanente del Nord con il Sud deve continuare.
Già si sapeva che i governi della triade – Stati Uniti, Europa, Giappone – perseguono l’obiettivo esclusivo di ripristinare il sistema come era prima del settembre 2008, e non bisogna prendere sul serio gli interventi a Londra del presidente Obama e di Gordon Brown da una parte, quelli di Sarkozy e di Angela Merkel dall’altra, destinati a divertire la platea. Le pretese “differenze” rilevate dai media, prive di reale consistenza, rispondono solo al bisogno dei vari leader politici di farsi valere di fronte alle rispettive opinioni pubbliche sprovvedute. “Rifondare il capitalismo”, “moralizzare le operazioni finanziarie”: molte parolone per evitare le questioni vere. Ripristinare il sistema non è impossibile, ma non risolverà i problemi, ne aggraverà piuttosto la portata. La “commissione Stiglitz” convocata dalle Nazioni Unite, si inquadra in questa strategia di costruzione di un trompe l’oeil. Evidentemente non ci si può aspettare altro dagli oligarchi che controllano i poteri reali e dai loro debitori politici. Il punto di vista che ho sviluppato, ponendo l’accento sui rapporti fra il dominio degli oligopoli e la necessaria finanziarizzazione della gestione dell’economia mondiale – che sono indissociabili – è ben confermato dai risultati del G20.
Risulta invece più interessante il fatto che i leader dei “paesi emergenti” invitati sono rimasti in silenzio. Nel corso di quella giornata di gran circo, solo una frase intelligente è stata pronunciata dal presidente cinese Hu Jintao, che quasi di sfuggita , senza insistere e con un sorriso (ironico?), ha fatto osservare che bisognerà ben cominciare a prendere in considerazione l’ipotesi di un sistema finanziario mondiale non fondato sul dollaro. Alcuni rari commentatori hanno immediatamente fatto il confronto – corretto – con le proposte di Keynes nel 1945.
Questa “osservazione” ci riporta alla realtà: che la crisi del sistema del capitalismo oligopolistico è indissociabile da quella dell’egemonia degli Stati Uniti, ormai allo stremo. Ma chi gli darà il cambio? Certo non l’“Europa”, che non esiste al di fuori dell’atlantismo e non nutre alcuna ambizione di indipendenza, come ha dimostrato ancora una volta l’assemblea della Nato. La Cina? Questa “minaccia”, che i media invocano a sazietà (un nuovo “pericolo giallo”) indubbiamente per legittimare l’allineamento atlantico, è senza fondamento. I dirigenti cinesi sanno che il loro paese non ne ha i mezzi, e loro non ne hanno la volontà. La strategia della Cina si limita a operare per dare avvio a una nuova mondializzazione senza egemonia, cosa che né gli Stati Uniti né l’Europa giudicano accettabile.
Le possibilità di uno sviluppo che vada in questo senso riposano ancora totalmente sui paesi del Sud. E non è un caso che la Cnuced sia la sola istituzione delle Nazioni Unite che abbia preso iniziative molto diverse da quelle della Commissione Stiglitz. Non è un caso che il suo direttore, il tailandese Supachai Panitchpakdi, considerato finora come un perfetto liberista, nel suo rapporto intitolato The Global Economic Crisis del marzo 2009, abbia osato fare delle proposte realistiche e avanzate, nella prospettiva di un secondo momento di “risveglio del Sud”.
La Cina da parte sua ha avviato la costruzione – progressiva e controllata –  di sistemi finanziari regionali alternativi e indipendenti dal dollaro. Iniziative che completano sul piano economico le alleanze politiche del “gruppo di Shanghai”, il maggiore ostacolo al bellicismo della Nato.
L’assemblea della Nato, riunita nell’aprile del 2009, ha confermato la decisione di Washington di non avviare il disimpegno militare, ma invece di accentuarne l’ampiezza, sempre sotto il fallace pretesto della lotta al “terrorismo”. Il presidente Obama usa dunque tutto il suo talento per tentare di salvare il programma di Clinton e poi di Bush di controllo militare del pianeta, unico mezzo per prolungare l’egemonia americana ormai minacciata. Obama ha ottenuto dei risultati facendo capitolare senza condizioni la Francia di Sarkozy – la fine del gollismo – che è tornata nel comando militare della Nato, cosa rimasta difficile finché Washington parlava con la voce di Bush, sprovvista d’intelligenza ma non di arroganza. Per di più Obama è salito in cattedra, come Bush, senza preoccuparsi di rispettare “l’indipendenza” dell’Europa, per invitarla ad accettare l’integrazione della Turchia nell’Unione Europea!

