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Daniel Bensaïd

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[ 21 gennaio 2010 ]

un comunista eretico
di Michael Löwy

Daniel Bensaïd ci ha lasciato. È una perdita irreparabile, non solo per noi, i suoi amici, i suoi compagni di lotta, ma per la cultura rivoluzionaria. Con la sua irriverenza, il suo umorismo, la sua generosità, la sua immaginazione, era un esempio raro di intellettuale militante, nel senso più forte dell’espressione.

Mi ricordo le nostre lunghe conversazioni, talvolta intorno ad un tavolo, soprattutto tra il dessert ed il caffè, a “Il Carbone”, il suo ristorante preferito. Non eravamo sempre d’accordo, ma al di là qi ciò, come non amarlo e non ammirare la sua straordinaria creatività e, soprattutto, il suo spirito di resistenza, verso e contro tutto, verso l’infamia dell’ordine costituito?
“Auguste Blanqui, comunista eretico”, era il titolo di un articolo che Daniele Bensaïd ed io stesso scrivemmo insieme, nel 2006, per un libro sui socialisti del diciannovesimo secolo in Francia, scritto per i nostri amici Philippe Corcuff ed Alain Maillard. Questo concetto si applica perfettamente al suo proprio pensiero, ostinatamente fedele alla causa degli oppressi, ma allergico ad ogni ortodossia.
Se i libri di Daniel si leggono con altrettanto piacere, questo è perché sono stati scritti con lo stile pungente di un vero scrittore che ha il dono della formula: una formula che può essere assassina, ironica, fanatica o poetica, ma che va sempre diritto allo scopo. Questo stile letterario, proprio dell’autore ed inimitabile, non è gratuito, ma al servizio di un’idea, di un messaggio, di un appello: non piegarsi, non rassegnarsi, non riconciliarsi coi vincitori.
La forza dell’indignazione attraversa, come un soffio ispirato, tutti questi scritti.
Fedeltà anche allo spettro del comunismo di cui dava una bella definizione: è il sorridere degli sfruttati che sentono in lontananza i colpi di fucile degli insorti nel giugno 1848 episodio raccontato da Tocqueville e reinterpretato da Toni Negri. Il suo spirito sopravvivrà al trionfo attuale della mondializzazione capitalista.
Il comunismo del ventunesimo secolo era, per lui, l’erede delle lotte del passato, dellla Comune di Parigi, della Rivoluzione di ottobre, delle idee di Marx e di Lenin, e dei grandi vinti che furono Trotsky, Rosa Luxemburg, Che Guevara. Ma anche qualche cosa di nuovo, all’altezza della posta in palio del presente: un éco-comunismo (termine che ha inventato), integrante pienamente la battaglia ecologica contro il capitale.
Per Daniel, lo spirito del comunismo era irriducibile alle sue contraffazioni burocratiche. respingeva, pur con le ultime sue energie, il tentativo della Controriforma liberale di dissolvere il comunismo nello stalinismo, non riconosceva meno del non si può fare l’economia di un bilancio critico degli errori che hanno disarmato i rivoluzionario di ottobre faccia alle prove della storia, favorendo la controrivoluzione termidoriana: confusione tra popolo, partito e Stato, accecamento rispetto al pericolo burocratico. Bisogna tirare certe lezioni storiche, già abbozzate da Rosa Luxemburg nel 1918: importanza della democrazia socialista, del pluralismo politico, della separazione dei poteri, dell’autonomia dei movimenti sociali rispetto allo stato.

Tra tutti i contributi di Daniele Bensaïd al rinnovamento del marxismo, il più importante, ai miei occhi, è la sua rottura radicale con lo scientismo, il positivismo ed il determinismo che hanno impregnato così profondamente il marxismo “ortodosso”, particolarmente in Francia.
Auguste Blanqui è un riferimento importante in questo approccio critico. Nell’articolo menzionato più sopra, ricorda la polemica di Blanqui contro il positivismo, questo pensiero di in progresso in buon ordine, di progresso senza rivoluzione, questa “esecrabile dottrina del fatalismo storico” eretto a religione. Per Blanqui “l’ingranaggio delle cose umane non è fatale come quello dell’universo, è modificabile ad ogni minuto..”
Daniele Bensaïd paragonava questa formula a quella di Walter Benjamin: “ogni secondo è la porta stretta da dove può spuntare il Messia, ovvero, la rivoluzione, questa irruzione immanentistica del possibile nel reale.

La sua rilettura di Marx, alla luce di Blanqui, di Walter Benjamin e di Charles Péguy, lo ha condotto a concepire la storia come una successione di incroci e di biforcazioni, un campo del possibile, la cui l’uscita è imprevedibile. La lotta di classe occupa il posto centrale, ma il suo risultato è incerto, ed implica una fetta di contigenza.
In “La scommessa malinconica” (Fayard,1997, forse il suo più bel libro, riprende una formula di Pascal per affermare che l’azione emancipatrice è “un lavoro per l’incerto”, implicando una scommessa sull’avvenire. Riscoprendo l’interpretazione marxista di Pascal di Lucien Goldmann, definisce l’impegno politico come una scommessa ragionata su divenire storico, “al rischio di perdere tutto e di perdersi.”

La rivoluzione cessa dunque d’essere il prodotto necessario delle leggi della storia, o delle contraddizioni economiche del capitale, per diventare un’ipotesi strategica, un orizzonte etico “senza che la volontà rinunci, lo spirito di resistenza capitoli, il fedeltà venga meno, la tradizione si perda.”
Di conseguenza, come spiega in “Frammenti miscredenti” (Lignes,2005,) il rivoluzionario è un uomo del dubbio opposito all’uomo di fede, un individuo che scommette sulle incertezze del secolo, e che mette un’energia assoluta al servizio di certezze relative.

In breve, qualcuno che tenta, instancabilmente, di praticare l’imperativo richiesto da Walter Benjamin nel suo ultimo scritto, le Tesi “Sul concetto di storia” (1940): spazzolare la storia col contro pelo.
Il 17 gennaio 2010.

Tratto dal sito del NPA: http://www.npa2009.org/
(traduzione a cura della Redazione)

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