Crisi: le tesi di Gianfranco La Grassa
[ 30 giugno 2010 ]
APPUNTI SULLA CRISI
Chi si dedica invece a ulteriori fumose credenze di “catarsi” sociale in vista di nuove vie da im-boccare verso il comunismo (o similari) è invece particolarmente dannoso, non porta ad alcuna co-noscenza utile, devia l’attenzione a tutto favore dei dominanti della formazione dei funzionari del capitale, i dominanti che sono oggi i principali nemici. Perniciosi sono questi pseudopensatori e vanno quindi combattuti e tenuti a distanza come appestati; essi bloccano il pensiero critico e nem-meno sanno cogliere gli aspetti salienti dei “terremoti”.
1. Riprendo a discutere della crisi proprio partendo dall’analogia con il terremoto quale fenome-no di superficie provocato da profondi (più o meno, ma sempre molto profondi) movimenti e scon-tri di falde tettoniche, che si urtano e accumulano energia per anni e anche decenni per poi liberarla di colpo con la sua risalita in superficie e i disastrosi eventi provocati. Alcuni hanno voluto vedere in questa mia analogia un che di “naturalistico”. Evidentemente non hanno riflettuto abbastanza a che cosa serve un’analogia, che deve essere “immaginifica”, sollecitare l’attenzione dell’ascoltatore e indirizzarla verso il problema su cui riflettere, non deve affatto invece rispecchiare esattamente il fenomeno cui l’analogia si riferisce.
Ciò che voglio suggerire con quest’ultima è semplicemente che chi è coinvolto in un terremoto – alla stessa guisa di chi lo è in una grave crisi economica e soprattutto finanziaria, di Borsa – perde normalmente la lucidità, corre di qua e di là cercando di salvarsi in qualche modo; in quel particola-re momento a nessuno verrebbe in testa di “fermarlo per la strada”, dicendogli di non preoccuparsi troppo e di pensare alle cause profonde della catastrofe che lo sta investendo. Io stesso lo manderei al diavolo; sia se coinvolto nel crollo di edifici sia nel dissolvimento dei miei risparmi e riserve ac-cumulati per guardare con maggior tranquillità al futuro.
Se però uno, superato lo choc, cerca in qualche modo di distanziare l’oggetto per meglio analiz-zarlo nelle sue cause, deve farlo con un minimo di profondità e sapendo concentrarsi su quei feno-meni che hanno provocato il terremoto o la crisi tramite una serie di processi durati un certo tempo (a volte anche lungo, un tempo “storico”, un’epoca) e ramificatisi secondo date direzionalità prima di emergere in superficie preannunciati, talvolta, da una preliminare serie di più brevi e meno drammatiche “scosse”, che tuttavia non consentono una previsione deterministica di quanto avverrà; è tuttavia sempre necessario formulare ipotesi interpretative riguardanti tendenze evolutive non semplicemente lineari e continue.
Quando scoppia la crisi, anche chi non è coinvolto direttamente ed emotivamente in essa, chi in-tenderebbe dedicarsi alla sua spiegazione, si butta troppo spesso con empiristica immediatezza alla ricerca delle sue cause: il pessimismo, la mancanza di moralità dei banchieri, il puro imbroglio e l’eccessiva avidità di facili e immediati guadagni. In altri casi, ci si spinge appena un po’ più a fon-do: la caduta dei profitti capitalistici, la sovrapproduzione o il sottoconsumo legato a salari troppo bassi, ecc. ecc. Sarebbe come se un sismologo pensasse la causa di un terremoto nella presenza a qualche metro o decina di metri di profondità di una sorta di “vibromassaggiatore naturale”, che scuote orizzontalmente e verticalmente la “corteccia” della Terra, i suoi strati più superficiali e sot-tili. Fare riferimenti del genere non è “naturalismo”, è l’esatta indicazione della superficiale menta-lità con cui tecnici finanziari ed economisti, giornalisti, vacui critici (“marxisti” o meno che siano) del capitalismo, ecc. spiegano i “terremoti” economici e finanziari, escludendo dall’orizzonte pro-prio i fenomeni più profondi.
Del resto, non si tratta di atteggiamento di superficialità dedicato solo alla questione della crisi. Gli approssimativi conoscitori di Marx hanno quasi sempre parlato a vanvera della “lotta di classe”. Ne tratterò con maggior precisione in altra occasione; qui mi limito ad osservare che in Marx tale lotta ha cause e dinamiche di carattere sociale messe in moto all’interno della società capitalistica, con sommovimenti profondi che avrebbero dovuto condurre, nelle convinzioni marxiane, alla finale estraneazione dei proprietari capitalisti dal vero e proprio processo produttivo (e di lavoro) con loro trasformazione in “nuovi signori”, non più feudali (proprietari di terra) bensì finanziari; mentre nel-la produzione si sarebbe ricomposta – nel collettivo corpo lavorativo e non certo individualmente – quella scissione tra potenze (direttive) della stessa e lavoro manuale o comunque esecutivo prodot-tasi con il passaggio dall’artigianato alla manifattura e soprattutto all’industria basata sull’uso delle macchine.
Tali dinamiche sono state falsificate dall’andamento storico-concreto di oltre un secolo e mezzo; l’ho spiegato un milione di volte in decine di libri e centinaia di articoli vari. Se non si conosce nemmeno uno di questi scritti non so che farci, qui non mi ripeto. Del resto, la dimostrazione pratica della falsificazione in oggetto sta nel ridicolo trasformarsi della lotta di classe nel banale conflitto capitale/lavoro. Appena un qualche spezzone di lavoratori di “agita” (ricordo, a spizzico, la lotta dei minatori inglesi spezzata dalla Thatcher o quella dei lavoratori del metro parigino che un cervello malato, appartenente all’operaismo italiano, esaltò), subito qualche cretino si mette (o meglio si metteva) ad entusiasmarsi e a vedervi la ripresa della lotta di classe. Emeriti scervellati che hanno fatto malissimo alla “causa” dei lavoratori, i cui movimenti sindacali per migliori condizioni di vita e di lavoro sono sacrosanti; basta che siano capiti nei loro termini reali di lotta per la migliore di-stribuzione del reddito, non per il rivoluzionamento dei rapporti sociali capitalistici.
Lo stesso avviene per la crisi. Tutti i superficiali commentatori si lanciano o in utopiche previ-sioni di fine dell’era capitalistica o comunque di sue decisive trasformazioni migliorative; soprattut-to in senso più “etico”. Pure banalità, quando non si tratti invece soltanto di ideologie funzionanti da “fuoco di sbarramento” per impedire che si valuti più correttamente il cambio d’epoca effettivo, che sembra proprio condurre in direzioni tutt’affatto diverse da quelle propagandate.
