La crisi del capitalismo vista da uno di loro
Perché dobbiamo cambiare il capitalismo
Non è così che si pensava sarebbero andate le cose. I moderni economisti, con la loro cieca fede nel libero mercato e nella globalizzazione, avevano promesso prosperità per tutti, e davano per scontato che la tanto decantata “Nuova economia”, con le stupefacenti innovazioni (tra l’altro liberalizzazione e ingegneria finanziaria) che avevano marcato la seconda metà del XX secolo, avrebbe consentito una migliore gestione dei rischi e posto fine al susseguirsi dei cicli economici. Se la combinazione di Nuova economia e nuovi strumenti economici non poteva eliminare del tutto le fluttuazioni economiche poteva quanto meno tenerle sotto controllo. O almeno questo ci hanno raccontato.
La Grande recessione, il peggior incubo dopo la Grande depressione di 75 anni prima, ha spazzato via tutte le illusioni, e ci sta obbligando a ripensare i nostri tanto amati punti di vista.
Per 25 anni alcune dottrine sui liberi mercati hanno dominato incontrastate: i mercati liberi e senza controlli sono efficienti e se sbagliano si autocorreggono rapidamente, il miglior governo è un governo con pochi poteri, le normative non fanno altro che ostacolare l’innovazione, le banche centrali dovrebbero essere indipendenti e concentrarsi sul contenimento dell’inflazione.
Oggigiorno anche Alan Greenspan, il grande sacerdote dell’ideologia liberista a capo della FED nel periodo in cui tali opinioni prevalevano, ha dovuto ammettere che in questo modo di pensare c’erano delle falle, ma la sua confessione è arrivata troppo tardi per tutti coloro che ne hanno subito le conseguenze.
Col tempo qualsiasi crisi viene superata, ma tutte, in particolare se così drammatiche, lasciano il segno. Quella del 2008 offre nuovi punti di riflessione nella tradizionale disputa sul sistema economico capace di distribuire i massimi benefici.
Credo che i mercati siano alla base di qualsiasi economia di successo, ma che non funzionino automaticamente bene. In questo senso seguo la linea del noto economista britannico John Maynard Keynes, la cui influenza domina negli studi dei moderni economisti.
I governi hanno un ruolo da svolgere, che non si riduce a salvare l’economia quando i mercati crollano o a regolamentarli per evitare il tipo di problemi che abbiamo appena sperimentato. Le economie esigono un equilibrio tra il ruolo dei mercati e quello del governo, con apporti fondamentali delle istituzioni private e senza fine di lucro; ma negli ultimi 25 anni gli USA non hanno rispettato questo equilibrio e hanno anzi esportato la loro visione distorta in tutto il mondo.
La crisi attuale ha messo in luce i difetti fondamentali del capitalismo, o per meglio dire di quella particolare versione del capitalismo (a volte definito capitalismo in stile americano) che ha visto la luce nell’ultima parte del XX secolo negli USA. Non si tratta solo di singole persone, di errori specifici, di problemi di dettaglio da risolvere, o di norme da modificare.
È stato difficile scoprire le falle, perché noi americani volevamo assolutamente credere nel nostro sistema economico: i “nostri ragazzi” avevano ottenuto risultati così spettacolari rispetto ai tradizionali arcinemici del blocco sovietico.
I numeri rafforzano la delusione. Dopo tutto la nostra economia stava crescendo molto più velocemente di quasi tutte le altre, a eccezione della Cina; e alla luce delle difficoltà che credevamo di scorgere nel sistema bancario cinese, era solo questione di tempo prima che implodesse.
Anche adesso, molti negano l’ampiezza dei problemi cui deve far fronte la nostra economia di mercato; una volta usciti dalla situazione attuale, e tutte le recessioni finiscono prima o poi, scommettono su una nuova vigorosa crescita. Ma uno sguardo più attento all’economia statunitense lascia intravedere altri problemi ben più profondi: una società in cui persino la classe media ha visto i propri guadagni stagnare per decenni, caratterizzata da una crescente ineguaglianza, e in cui, anche se vi sono notevoli eccezioni, le probabilità per un americano povero di arrivare al vertice sono inferiori a quelle della “vecchia Europa”.
Si dice che l’esperienza di premorte obbliga a rivalutare le priorità e la scala di valori, e l’economia globale l’ha appunto provata. La crisi ha portato in luce non solo i difetti del modello economico imperante, ma anche quelli della nostra società: troppa gente ha profittato dei suoi simili. Quasi ogni giorno sono venuti alla luce comportamenti scorretti di coloro che lavorano nel settore finanziario: schema di Ponzi (una sorta di catena di S.Antonio in campo economico. NdT), uso d’informazioni riservate, comportamenti predatori, programmi di concessione di carte di credito per scroccare il più possibile agli sfortunati utilizzatori.