Verso una seconda ondata di lotte vittoriose per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli

Sono possibili nuovi progressi nelle lotte di emancipazione dei popoli?

La gestione politica del dominio mondiale del capitale degli oligopoli comporta necessariamente un’estrema violenza. Per conservare la loro posizione di società opulente, i paesi della triade imperialistica sono ormai costretti a riservare a loro esclusivo beneficio l’accesso alle risorse naturali del pianeta. Questa nuova esigenza sta all’origine della militarizzazione della mondializzazione, che io ho definito come “impero del caos” (titolo di una delle mie opere, pubblicata nel 2001), espressione poi ripresa da altri.
Nella scia del progetto di Washington di controllo militare del pianeta. Conducendo perciò “guerre preventive” con la scusa della lotta al “terrorismo”, la Nato si è autopromossa come “rappresentante della comunità internazionale”, emarginando perciò l’ONU, la sola istituzione qualificata  per parlare a quel titolo.
Naturalmente non si possono confessare gli obiettivi reali. Per mascherarli, le potenze interessate hanno scelto di strumentalizzare il discorso della democrazia e si sono concesse un “diritto di intervento” per imporre il “rispetto dei diritti umani” !
Parallelamente, il potere assoluto delle nuove oligarchie ha svuotato di ogni contenuto la pratica della democrazia borghese. Mentre nel passato era necessaria la negoziazione politica fra le diverse componenti del blocco egemonico necessario per la riproduzione del potere del capitale, la nuova gestione politica della società del capitalismo oligopolistico, con una sistematica depoliticizzazione, fonda una nuova cultura politica basata sul “consenso” (sul modello degli Stati Uniti), che sostituisce il consumatore e lo spettatore politico al cittadino attivo, condizione di una democrazia autentica. Questo “virus liberale” (per riprendere il tiolo della mia opera pubblicata nel 2005) abolisce l’apertura su scelte alternative possibili e vi sostituisce il consenso intorno al solo rispetto della democrazia elettorale.
L’indebolimento e poi il crollo dei tre modelli di gestione sociale evocati prima sono all’origine del dramma. La pagina della prima ondata di lotte per l’emancipazione è stata voltata, quella della seconda ondata non si è ancora aperta. Nella penombra che le separa, si “disegnano i mostri”, come scriveva Gramsci.
Nei paesi del Nord questa evoluzione sta all’origine della perdita di senso della pratica democratica. L’arretramento viene giustificato ricorrendo al discorso cosiddetto “post-modernista”, secondo cui nazioni e classi avrebbero abbandonato la scena per lasciare il posto all’ “individuo”, diventato soggetto attivo della trasformazione sociale.
Nei paesi del Sud la scena è occupata da nuove illusioni: l’illusione di uno sviluppo capitalistico nazionale autonomo iscritto entro la mondializzazione, molto sentita fra le classi dominanti e medie dei paesi “emergenti” e confortata dal successo immediato degli ultimi decenni; o le illusioni passatiste (para-etniche o para-religiose) nei paesi rimasti più indietro.
Più grave risulta il fatto che questo corso degli avvenimenti favorisce l’adesione generale all’a “ideologia dei consumi”, all’idea che il progresso si misuri sulla crescita quantitativa. Marx aveva dimostrato che è il modo di produzione che determina quello del consumo, e non l’inverso, come pretende l’economia volgare. Viene così totalmente persa di vista la prospettiva di una razionalità umanista superiore, fondamento del progetto socialista. Il gigantesco potenziale che l’applicazione della scienza e della tecnologia offre all’umanità intera, e che dovrebbe permettere agli individui e alle società di fiorire pienamente, al Nord come al Sud, viene sprecato per la necessità di assoggettarlo alle logiche dell’accumulazione del capitale. Più grave ancora, i progressi continui della produttività sociale del lavoro vengono associati a uno sviluppo vertiginoso dei meccanismi di pauperizzazione (ben visibili su scala mondiale, fra l’altro per l’offensiva generalizzata contro le società contadine), come Marx aveva ben capito.