2. Procediamo anche noi a sbalzi, senza necessario ordine. Le grandi crisi economiche del XX secolo sono state quelle del 1907 e del 1929. Dobbiamo, magari per cenni pur sommari, soffermarci un po’ su tali eventi storici. Intanto, entrambe sono iniziate – come del resto tutte le crisi capitalisti-che, già a partire da metà ottocento e un po’ prima – con un grave crack finanziario. In entrambe, l’epicentro di quest’ultimo è stata la Borsa di New York, pur se nel 1907 era ancora molto impor-tante quella di Londra. Bisogna però inquadrare tal evento storicamente, sia pure succintamente.
Più o meno a metà ’800 inizia, con lentezza, il relativo declino della potenza inglese (fino ad al-lora predominante e centrale, cioè perno in qualche modo regolatore del sistema economico mon-diale) mentre crescono soprattutto Usa, dopo l’evento decisivo costituito dalla guerra civile o di se-cessione (1861-65), e la Germania (nata ufficialmente nel 1871) dopo la vittoria della Prussia sulla Francia (1870-71). E’ più o meno il periodo in cui inizia la “seconda rivoluzione industriale” in specie con il chimico (settore decisivo in Germania), l’elettrico, mentre si accentua lo sviluppo dei trasporti (in particolare ferroviari). Si verifica una lunga fase depressiva (1873-96), su cui tornere-mo perché è per noi periodo cruciale di profonde trasformazioni degli assetti internazionali (rapporti tra potenze) e di quelli sociali interni a vari paesi.
Dopo la stagnazione inizia un quindicennio circa di impetuoso sviluppo, in cui si accentua la se-conda rivoluzione industriale con la crescita dei settori delle comunicazioni (rilevanti saranno quelle telefoniche), e con la scoperta e lancio del motore a scoppio e quindi il largo uso di fonti di energia come quelle petrolifere ecc. che sono tuttora in auge. Tali nuovi settori conoscono un forte dinami-smo negli Usa, dove inizia pure quella riorganizzazione del processo di lavoro che condurrà al ta-ylorismo-fordismo, senz’altro di grande rilevanza produttiva, ma anche motivo di importanti distor-sioni teoriche soprattutto nella seconda metà del ’900, ancor oggi non superate del tutto. Tra fine ottocento e prima guerra mondiale si profila una superiorità statunitense, ma in embrione e ben lun-gi dall’essersi consolidata. Come in tutti i periodi di intenso sviluppo produttivo, si verifica la cre-scita più che proporzionale degli apparati finanziari, con credito facile ai nuovi settori dove si gua-dagnano enormi profitti. Si creano allora le cosiddette “bolle finanziarie” che poi esplodono; e ciò avvenne appunto nel 1907. L’epicentro, come detto, fu negli Usa, ma la prima stretta creditizia di fronte all’eccesso di esposizione delle banche partì dalla Banca d’Inghilterra, con riflessi sul sistema finanziario inglese che si adeguò e mise così in difficoltà i flussi diretti negli Usa; e fu appunto dalla Borsa di New York che prese avvio il crack. Fin qui siamo tuttavia al “terremoto”, ma per il mo-mento non approfondiamo il problema.
Interessa rilevare che dopo il 1907 la ripresa fu sostanzialmente stentata e si basò soprattutto sul riarmo delle diverse potenze. Una spiegazione ancora superficiale potrebbe accreditare l’idea che il problema decisivo fosse far ripartire i consumi; a ciò servirebbe la spesa, in gran parte finanziata dagli Stati, per produrre armi, beni che non vanno ad “ingombrare” i mercati (né di beni di consumo né di beni di investimento) e nel contempo, con la loro produzione, “generano” reddito invece spendibile nell’acquisto di tali beni. Poi, con altrettale superficialità, si potrebbe sostenere che le armi devono essere usate altrimenti la loro produzione si arresta, per cui è necessario fare la guerra. Come al solito, avremmo la tipica inversione tra causa ed effetto tipica di tutti gli ideologi dei do-minanti (ivi compresi quelli “critici” che restano entro le panie di coloro che criticano). Basti pensa-re, come altro esempio di questo particolare atteggiamento dei dominanti e dei loro ideologi, che si sostiene spesso come sia il pessimismo a provocare la crisi e non invece quest’ultima a indurre sfi-ducia.
Solo la guerra del ‘14-’18, comunque, risolse in radice la crisi poiché, malgrado il riarmo, le e-conomie delle grandi potenze stentarono a riprendersi dalla “botta” del 1907 fino appunto al 1914. Tuttavia, non si creda che negli anni di guerra – a parte i ben noti “profittatori” di qualsiasi evento bellico, che poi si fa sempre finta di perseguire, colpendone uno e salvandone 10 – ci fosse un au-tentico sviluppo dei paesi devastati da uno scontro di quella portata e lunghezza. Dopo di essa però, a parte la Germania e qualche altro paese (per i pesanti debiti imposti dai vincitori), gli anni ’20 so-no generalmente ricordati come un periodo di tumultuosa e forte crescita, soprattutto negli Stati U-niti, la cui indefinita continuazione fu propagandata dai soliti ideologi. Le grandi innovazioni della seconda rivoluzione industriale – più rilevanti quelle di nuovi prodotti piuttosto che quelle di pro-cesso, soprattutto il taylorismo-fordismo, invece fin troppo enfatizzate più tardi dagli autori “critici” di stampo “marxista” e radicaloide – si erano però stabilizzate, pur diffondendosi con maggior len-tezza in Europa; è quindi da supporre che lo sviluppo fosse più estensivo che intensivo. Vi fu senza dubbio, soprattutto negli Usa ma non solo, un innalzamento del tenore di vita di più larghe fette di popolazione, anche degli strati bassi, in ciò contraddicendo le tesi sottoconsumistiche di derivazione “marxista” del tipo luxemburghiano.
Sembra quindi che, con la prima guerra mondiale e negli anni successivi, cominci a precisarsi una relativa preminenza degli Usa in campo capitalistico; e anche la finanza prende nuovo slancio, pur servendo inizialmente soprattutto alle tipiche strategie di lotta per la supremazia dei vari gruppi dominanti, sul piano interno e ancor più mondiale. In quel periodo, simili strategie implicavano una presa particolarmente forte sulla Germania, le cui banche erano fortemente dipendenti da quelle sta-tunitensi e funzionavano da tramite del dominio sull’intera economia tedesca, in particolare sull’industria, i cui settori fondamentali appoggiarono poi la fine della Repubblica di Weimar. La predominanza, ancora lieve e tutt’altro che definitiva, degli Usa a quell’epoca non è però soltanto, e credo nemmeno principalmente, dovuta alla superiore produttività dei settori interessati dal taylori-smo-fordismo. In effetti, anche se ne accenneremo più avanti, la preminenza statunitense, proprio per la sua eccezionale rilevanza, prende consistenza in seguito ad un cambiamento delle forme capi-talistiche già in atto dopo la guerra di secessione e durante il periodo della grande stagnazione (so-prattutto europea) di fine ottocento.