Il mio libro, Freefall, si occupa però non di quelli che hanno violato la legge ma di tutti coloro che, pur nel suo rispetto formale, hanno creato, impacchettato, spacchettato, e venduto prodotti tossici, lasciandosi coinvolgere in una spericolata attività che ha rischiato di distruggere l’intero sistema economico e finanziario. Il sistema è stato salvato, ma a un prezzo che è ancora difficile valutare.
Dovremmo considerare quello attuale un momento di analisi e riflessione, per pensare al tipo di società in cui vogliamo vivere e per chiederci: stiamo creando un’economia in grado di aiutarci a soddisfare le nostre aspirazioni?
Siamo andati ben avanti su una strada alternativa, creando una società in cui il materialismo ha il sopravvento sull’impegno morale, in cui il rapido sviluppo che abbiamo ottenuto non è sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, in cui non operiamo tutti assieme come società civile per far fronte ai bisogni comuni, in parte perché un feroce individualismo e un mercato fondamentalista hanno eroso il senso di appartenenza a un gruppo e hanno reso possibili un violento sfruttamento degl’individui privi di protezione.
Senza volerlo, gli economisti hanno offerto una giustificazione a questa mancanza di responsabilità morale. Una lettura superficiale dei suoi scritti ha instillato l’idea che Adam Smith avesse escluso ogni scrupolo morale da parte di chi operava sui mercati. Dopo tutto, se la ricerca dell’interesse personale conduce, come una mano invisibile, al benessere della società, tutto quello che bisogna fare è assicurarsi di star perseguendo al meglio l’interesse personale. Ed è proprio quello che sembrano aver fatto gli operatori del settore finanziario. Ma ovviamente, la ricerca dell’interesse personale, l’ingordigia, non ha condotto al benessere della società.
Il modello che combina individualismo esasperato e fondamentalismo di mercato ha modificato non solo il modo in cui i singoli vedono se stessi e le loro preferenze, ma anche il modo in cui si relazionano con gli altri. In un mondo d’individualismo esasperato non c’è bisogno di una comunità di soggetti o di una forma di società civile. Il governo rappresenta un ostacolo; è il problema, non la soluzione.
Ma se i difetti del mercato sono pervasivi è necessaria un’azione collettiva; gli accordi volontari non sono sufficienti (semplicemente perché non c’è alcun “obbligo”). Peggio ancora, l’individualismo esasperato e il materialismo rampante hanno finito col minare la fiducia. Anche in un’economia di mercato, la fiducia è il lubrificante che fa funzionare la società. Talvolta la società può funzionare anche in mancanza di fiducia, ma è un’alternativa molto meno interessante.
Nella crisi attuale i banchieri hanno perso la nostra fiducia e quella reciproca. Gli storici dell’economia hanno sottolineato il ruolo della fiducia nello sviluppo del commercio e delle attività bancarie. Se certe comunità si sono sviluppate a livello globale nei settori commerciale e finanziario è proprio perché i suoi membri avevano fiducia gli uni negli altri. La grande lezione di questa crisi è che, nonostante tutti i cambiamenti degli ultimi secoli, il nostro complesso settore finanziario continua a fondarsi sulla fiducia: quando viene meno, il sistema finanziario si blocca.
È facile evitare l’assunzione di rischi eccessivi; basta diffidare le banche dal farlo. Impedire alle istituzioni bancarie di usare meccanismi d’incentivazione che incoraggiano l’assunzione di rischi eccessivi e obbligarle ad una maggiore trasparenza richiederà molto tempo. Costringerà tra l’altro quelle che s’ingaggeranno in attività ad alto rischio ad aumentare di molto il capitale e a pagare più elevati premi assicurativi sui depositi. Ma sono necessarie anche altre riforme: sarà necessario limitare i leverage (quoziente d’indebitamento. NdT) e imporre restrizioni su alcuni prodotti particolarmente rischiosi.
Visto quello che è accaduto al settore economico, è ovvio che il governo federale dovrà approvare una versione aggiornata del Glass-Steagall Act. Non c’è scelta: bisogna severamente limitare la possibilità di assunzione dei rischi da parte delle istituzioni che sfruttano la posizione di banca commerciale – incluse le reti di protezione governative.
Ci sono troppi conflitti d’interesse e troppe difficoltà per consentire che le attività delle banche commerciali si mescolino con quelle delle banche d’investimento. I vantati benefici legati all’abolizione del Glass-Steagall Act si sono rivelati illusori, e i costi di gran lunga maggiori di quelli che anche i più feroci critici avevano temuto. I problemi sono particolarmente gravi nel caso delle banche “troppo grandi per poter fallire”.