L’adesione all’alienazione ideologica prodotta dal capitalismo non colpisce soltanto le società opulente dei centri imperialistici. I popoli delle periferie –nella stragrande maggioranza esclusi dall’accesso a livelli accettabili di consumo – accecati da aspirazioni a un consumo analogo a quello del Nord opulento, perdono la coscienza che la logica di sviluppo del capitalismo storico rende impossibile generalizzare il modello in questione a tutto il pianeta.
Si comprendono allora le ragioni per cui il crollo finanziario del 2008 è stato risultato esclusivo dell’acutizzarsi delle contraddizioni interne caratteristiche dell’accumulazione del capitale. Solo l’intervento di forze portatrici di un’alternativa positiva permette di immaginare un’uscita dal caos prodotto dall’acutizzarsi delle contraddizioni interne del sistema (io opponevo la “via rivoluzionaria” al modello di superamento di un sistema storicamente obsoleto con la “decadenza”). Allo stato attuale delle cose, i movimenti di protesta sociale, malgrado la loro notevole ascesa, restano nell’insieme incapaci di mettere in discussione l’ordine sociale associato al capitalismo degli oligopoli, per mancanza di un progetto politico coerente che sia all’altezza delle sfide.
Da questo punto di vista la situazione attuale è molto diversa da quella che prevaleva negli anni 30, quando si affrontavano forze portatrici di opzioni socialiste da una parte e di partiti fascisti dall’altra, producendo qua la risposta nazista e là il New Deal e i Fronti popolari.
Non si potrà evitare che la crisi diventi più profonda, anche nell’ipotesi di un eventuale successo – non impossibile – del sistema di dominio del capitale oligopolistico. In queste condizioni la radicalizzazione delle lotte non è un’ipotesi impossibile, anche se gli ostacoli restano notevoli.
Nei paesi della triade la radicalizzazione comporterebbe il mettere in agenda l’espropriazione degli oligopoli, il che sembra escluso per il futuro immediato. Perciò non è possibile scartare l’ipotesi che malgrado le turbolenze provocate dalla crisi, non venga messa in discussione la stabilità delle società della triade. Sembra serio invece il rischio di un remake dell’ondata di lotte di emancipazione del secolo scorso, che rimetta in discussione il sistema a partire da alcune periferie.
Una seconda tappa del “risveglio del Sud” (per riprendere il titolo del mio libro pubblicato nel 2007, che offre una lettura del periodo di Bandung come primo tempo del risveglio) risulta oggi all’ordine del giorno. Nella migliore delle ipotesi, i progressi realizzati in queste condizioni potrebbero costringere l’imperialismo ad arretrare, a rinunciare al progetto demenziale e criminale di controllo militare del pianeta. E in questo caso il movimento democratico nei paesi del centro potrebbe contribuire positivamente al successo di questa neutralizzazione. Inoltre il decremento della rendita imperialistica di cui godono le società della triade, prodotto dalla riorganizzazione degli equilibri internazionali a favore del Sud (in particolare la Cina) potrebbe efficacemente aiutare il risveglio di una coscienza socialista. Ma d’altra parte le società del Sud dovranno sempre affrontare le stesse sfide del passato, con gli stessi limiti posti al loro progresso.