Mentre Veblen, che ha influenzato molti autori di tendenze radical o marxiste, teorizzava l’ascesa irresistibile della “classe agiata”, ormai dedita ai consumi opulenti e sempre più staccata dalla produzione – una sorta di versione appena differente dei marxiani “nuovi signori” (di stampo finanziario e non feudale), proprietari di capitali e pacchetti azionari ma disinteressati alla produ-zione vera e propria – non ci si accorse che proprio nei settori produttivi venivano delineandosi quelle differenziazioni sociali, che condussero nel 1941 Burnham a parlare di rivoluzione manage-riale. Il capitalismo non era più quello propriamente proprietario di cui scrisse Marx, riferendosi all’esempio della borghesia inglese (presa come paradigma del modo di produzione capitalistico), non era nemmeno quello lavorativo, da me predicato tra gli anni ’80 e ’90 in base alla considerazio-ne della prevalenza dei veri e propri vertici imprenditoriali interessati alla gestione e direzione delle imprese in quanto apparati produttivi, sede di processi di lavoro da organizzare efficientemente (principio del minimo mezzo), per cui poi, per imitazione, anche i processi di lavoro in altri apparati (ad esempio, quelli politico-amministrativi) dovevano seguire la stessa sorte.
Tali processi trasformativi, pur importanti, erano la conseguenza di un cambiamento ben più ri-levante. Il capitalismo americano, al di là della proprietà (formale, giuridica), era effettivamente dominato – in senso assai poco tradizionale, assai poco legato alle consuetudini ereditarie ancora in parte retaggio della società feudale, da cui era uscito il capitalismo del modello inglese (borghese) – da chi dirigeva le unità produttive in base al merito. Tuttavia, perfino questo aspetto non è il più de-cisivo, pur essendo ovviamente enfatizzato dagli apologeti ideologici del nuovo capitalismo statuni-tense. La direzione spettava in realtà agli strateghi della competizione, che deve assumere caratteri “similbellici”, in cui vince non semplicemente il più efficiente, non il più laborioso, bensì l’intuitivo “generale” (non sempre e non necessariamente individuale) che conduce a buon esito la “battaglia” e poi, infine, la “guerra”. E’ però necessario che ciò si verifichi non soltanto negli autentici settori militari, ma pure nella sfera economica; perché l’applicazione delle strategie, certo non disgiunta dalla comunque sottostante e subordinata valutazione dell’efficienza, è quella che induce, anche in questa sfera della società, maggiori capacità espansive. Ovviamente, quando non si guardi al calcolo immediato del profitto, bensì in prevalenza alla supremazia e nel lungo periodo (1).
3. Le strategie sono l’elemento fondante la politica; quest’ultima non è semplicemente rappre-sentata dagli apparati della sfera così denominata (in primo luogo lo Stato), bensì dall’insieme delle mosse – consentite e svolte mediante uso della forza (potenza) e dell’astuzia, caratterizzata da men-zogna, raggiro, corruzione, finzione di debolezza, massima ambiguità insomma – che vengono compiute da un “soggetto” (attore) contro altri al fine di vincerli, eliminandoli o sottomettendoli per assumere la supremazia e dunque il controllo e governo di un dato spazio per un dato periodo di tempo. La politica, con le sue strategie (implicanti il conflitto), è l’elemento generale che permea e soprattutto innerva le varie formazioni sociali succedutesi nella storia; pur mutando incessantemen-te le sue forme di manifestazione soprattutto “in superficie”.
Le strategie non sono suscettibili, se non del tutto parzialmente, di essere espresse in “leggi ge-nerali”. Si cerca evidentemente la generalizzazione per poter trasmettere il sapere strategico (politi-co e conflittuale), ma si tratterà sempre di qualcosa di incompleto, di costantemente evolutivo se-condo dinamiche in buona parte imprevedibili, sempre suscettibili di bruschi mutamenti “disconti-nui” (periodici). I tentativi di generalizzazione servono proprio, paradossalmente, ad addestrare lo stratega al principio dell’unicità, della singolarità, di ogni “battaglia” che, in base alle mosse di a-zione e reazione dei vari contendenti, ha da essere condotta senza schemi rigidamente prefissati, e testardamente applicati, dall’attore “in gioco” (cioè in conflitto per la supremazia).
L’aspetto strategico è in un certo senso semplificato, studiato allo stato “quasi puro”, nel gioco e soprattutto nella guerra, dove il risultato relativo alla vittoria e supremazia (o sconfitta e subordina-zione) appare il più chiaramente possibile, con minori nebulosità e “appannamenti” (mai comunque assenti). Per questo motivo, viene facilitata ancora una volta l’ideologica inversione della causa e dell’effetto: la guerra sembra stare alla base e la politica viene interpretata come sua continuazione in altre forme. E’ stato Von Clausevitz (un militare, un generale), et pour cause oserei dire, a com-prendere che è invece la guerra la “continuazione della politica in altre forme”. Nessuna guerra è condotta secondo le regole della pura strategia ad essa consona (semmai sono le singole battaglie ad avere questo carattere relativamente “più puro”). Ogni guerra, in tutti i suoi svariati campi e settori del conflitto e nei suoi metodi e condizioni, ecc., subisce la sovradeterminazione della politica, cioè in definitiva delle strategie effettivamente miranti, ma non per vie dirette e immediate, ad una vitto-ria, implicante la prevalenza e dunque il controllo e governo degli “spazi” prima in possesso degli attori adesso perdenti. La vittoria dipende meno dalla forza bruta, dalla maggior massa dei mezzi impiegati; ben di più dalla duttilità, dall’astuzia, dal saper raggirare, dal far apparire anche ciò che non è se non molto parzialmente, dall’inganno e menzogna, talvolta anche dalla magnanimità (sol-tanto interessata allo scopo), insomma da tutto ciò che sia in grado di convincere il nemico circa l’ormai maggior convenienza dell’arrendersi o del lasciare il campo.
Se veramente, secondo l’inganno messo in opera dagli ideologi (falsi scienziati della sedicente economica) dei dominanti, il capitalismo fosse soltanto un grande mercato mondiale, allora la poli-tica, in quanto strategie del conflitto per la supremazia, si applicherebbe principalmente (anzi quasi esclusivamente) nella sfera economica (produzione di merci e attività finanziarie) e sarebbe quindi soprattutto condotta dagli attori tipici (imprese) di questa sfera: le “mitiche” multinazionali (anzi, nella testa di tanti imbroglioni, le transnazionali), cavallo di battaglia anche di alcuni arruffoni fatti-si passare per ultrarivoluzionari critici del capitalismo e presi sul serio da minoritarie torme di gio-vanotti senza cervello e solo capaci di violenza bruta. Un simile inganno è durato l’espace d’un ma-tin quando, con il crollo del “socialismo” e dell’Urss, è sembrato per al massimo un 10-12 anni che un unico “attore” avesse vinto definitivamente il suo conflitto per l’egemonia mondiale. Non vi era in ogni caso alcuna prevalenza esclusiva del mercato (sfera economica) globale; semplicemente, sembrava potesse esserci un unico Stato nazionale (la potenza centrale predominante) quale regola-tore della formazione sociale mondiale. L’illusione è ormai caduta.