La necessità di rimettere in vigore il più rapidamente possibile il Glass-Steagall Act ci viene suggerita dal recente comportamento di alcune banche d’investimento, per le quali, ancora una volta, la trattazione di titoli si è dimostrata una proficua fonte d’investimenti.
La rapidità con cui, nell’autunno 2008, tutte le più importanti banche d’investimento si sono riconvertite in banche commerciali è preoccupante: avevano previsto il regalo del governo federale, ed erano evidentemente sicure che il loro modo di assumere rischi non avrebbe subito serie limitazioni. Adesso possono sfruttare le facilitazione offerte dalla FED e ottenere prestiti a costo zero. Sanno di essere protette da una nuova rete di sicurezza ma di potere al tempo stesso continuare indisturbate le loro operazioni ad alto rischio. È una situazione totalmente inaccettabile.
Esiste una ovvia soluzione al problema delle banche “troppo grandi per poter fallire”: smembrarle. La sopravvivenza di queste istituzioni sarebbe giustificata solamente se permettessero significative economie di scala o copertura che altrimenti andrebbero perse. Non solo non ho trovato nessuna prova di un tale effetto, ma anzi tutto punta verso la conclusione che queste banche “troppo grandi per poter fallire” e troppo grandi per poter essere smembrate sono anche troppo grandi per poter essere gestite. Il loro vantaggio sul piano della concorrenza deriva dal loro potere monopolistico e dai sussidi governativi.
La crisi ha messo in luce, da Wall Street a Main Street, un profondo abisso tra la classe ricca statunitense e il resto della società: mentre i ricchi hanno ottenuto ottimi risultati negli ultimi 30 anni, le entrate della maggior parte dei cittadini sono rimaste stagnanti o si sono ridotte.
Le conseguenze sono state celate: quelli della classe inferiore, o anche della classe media, sono stati sollecitati a continuare a spendere come se i loro stipendi aumentassero senza sosta, a prendere soldi in prestito e a vivere al di sopra dei propri mezzi (e le bolle speculative hanno reso la cosa possibile). Le conseguenze del brusco ritorno alla realtà sono semplici: il livello di vita dovrà ridursi.
Qualcuno dovrà pagare il conto del salvataggio delle banche. Per la maggior parte degli americani, anche una ripartizione proporzionale sarebbe disastrosa. Con un reddito familiare mediano (reddito medio e reddito mediano non sono la stessa cosa. Il primo è la media dei vari valori della seriazione, il secondo è il suo valore centrale. NdT) che dal 2000 ha perso circa il 4%, non c’è scelta: se vogliamo preservare un barlume di giustizia, i costi devono essere a carico della classe alta, che ha tratto vantaggi sproporzionati negli ultimi 30 anni, e del settore finanziario, che ha scaricato tutti gli oneri sul resto della società.
Ma passare ai fatti non sarà facile. Il settore finanziario è riluttante ad ammettere i propri errori. Fa parte del comportamento morale e della responsabilità individuale accettare il biasimo quando è meritato: tutti gli esseri umani sono fallibili, anche i banchieri, che però, come possiamo constatare, si sono dati da fare per scaricarlo sugli altri, anche sulle vittime.
Gli USA non sono i soli a dover affrontare un duro riallineamento. Il sistema finanziario britannico è stato ancor più presuntuoso di quello statunitense. Prima del collasso, la Royal Bank of Scotland era la più grande banca europea; nel 2008 ha subito più perdite di qualsiasi altra banca al mondo. Proprio come negli USA, anche nel Regno Unito abbiamo assistito a una bolla speculativa immobiliare che è ora scoppiata. Adattarsi alla nuova realtà può significare una riduzione dei consumi del 10%.
Ne ho dedotto che le difficoltà cui devono far fronte il nostro paese e il resto del mondo impongono qualcosa di più di un piccolo riallineamento del sistema finanziario. Alcuni hanno detto che abbiamo avuto un piccolo problema nel nostro impianto idraulico: alcuni tubi si sono ostruiti. E abbiamo chiamato gli stessi idraulici che avevano installato l’impianto: avendo creato il pasticcio erano probabilmente gli unici a sapere come tirarcene fuori. Poco importa se ci hanno fatturato l’impianto e se ora ci fatturano la riparazione: dovremmo essere contenti perché il sistema funziona di nuovo, pagare il conto senza protestare, e sperare che questa volta abbiano fatto un lavoro migliore.
Ma si tratta di qualcosa di più grave di un semplice “problema idraulico”: i difetti del sistema finanziario sono il segno di difetti ancora più gravi del sistema economico, e i difetti del sistema economico riflettono a loro volta quelli più profondi della nostra società. Abbiamo avviato il salvataggio senza avere le idee chiare sul tipo di sistema finanziario che volevamo, e il risultato è stato manipolato dalle stesse forze politiche che ci avevano messo nei guai. Eppure credevamo che il cambiamento fosse non solo possibile ma necessario.