Un nuovo internazionalismo dei lavoratori e dei popoli è necessario e possibile

Il capitalismo storico è tutto quel che si vuole, tranne che durevole. Non è che una breve parentesi nella storia. Rimetterlo in causa – cosa che i teorici nostri contemporanei non immaginano né “possibile” e neppure “auspicabile” – è peraltro la condizione imprescindibile dell’emancipazione dei lavoratori e dei popoli dominati (quelli della periferia, l’80% dell’umanità). Le due dimensioni della sfida non si possono dissociare. Non si potrà uscire dal capitalismo solo con la lotta dei popoli del Nord e neppure solo con la lotta dei popoli dominati del Sud. Si potrà uscire dal capitalismo solo quando, e nella misura in cui, le due dimensioni della stessa sfida si articoleranno l’una con l’altra. Non è “certo” che ciò succeda, nel qual caso il capitalismo sarà “superato” dalla distruzione della civiltà (al di là del disagio della civiltà, per usare i termini di Freud) e forse anche della vita sul pianeta. Lo scenario di un possibile remake del XX secolo resterà dunque al di qua delle esigenze di un impegno dell’umanità sulla lunga strada della transizione al socialismo mondiale. Il disastro liberista impone un rinnovamento della critica radicale del capitalismo. E’ la sfida cui oggi si confronta la costruzione/ricostruzione permanente dell’internazionalismo dei lavoratori e dei popoli, in contrasto con il cosmopolitismo del capitale oligarchico.
La costruzione di questo internazionalismo passa necessariamente per il successo dei nuovi tentativi rivoluzionari (come quelli iniziati in America Latina e in Nepal) che aprono la prospettiva di un superamento del capitalismo.
Nei paesi del Sud la lotta degli Stati e delle nazioni per una mondializzazione negoziata senza egemonie – forma contemporaneo dello sganciamento – sostenuta dall’organizzazione delle rivendicazioni delle classi popolari, può circoscrivere e limitare il potere degli oligopoli della triade imperialistica. Le forze democratiche nei paesi del Nord devono pure sostenere questa lotta. Il discorso “democratico” proposto e accettato dalla maggioranza delle sinistre come sono oggi, gli interventi “umanitari” condotti in suo nome, come le pratiche miserabili degli “aiuti”, escludono dalla loro considerazione il confronto reale con questa sfida.
Nei paesi del Nord gli oligopoli sono già visibilmente dei “beni comuni” la cui gestione non può essere affidata ai soli interessi particolari (la crisi ne ha dimostrato i risultati catastrofici). Una sinistra autentica deve avere l’audacia di immaginarne la nazionalizzazione, prima tappa imprescindibile nella prospettiva della loro socializzazione mediante l’approfondirsi della pratica democratica. La crisi in corso permette di immaginare la possibile formazione di un fronte di forze sociali e politiche che raduni tutte le vittime del potere esclusivo delle oligarchie.
La prima ondata di lotte per il socialismo, nel XX secolo, ha dimostrato i limiti delle socialdemocrazie europee, dei comunismi della Terza internazionale e dei nazionalismi popolari dell’epoca di Bandung, l’indebolirsi e poi il crollo delle loro ambizioni socialiste. La seconda ondata, nel XXI secolo, deve trarne le conseguenze. In particolare, bisogna associare la socializzazione della gestione economica con una più profonda democratizzazione della società. Non ci sarà socialismo senza democrazia, ma neppure alcun progresso democratico fuori dalla prospettiva socialista.
Questi obiettivi strategici invitano a pensare alla costruzione di “convergenze nella diversità” (per riprendere l’espressione del Forum mondiale delle alternative) delle forme di organizzazione e di lotta delle classi dominate e sfruttate. E non è mia intenzione condannare aprioristicamente le forme che, alla loro maniera, vogliano riprendere le tradizioni delle socialdemocrazie, dei comunismi e dei nazionalismi popolari, o vogliano abbandonarle.
In questa prospettiva, mi sembra necessario pensare a un rinnovamento dei un marxismo creativo. Marx non è mai stato tanto utile e necessario per capire e trasformare il mondo come lo è oggi, ancora più di ieri. Essere marxista in questo senso significa partire da Marx e non fermarsi a lui, a Lenin o a Mao, come hanno teorizzato e praticato i marxismi storici del secolo scorso. Bisogna rendere a Marx quel che gli compete: l’intelligenza di aver iniziato un pensiero critico moderno, critico della realtà capitalistica e critico delle sue rappresentazioni politiche, ideologiche e culturali. Il marxismo creativo deve avere lo scopo di arricchire senza esitazioni questo pensiero critico per eccellenza. Non deve temere di integrare tutti gli apporti della riflessione, in tutti i campi, compresi gli apporti che sono stati considerati, a torto, come “estranei” dai dogmatici dei marxismi storici del passato.

Nota: Le tesi presentate in questo articolo sono state sviluppate nell’opera La crise, sortir de la crise du capitalisme ou sortir du capitalisme en crise, ed. Le Temps des Cerises, Parigi, 2009.

Un pensiero su “Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?”

  1. The Red dice:

    Quest'articolo, meriterebbe un…MONUMENTO.E' veramente una intelligenza rara, quella di S.Amin.

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