La politica, questo elemento caratterizzante la storia dell’umanità, si condensa primieramente in dati apparati (anche guerreschi e militari in senso stretto) che, a partire da un’epoca storica assai re-cente, hanno costituito quello che noi conosciamo come Stato (in senso moderno, non quello indica-to nella nota opera di Engels sulla sua origine). La politica, nel suo autentico significato di conflitto per prevalere, conflitto che si estrinseca in strategie (mosse) adatte al conseguimento di tale scopo, impregna tutte le sfere in cui per comodità suddividiamo la società: l’economica, la culturale e ap-punto la politica, questa volta intesa però quale insieme di apparati, raggruppati principalmente nell’attore denominato Stato, destinato all’utilizzazione dei metodi precipui della forza (con tutto il corteggio della menzogna, raggiro, ecc., già sopra segnalato). Tale utilizzazione, però, è solo even-tuale o è almeno sempre celata alla vista; per la maggior parte del tempo l’attore Stato sembra dedi-carsi allo svolgimento di procedimenti amministrativi, di emanazione di leggi e regolamentazioni varie, di “giudizio” circa controversie o fenomeni devianti che turbano l’ordinato svolgimento della vita entro quella “storicamente determinata” forma dei rapporti sociali. Da qui nasce l’ulteriore, e forse più menzognera, ideologia dei gruppi dominanti: lo Stato quale semplice amministratore degli “affari generali” della collettività dei cittadini (tutti “eguali davanti alla Legge”).
Per districare i vari pasticci in cui si continua a cadere, distinguiamo la politica, come insieme di mosse strategiche promananti da attori in conflitto per affermarsi gli uni sugli altri, dalla “politica” in quanto una delle sfere in cui suddividiamo per comodità la società. Nell’ambito di tale sfera il conflitto si sedimenta in apparati, di cui alcuni sono adibiti all’uso della forza che rende particolar-mente incisiva la politica; in quanto semplice minaccia, però, e uso effettivo solo in ultima istanza, mentre ulteriori fumisterie ideologiche – che hanno tuttavia effetti reali, non sono semplice appa-renza fantasmagorica – sono rappresentate dalla sedicente tripartizione dei poteri e dall’elezione a suffragio universale dei rappresentanti del legislativo e, indirettamente, dell’esecutivo.
Tutto questo intrico di pesi e contrappesi, che ha effetti di inganno e di miglior resa della politi-ca attuata dai gruppi (pre)dominanti, provoca confusioni terminologiche svianti dall’attenzione ai problemi cruciali. Quando, ad es., diciamo che ormai manca la politica, che il ceto politico è quanto mai scadente (come ad esempio oggi in Italia), parliamo a spanne, con significato distorto. In realtà manca, o è comunque assai carente e debole, la politica nello “spazio” nazionale, che è ancora il più specifico e usuale per l’esercizio di quest’ultima da parte degli apparati della “politica” preposti al suo svolgimento. La politica (strategia per il conflitto tra gruppi dominanti) viene a mancare in un certo “luogo” (una nazione) perché essa è stata di fatto spostata in altro “luogo”, dove funzionano gli apparati della “politica” della nazione (pre)dominante in un certo spazio della società (formazio-ne sociale) mondiale (nel caso italiano, la politica è spostata per l’essenziale negli Usa e tende a controllare il nostro “spazio sociale” nazionale).
Quando si indebolisce, si rende carente, la politica in un dato “luogo nazionale”, sembra che in quest’ultimo gli apparati della sfera economica diventino preponderanti e dirigano la “politica” (ap-parati). Questa direzione e controllo della “politica” da parte dell’economia è reale e apparente nel contempo. E’ apparente nella misura in cui viene celato il fatto essenziale: l’economia (i suoi appa-rati: imprese e loro associazioni per categoria, ecc.) è divenuta, in prevalenza, esecutrice della poli-tica svolta nel “luogo nazionale” dei (pre)dominanti. Quest’ultimo ha evidentemente acquisito con la forza il ruolo di centro regolatore di uno “spazio del globo”, nel cui ambito gli altri “luoghi na-zionali” – dominati o meglio (sub)dominanti perché, in un contesto più ampio, sempre di dominanti si tratta – sviluppano una politica subordinata, il cui significato reale viene tuttavia completamente celato. Agli apparati della “politica”, e soprattutto a quelli cui è demandato l’uso della forza (nel senso lato, già più volte considerato) nella politica, l’ideologia dei dominanti (pre e sub) attribuisce una mera funzione sussidiaria, di semplice amministrazione, nel mentre la sfera economica (con suoi apparati) viene immersa nella competizione in atto nel presunto mercato globale, dove la poli-tica (le strategie) viene obnubilata e tutto sembra funzionare soltanto in base alla “virtuosa” concor-renza, fondata sul principio del minimo mezzo, dove vincerebbe il più efficiente.
4. Quanto sostenuto nel precedente paragrafo avrà forse disorientato il lettore che si aspettava la prosecuzione del discorso intorno alla crisi economica. Questo détour era invece indispensabile e faciliterà la comprensione delle argomentazioni che seguiranno. Torniamo quindi alle crisi del 1907 e 1929; crisi finanziarie seguite da un dissesto economico e produttivo più generale. E soprattutto crisi susseguenti a periodi di intenso sviluppo, di cui si è sempre considerato appunto il lato econo-mico. Nella “superficie”, infatti, con l’impetuoso sviluppo (meglio ancora, con la vera e propria cre-scita dato che lo sviluppo è fenomeno diverso), si verifica ad un certo punto l’espansione eccessiva del settore finanziario e del gioco di Borsa, che provoca la tipica bolla speculativa con inevitabile, come ormai dimostrato innumerevoli volte, esplosione della stessa e l’inizio dei vari fenomeni ma-nifestatisi anche ultimamente in modo virulento nel 2008 e in questi ultimi mesi.
Le vicende possono essere particolari (in questi ultimi tempi si è parlato spesso dei cosiddetti derivati), ma i processi di fondo hanno andamento simile. Nel 1907, come già considerato, vi fu l’eccessiva esposizione delle banche inglesi verso gli Usa, si gonfiò la bolla speculativa soprattutto alla Borsa di New York, crebbero le preoccupazioni per il rientro dei crediti e vi fu la stretta degli stessi impressa dalla Banca d’Inghilterra al suo sistema bancario, e così via. Ne seguì il logico afflo-sciamento della bolla finanziaria e l’inizio della crisi che condusse alla frenata e poi caduta dell’intera economia, e soprattutto della produzione “reale”. Senza fare la storia economica di quel periodo, diciamo solo che, pur dopo la fine della fase peggiore della crisi, non si verificò una nuova forte crescita, bensì una ripresa stentata che si trascinò fino alla prima guerra mondiale. Al termine di questa, lo sviluppo impetuoso, già iniziato durante lo scontro bellico mondiale, fu caratteristico soprattutto di alcuni paesi rimasti di fatto ai margini dello stesso: gli Usa entrarono in guerra nell’ultimo anno e non furono certo teatro della stessa, ne ebbero solo i vantaggi di produzione e di finanziamento dei paesi dell’Intesa risultati vincitori; per il Giappone vale ancor più lo stesso di-scorso, e così pure per altri paesi (Canada, Argentina, Brasile, ecc.) non però facenti parte del ri-stretto “club” di potenze in lotta dopo il declino della preminenza centrale inglese da metà ottocento in poi.