Che alla fine della crisi vi saranno stati dei cambiamenti è sicuro; non possiamo tornare al mondo di prima. Ma le domande da porsi sono: quanto saranno profondi e importanti i cambiamenti? E andranno nella giusta direzione? In varie aree critiche, le cose sono andate ancora peggiorando nel corso della crisi. Abbiamo distorto non solo le nostre istituzioni, incoraggiando una maggiore concentrazione nel settore finanziario, ma le stesse regole del capitalismo. Abbiamo annunciato che le istituzioni privilegiate verranno sottoposte a una disciplina limitata, o nulla. Abbiamo creato un surrogato di capitalismo con regole poco chiare ma con prevedibili risultati: crisi future, assunzione indebita di rischi a spese della comunità (quali che siano le promesse di un nuovo regime normativo), e un’accresciuta inefficienza.
Abbiamo sostenuto l’importanza della trasparenza, ma abbiamo aumentato le possibilità delle banche di manipolare i libri contabili. Nelle crisi precedenti ci si preoccupava del rischio morale e degl’incentivi forniti dalle procedure di salvataggio; l’ampiezza di quella attuale ha mutato il significato di tali principi.
È diventato un luogo comune sottolineare che i caratteri cinesi della parola “crisi” riflettono “pericolo” e “opportunità”. Ci siamo resi conto del pericolo. La domanda è: approfitteremo dell’opportunità per ridar vigore al principio di equilibrio tra mercato e stato, tra individualismo e comunità, tra uomo e natura, tra fine e mezzi?
In questo momento abbiamo l’opportunità di dar vita a un nuovo sistema finanziario che faccia ciò che gli essere umani pensano debba fare, di dar vita a un nuovo sistema economico che crei posti di lavoro utili e un lavoro dignitoso per tutti, e nel quale la differenza tra chi ha e chi non ha si riduca invece di allargarsi, e, soprattutto, di dar vita a una nuova società in cui ciascuno sia in grado di realizzare le proprie aspirazioni e potenzialità, in cui i cittadini condividano ideali e valori, in cui il nostro pianeta venga trattato col rispetto che esige. Ecco le vere opportunità. Il vero pericolo è che l’umanità non sia in grado di approfittarne.
Joseph Stiglitz
L'analisi di Stiglitz é ineccepibile, come del resto tutto il suo libro "Freefall". Nell'edizione Paperback del 2010 aveva aggiunto un capitolo in cui esaminava fra l'altro la crisi dell'euro. In una sola frase sintetizzava le pazzie dei sedicenti tecnici tipo Monti "The notion that cuttin wages is a solution to the problems of Greece, Spain, and others within the Eurozone is a fantasy" (p. 327). (L'idea che tagliare gli stipendi sia una soluzione ai problemi di Grecia Spagna ed altri all'interno della zona euro é fantasia).Allora era fantasia, cioé "nonsense", nel frattempo é già divenuta tragedia. La soluzione suggerita da Stiglitz nel 2010 era semplice: dividere la zona euro in due aree (non precisava ma era facile comprendere dal contesto del suo discorso che una era la Germania ed un paio di Paesi con surplus di esportazioni e l'altra erano i paesi fortemente indebitati).Ma ben conscio che in politica non sono le soluzioni migliori che la vincono ma quelle che consolidano il potere, prevedeva nel 2010 esattamente quello che é successo poi: una forma di "brinkmannship", cioé di aumento della tensione e del rischio fino al punto estremo per poi far accettare onerosissime forme di sacrificio per la presunta salvezza". E' esattamente quello che abbiamo sotto i nostri occhi: altrimenti a che cosa servirebbero i continui summit europei, con tanto di rocambolesche trattative a notte inoltrata, come in un thriller dozzinale? Non a caso Sarkozy nella disperata corsa alla rielezione ha usato ieri l'argomento dell'avvenuto salvataggio dell'euro presentandolo come suo capolavoro. Ma é preferibile credere a Stiglitz e prevedere che non si salverá né Sarkozy, né la Merkel, e speriamo nemmeno Monti.L'euro in fondo é giá stato diviso in due e più zone: è la stessa moneta, ma in Grecia ad es. nelle tasche dei lavoratori vale la metá poiché col dimezzamento dei salari al posto di un euro ne ricevono soltanto più mezzo, e con questo devono acquistare i prodotti che il cui prezzo é rimasto invariato. Invece della svalutazioen della moneta l'introduzione dell'euro ha consentito di svalutare i redditi. Sembra la stessa cosa ma c'è una bella differenza: i miliardi di euro portati nelle banche svizzere, lussemburghesi o nel Lichtenstein hanno mantenuto lo stesso valore, i risparmi ed i salari in patria si sono dimezzati.