Lo sviluppo accelerato degli anni ’20, innestatosi con ritmi particolarmente elevati negli Stati Uniti, condusse infine agli stessi fenomeni (al di là delle concrete particolarità di ogni specifica congiuntura) di bolla speculativa, crisi finanziaria (iniziata con il crollo della Borsa di New York il “giovedì nero”, 24 ottobre 1929, seguito immediatamente dal “martedì nero”, il 29 ottobre), che produsse via via i suoi effetti negativi sull’intera economia, in particolare sui settori produttivi indu-striali e su scala mondiale (l’Italia, in quanto paese ancora prevalentemente agricolo e allora in parte autarchico, fu meno colpita). Il massimo della depressione si raggiunse nel 1932; la produzione mondiale era diminuita di circa il 40%, ma negli Usa si era praticamente dimezzata. La disoccupa-zione toccava decine di milioni di lavoratori, di cui la quota più alta era negli Stati Uniti. Anche questa crisi ebbe la sua storia particolare, che non ci interessa in questa sede.
Sia dopo la crisi del 1907 sia, soprattutto, dopo quella del 1929, vi furono interventi anticrisi da parte degli Stati. “Mitica”, nel senso letterale del termine, è rimasta in tal senso la politica america-na degli anni ‘30, il cosiddetto New Deal, una serie di misure di spesa statale lanciata dopo l’elezione di F.D. Roosevelt (1932 e presidenza dal 1933) che caratterizzò il periodo 1933-37. Di fatto, tale politica fu sistematizzata teoricamente da Keynes nella sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936). Nessuno vuol sostenere che le misure anti-crisi non ebbero alcun effetto. Credo si possa però affermare con certezza che esse non la risolsero, producendo solo l’attenuazione, a volte notevole a volte meno, dei suoi effetti (di “superficie”); mentre le cause “profonde” non vennero affatto rimosse. Dopo i primi successi, il New Deal dette luogo ad un altalenarsi di situazioni di “galleggiamento”; nel 1937 la crisi si ripresentò con vigore e nel 1939 la disoccupazione fu nuovamente massiccia (10 milioni contro i 15 del 1932). Come già la crisi del 1907, anche quella del ’29 fu risolta in radice da una nuova guerra mondiale, enormemente più devastante della prima.
In effetti, come già rilevato, la Grande Guerra del ’14-’18 aveva permesso agli Usa di acquisire un certo vantaggio nel sistema capitalistico complessivo; essi conobbero un periodo di grande slan-cio economico (accompagnato, come al solito, da un’espansione ben più che proporzionale della sfera finanziaria rispetto alla produttiva), ma non conquistarono una supremazia mondiale definiti-va. Il Giappone si era pur esso rafforzato e l’egemonia nel Pacifico non era affatto decisa per l’una o l’altra potenza, che si fronteggiarono fino agli anni ’40. L’altra grande potenza competitrice era a terra, ma non definitivamente; l’acceso nazionalismo nazista la rimise rapidamente in grado di af-frontare un nuovo scontro per l’egemonia nella parte “occidentale”, continentale. Ecco perché il bo-om provocato dalla prima guerra mondiale durò in fondo assai poco. Dopo la seconda guerra mon-diale, il periodo di crescita del sistema capitalistico fu più duraturo; inoltre, anche quando iniziarono le crisi, esse furono non a caso dette recessioni perché brevi e con ribassi non paragonabili alle bru-sche e rilevanti cadute della prima metà del novecento.
Le politiche keynesiane, pur in crisi di così modesta gravità (in confronto al ’29), hanno mostra-to tutta la carica effettivamente “mitica” del New Deal (che tuttavia possiamo ringraziare giacché quel periodo ci ha lasciato affreschi sociali e slanci di ottimismo e speranza in molte notevoli opere letterarie, ma soprattutto cinematografiche, americane degli anni ’30, slanci ben presto spenti dal dramma bellico). Nel secondo dopoguerra, come appena affermato, si è avuto un lungo periodo di tendenziale crescita a ritmi prima notevoli e poi comunque discreti nel mondo capitalistico, con cri-si di minore portata; mentre nell’altra “metà del mondo” – non “socialista” come si sosteneva, non rispondente affatto alle speranze rivoluzionarie del comunismo marxista – si verificava una sorta di “congelamento”, dovuto alla presenza di un “ibrido” che non ha trovato ancora una sua adeguata spiegazione e che tuttavia è all’origine della formazione di quelle potenze oggi in rafforzamento nel mondo a nuova tendenza multipolare.
Comunque, sintetizziamo quanto fin qui considerato. Dopo la crisi di “grande stagnazione” e tendenziale depressione di fine ‘800, durata quasi un quarto di secolo (accompagnata però da feno-meni di intensa trasformazione sociale e scientifico-tecnica), si aprì un decennio di forte sviluppo, cadenzato da alcuni fenomeni bellici minori, seppure alcuni cruenti e di non infima importanza: ad es., la guerra russo-giapponese (1904-5) e, prima ancora, quella americo-spagnola (1898) con la se-dicente indipendenza di Cuba (in realtà divenuta protettorato americano) e il controllo delle Filippi-ne, ecc. da parte degli Usa, decisivo competitore del Sol Levante nell’area del Pacifico. Nel 1907, dopo la solita accentuata dissimmetria tra crescita della finanza e quella produttiva, si ha l’esplosione della prima grande crisi, che si trascina di fatto, pur se alleviata da varie misure e so-prattutto dal riarmo generale delle potenze, fino alla prima guerra mondiale.
Terminata quest’ultima, a parte gli “stenti” dell’Europa che già mostra i segni del netto calo del-la sua plurisecolare preminenza, si ha un nuovo periodo di intenso sviluppo poco più che decennale (accentuato soprattutto negli Usa e in Giappone, due fra i “grandi competitori”) e scoppio di un’altra e più violenta crisi (pure questa anticipata dal crollo finanziario), che ancora una volta si trascina – malgrado misure di alleviamento delle sofferenze e con l’eccezione della Germania quando il nazismo prese il potere, imprimendo subito netto impulso all’industria mediante il proces-so di riarmo e il deciso controllo della finanza, ecc. – fino alla seconda guerra mondiale, dopo la quale si verifica un ben più prolungato processo di sviluppo del “campo capitalistico”, appena inter-rotto da recessioni. Tale processo dura fino alla recente nuova crisi di notevole virulenza; ma, nel frattempo, si è assistito alla dissoluzione del congelato “campo socialista” con intensi sommovi-menti che, all’inizio del XXI secolo, portano in luce nuove potenze.
5. Vediamo allora che cosa comporta ciò che finora sembra abbastanza chiaramente appurato. Per una buona metà dell’800 il mondo, in fase di completamento (nei paesi più avanzati) della tra-sformazione verso il capitalismo industriale, fu dominato dall’Inghilterra. Il processo storico che soprattutto impressionò fu appunto la “prima rivoluzione industriale” per i suoi aspetti di radicale e dolorosa trasformazione sociale, ma molto di più per l’aspetto economico di crescita accelerata del-le forze produttive con scienza e tecnica applicate sistematicamente alla produzione; fenomeno che non a caso dette una precisa coloritura all’analisi marxiana condotta sulla base di quanto avveniva nel paese centrale del tempo, preso come paradigma dei mutamenti (comunque sociali) del modo di produzione e dei suoi specifici rapporti.
Nella seconda metà dell’800 si è verificato il declino della preminenza inglese, è iniziata e ha poi preso ritmi consistenti la “seconda rivoluzione industriale”: chimica, elettricità, trasporti, comu-nicazioni e infine motore a scoppio, con settore auto e poi aeronautico, ecc. Essa darà l’impronta al nuovo secolo e allo sviluppo del nuovo capitalismo americano che, infine, divenne predominante. Anche di questo periodo ha colpito di più, ha maggiormente interessato la teoria e la storia, il lato economico, quello della tecnologia, dell’organizzazione dei processi lavorativi (il taylorismo-fordismo), che ha avuto soprattutto notevole influenza nei decenni tra il ’60 e il ’90 del ‘900 nel provocare l’involuzione del marxismo. Anche della “grande stagnazione” dell’ultimo quarto del XIX secolo si è constatato soprattutto il passaggio dal capitalismo di prevalente concorrenza a quel-lo mono(oligo)polistico. Gli studi forse più interessanti si sono concentrati sull’organizzazione delle grandi imprese americane, cogliendo indubbiamente alcuni rilevanti mutamenti sociali del capitali-smo; il punto forse più alto di questo indirizzo di riflessione teorica è stato raggiunto assai più tardi con le tesi di Burnham sulla “rivoluzione manageriale”.
Certamente, vi è stata l’analisi storica dell’epoca dell’imperialismo che ha colto il lato significa-tivo della lotta tra potenze per la supremazia mondiale, una volta declinata la centralità inglese. E’ stata però interpretata come un’epoca singolare; affermazione di per sé corretta, come qualsiasi al-tra concernente un processo storico, ma che non deve impedire di trovare nel passato quelle affinità in grado di indirizzare, per grandi linee, le previsioni circa i “fatti” del presente e del prossimo futu-ro. Del resto, anche dell’imperialismo si sono messi in luce i caratteri fondanti di tipo economico. Non a caso, per molti (fra cui i marxisti alla Kautsky, ma anche alla Luxemburg), l’imperialismo è stato pressoché sinonimo di colonialismo, inteso come annessione (e lotta tra potenze per la sparti-zione e poi nuova redistribuzione) di “territori” (paesi) a prevalente agricoltura o ricchi in minerali e fonti di energia da parte di paesi a ormai alto sviluppo industriale capitalistico. Altri, fra cui anche il pur notevolmente più intuitivo Lenin, hanno insistito sul carattere di stadio di sviluppo del capitali-smo, attribuendo speciale rilievo alla sua trasformazione in senso monopolistico, che avrebbe dovu-to accentuarne il carattere putrescente e parassitario, di formazione sociale “matura”, “senescente”, addirittura “morente”, per cui la lotta tra potenze veniva assimilata ai sussulti dell’agonia.
Lasciamo perdere le diatribe tra apologeti e critici del capitalismo quando, nel secondo dopo-guerra con la formazione del “campo socialista” e la temporanea (ma non breve) cristallizzazione bipolare del mondo, il capitalismo conobbe una nuova fase di sviluppo e trasformazione (con la “terza rivoluzione industriale”) che lo portò infine a far dissolvere (per almeno apparente “implo-sione”) l’altrettanto apparente antagonista storico. Dovremmo altrimenti addentrarci in una disami-na di quanto massiccio ideologismo sia stato profuso soprattutto dai critici anticapitalistici, in sem-pre maggior difficoltà nello spiegare come mai il capitalismo, così “irrimediabilmente maturo”, sia tornato a farla da padrone nel mondo intero. No, lasciamo ai posteri questo ingrato compito di ri-analizzare la massa di corbellerie profuse in quell’epoca (per la cui responsabilità non mi tiro indie-tro; ne ho dette e ridette anch’io un bel po’).
Sarà invece necessario in futuro concentrarsi sempre più proprio sul periodo in cui declinava la predominanza centrale inglese e fioriva la lotta tra le varie potenze in crescita e rafforzamento, scontratesi per un secolo – e anzi di più, se si tiene conto del quasi mezzo secolo necessario allo sfacelo del “socialismo” con la conseguente fine del confronto/scontro tra Usa e Urss – allo scopo di riaffermare la centralità di una di esse, gli Stati Uniti. La grande stagnazione o depressione di fi-ne ‘800 potrebbe allora assumere un significato diverso. Già è ben evidente che il periodo non era certo pura e semplice negatività; e non solo per una assai relativa pace (in confronto agli sconvol-gimenti bellici della prima metà del XX secolo e delle continue frizioni e tensioni della “guerra fredda”, delle vistose turbolenze tra primo e terzo mondo, ecc. nella fase caratterizzata dal bipolari-smo) e per le trasformazioni delle strutture economiche, tecniche e sociali in direzione del monopo-lismo e della “seconda rivoluzione industriale”. Quel periodo di fine ottocento può quindi essere definito come stagnazione soltanto in termini di crescita economica molto bassa – priva sia di crisi sconvolgenti del tipo successivo sia di impennate impetuose – ma non certo per assenza di sviluppo, implicante appunto trasformazioni e innovazioni che invece furono di grande rilievo e contrassegna-rono un passaggio d’epoca.
Si è andata formando, ma molto in embrione ancora, nella seconda metà del XIX secolo quella nuova formazione sociale che avrebbe preso il posto del capitalismo borghese tipico dell’Inghilterra. Molto tempo storico c’è voluto per la sua effettiva affermazione definitiva, ma è del tutto probabile che la “grande stagnazione” sia stata un periodo di transizione e di preparazione per l’affrontamento aperto di forme sociali capitalistiche diverse, durato poi una lunga epoca storica almeno secolare (nulla a che vedere quindi con i cicli Kondratieff, ancora intrisi di puro economici-smo). Se quanto “sospetto” è “realistico”, anche la lotta tra potenze in rafforzamento che fanno da contrappunto alla progressiva fine della predominanza (centralità) inglese – indebolimento di una potenza in quanto sintomo del declino di una data forma di capitalismo – può essere pensato come uno “strato”, non il “più superficiale” ma nemmeno ancora il “più profondo”, del lungo processo storico di transizione dal capitalismo borghese (“modello” inglese, confuso da Marx quale capitali-smo tout court e considerato nel suo aspetto di modo sociale ma di produzione, cioè nella sfera eco-nomica in quanto presunta base dell’intera formazione sociale) a quello che ho denominato, et pour cause mancando ancora del “concetto” (essendo cioè ancora al “flogisto”), capitalismo dei funzio-nari del capitale.
Il “terremoto” (non la crisi economica comunque, ma la durissima guerra di secessione) è il sin-tomo che segnala l’“approfondimento” del processo di formazione del nuovo capitalismo negli Usa. Tale evento, e dunque il processo di cui è indice, precedono anche cronologicamente l’inizio della depressione di fine secolo. Senza adesso tirarne conclusioni troppo stiracchiate, è comunque possi-bile vedere intanto in tale depressione – lo ribadisco: periodo di scarsa crescita ma di intenso svi-luppo inteso quale trasformazione della società – il periodo dell’indebolimento relativo della poten-za inglese, aspetto fenomenicamente più evidente del concomitante inizio (“dorato”) del tramonto capitalistico-borghese, rispetto alle sempre più forti potenze concorrenti, di cui una (gli Usa) stava conoscendo una trasformazione ben più “profonda” dei suoi rapporti sociali rispetto a quella tedesca (per l’essenziale ancora borghese) e a quella giapponese. Siamo, in definitiva e con maggiore evi-denza, nella fase di apertura del multipolarismo, in cui le potenze si studiano, si alleano e rompono le alleanze, la loro diplomazia è massimamente ingannatrice, l’apparenza delle intenzioni dichiarate è al massimo di distanza dai comportamenti tenuti più segreti e coperti, e via dicendo.
6. Il periodo in questione coincide con l’avanzata, in forza e capacità di lotta, del cosiddetto “movimento operaio”; anche in tal caso – sempre mantenendo un prudente distacco da troppo af-frettate conclusioni – ricordo che la costituzione della I Internazionale nel 1864 precede la fase di depressione del ’73-’96; soprattutto, però, è susseguente al famoso ’48, periodo breve di rivoluzione in cui si mise in piena mostra l’avvenuta, già da qualche tempo, decantazione interna al “Terzo Sta-to” (con la visione, pur schematica, di due contrapposte classi sociali: borghesia e proletariato o classe operaia). Il “movimento operaio” non è stato rivoluzionario come qualcuno pensava sarebbe divenuto (qualche troglodita crede ancora a questa possibilità); è tutta da riscrivere la storia delle rivoluzioni “comuniste” del XX secolo, che comunque si sono ormai da lunga pezza spente con ri-sultati nettamente differenti da quelli pensati dal 1848 in poi. In ogni caso, il suddetto movimento ha accompagnato tutta la trasformazione del capitalismo borghese in altro; e si è spento perché, e-videntemente non solo nelle correnti marxiste o pseudotali, non ha saputo stare al passo con la tra-sformazione secolare, interna alla formazione sociale detta capitalistica.
Se quanto fin qui affermato comincia ad inquadrare i processi storici di quell’epoca (di transi-zione tra capitalismi) con diverse categorie (ipotetiche) di interpretazione teorica, è possibile capire (ed estrarre, salvandolo) il nocciolo razionale (e pure scientifico) del marxismo e, nel contempo, l’“errore” commesso, un errore che, come in tutte le teorie scientifiche, è valutabile solo a posterio-ri e va dunque corretto. Avendo Marx analizzato il capitalismo inglese (borghese) allora predomi-nante, il solo ad aver compiuto pienamente la trasformazione industriale (la cosiddetta sussunzione reale del lavoro nel capitale e la formazione del modo di produzione specificamente capitalistico, quello manifatturiero essendo ancora considerato una forma di transizione), egli ne fece il paradig-ma par exellence della formazione sociale capitalistica e dei suoi “storicamente specifici” rapporti sociali.
Era del tutto naturale, e corretto in sé e per sé, che il declino di questo capitalismo venisse inter-pretato quale progressiva putrescenza delle forze produttive incatenate e impedite nello sviluppo da rapporti di produzione storicamente superati. Quel vecchio modo di produzione aveva provocato il diffondersi dei veri stabilimenti (fabbriche) sede dei processi lavorativi con crescita dell’esercito operaio, ormai visto come semplice allargarsi della base lavorativa esecutiva, addirittura manuale. Andava così persa l’importante acquisizione marxiana secondo cui il passaggio al comunismo do-veva essere pensato e attuato nell’ambito di una ricomposizione tra lavoro direttivo ed esecutivo con formazione dell’operaio combinato, superamento nel corpo lavorativo collettivo della scissione di ciò che era unito solo individualmente nell’artigianato medievale. Persa di vista tale ipotesi, gli operai divennero semplicemente le “tute blu”, i lavoratori delle medio-basse mansioni esecutive.
Lo sviluppo capitalistico fu a quel punto considerato quale moltiplicazione e ingrandimento de-gli opifici lavorativi, crescente concentrazione di masse di lavoratori sempre più consistenti e sem-pre più “eguali” nel carattere meramente esecutivo e “dequalificato” del lavoro. Quest’ingrandimento seguiva la centralizzazione dei capitali (in quanto accentramento della loro proprietà in senso prettamente formale, giuridico); e quest’ultima implicava la trasformazione del capitale da proprietà di chi dirigeva la produzione a proprietà di rentier parassiti. La grande depres-sione fu trattata come risultato del raggiunto limite estremo nello sviluppo delle forze produttive capitalistiche, caratterizzato pure dal passaggio al monopolio, di fatto identificato con la grandezza degli stabilimenti e del macchinario ivi impiegato con mano d’opera comunque tendenzialmente in aumento, ma molto meno che proporzionalmente rispetto al capitale (in specie fisso). Ineluttabile e irreversibile fu considerata la trasformazione del capitale da produttivo in finanziario (teorizzata in-fine nel Capitale finanziario di Hilferding del 1909 (2), non a caso interpretato fin quasi ai giorni nostri quale continuazione e aggiornamento de Il Capitale).
In effetti, stava finendo il capitalismo borghese a centralità predominante inglese; si stava en-trando in un lungo periodo storico di multipolarismo, prima incipiente (proprio durante la “grande depressione” di fine ‘800) e poi “esploso” in aperto policentrismo con lo scontro più diretto (e mili-tare) tra potenze e i vari fenomeni (di grande sconvolgimento) tipici del ‘900. Malgrado tutti gli ag-giustamenti – politicamente geniali in Lenin – la teoria marxista è al massimo proceduta tramite un susseguirsi di ipotesi ad hoc per “adattarla” in qualche modo alla “realtà”. Infine, arrivati al massi-mo della sua incomprensione dei fatti, questa teoria è oggi crollata sfociando in nuove utopie e fan-tasticherie di semplici “filosofi” (nel senso deteriore del termine) oppure viene coltivata da pochi sclerotici, i più furbi dei quali sanno utilizzarla, mediante la sua totale cristallizzazione, semplice-mente per farsi “benvolere” dai gruppi capitalistici dominanti, quelli più parassitari e servili verso la nuova formazione capitalistica (dei funzionari del capitale) che vede la centralità (per fortuna, or-mai intaccata ampiamente) degli Usa (3).
Alcuni economisti americani arrivati al marxismo (tipo Sweezy) hanno quanto meno capito il passaggio dallo stabilimento sede del processo lavorativo (la fabbrica), quale centro di gravità dell’unità produttiva capitalistica in competizione mercantile con le sue concorrenti, all’impresa multi-dipartimentale e multi-divisionale, ecc. che è qualcosa di profondamente diverso (anche su questo ho abbastanza scritto in passato). La loro formazione da economisti, di derivazione per lo più keynesiana, è stata comunque un grosso limite, su cui certamente adesso non torno, pur consiglian-do di rileggere questi studiosi piuttosto di Hilferding, che conduce in direzioni ormai senza via di uscita, mentre uno Sweezy almeno parla dall’interno della nuova formazione sociale capitalistica in via di completa affermazione su quella borghese a centralità inglese.
In conclusione, una generazione di marxisti, tra fine ottocento e prima guerra mondiale, può es-sere scusata per aver pensato la fine del capitalismo borghese – tanto più accompagnata dalla lunga depressione di fine secolo XIX, da altre gravi crisi, da scontri militari sempre più sconvolgenti, dall’affermazione di movimenti come il nazifascismo, trattati da ultimo tentativo della reazione all’ascesa del proletariato internazionalmente rivoluzionario, mentre oggi devono essere totalmente ristudiati e reinterpretati secondo un nuovo “fascio di luce incidente”: lotta tra “modelli” differenti di capitalismo, comunque “rivoluzionato”, per la sostituzione di quello borghese effettivamente mo-rente – quale fine del capitalismo tout court con inizio della presunta epoca della montante “rivolu-zione proletaria mondiale”. La scusa, con buona volontà, va magari estesa anche al periodo fra le due guerre. Poi, dobbiamo (e la prima persona plurale implica un’effettiva autocritica) avere il co-raggio di ammettere che proprio noi marxisti abbiamo perso il contatto con la realtà e siamo vissuti in una dimensione “altra” rispetto allo scorrere degli eventi di questo mondo. Non continuiamo a farlo, però, perché allora meriteremmo di essere portati davanti ad un plotone di esecuzione come comuni criminali.
7. Arriviamo al punto cruciale, che non è tuttavia d’arrivo; se il lettore ha ben capito quello che si è andato fin qui dicendo, afferrerà che siamo appena partiti, siamo a pochi metri d’avvio della corsa. Credo sia molto probabile che, fatte le pur debite differenze sempre sussistenti negli accadi-menti storici, si sia entrati in un nuovo periodo di incipiente depressione; più o meno coincidente con la fase di apertura di un nuovo multipolarismo.
La precedente epoca di questo tipo (detta dell’imperialismo) passò presto dal multipolarismo all’aperto policentrismo con violento regolamento di conti tra le potenze per la supremazia mondia-le. L’apertura della stagione rivoluzionaria – presa per “comunista” prima, poi anche per lotta di li-berazione del terzo mondo dal predominio imperialistico del primo; in ogni caso con grandi scontri, in cui le masse in movimento erano contadine, con la presenza di piccole (presunte) “avanguardie” operaie (e non dappertutto, anzi quasi solo in Russia), dirette abilmente da organizzazioni nel cui ambito si andarono formando nuovi gruppi dominanti – ha consentito che, per un lungo periodo, in particolare dopo la decisiva seconda guerra mondiale, il mondo considerato a tutti gli effetti capita-listico non fosse quello globale.
Nel campo capitalistico, la potenza Usa (massima espressione della formazione dei funzionari del capitale, ormai definitivamente vittoriosa nei confronti del capitalismo borghese) assunse la po-sizione centrale. Nell’altra parte, sussistette l’“ibrido” cui si è già fatto cenno, una formazione so-ciale ancora da studiare al di fuori dei vecchi schemi, ma che ha comunque dimostrato praticamente di non essere affatto in grado, oltre certi limiti, di competere con quella avversaria. Tuttavia, la ge-stazione in essa di particolari fenomeni, venuti solo oggi alla luce nel semplice aspetto di nuove po-tenze, ha comunque cristallizzato il mondo per circa 45 anni nel bipolarismo (con la Cina quale “terzo incomodo”, incapace però di rilanciare il processo di trasformazione “socialistica” così come tentato con la rivoluzione culturale del 1966-69), impedendo dunque agli Stati Uniti di assurgere al predominio monocentrico (o unipolare) alla stessa guisa dell’Inghilterra nella prima metà ‘800 (tut-to sommato, diciamo per trovare delle date, dal “Congresso di Vienna” del ’15 alla guerra di seces-sione, o civile, americana e a quella franco-prussiana).
Solo con la frantumazione del “cristallo”, cioè con la scomparsa del “socialismo” e dell’Urss, si è avuto l’unipolarismo statunitense, durato a questo punto assai poco (una dozzina d’anni al massi-mo), segno evidente che nell’“ibrido”, di cui appena detto, i fenomeni dissolutivi hanno solo “co-perto” la formazione di “strutture” sociali (affermatesi infine in Russia), la cui esistenza è venuta finora in evidenza solo come nascita di una nuova potenza in via di rafforzamento. Quest’ultima è all’apparenza più debole della pretesa “seconda superpotenza” (Urss) dell’epoca precedente, ma è assai più dinamica e con un futuro che sembra a tutt’oggi più promettente della stagnante formazio-ne di tipo solo “statalista”, in cui la politica si svolgeva nelle “segrete stanze del Palazzo” (Stato e partito unico fusi in apparati di cui traspariva solo un vertice oligarchico, sempre unitario salvo, all’improvviso, esplodere in una lotta che coinvolgeva poche persone, almeno all’apparenza).
Non mi avventuro adesso in supposizioni circa l’effettiva “struttura” sociale uscita dallo scio-glimento dell’“ibrido”, avvenuto in forme diverse nelle due potenze, Cina e Russia, che ne sono ri-sultate. Per il momento, esse mostrano forme apertamente capitalistiche (mercantili e imprenditoria-li) nella sfera economica unite a una forte centralizzazione del potere nella sfera “politica” della formazione sociale. Ricordo che tale sfera è il campo del conflitto tra strategie (la politica) proma-nanti da gruppi dominanti, conflitto condensatosi in apparati, il cui nocciolo è lo Stato, di cui si de-ve mantenere la coesione. Quest’ultima esige, pena l’inanità del tentativo, la presenza dei “distac-camenti speciali in armi” sempre pronti alla sua difesa (coercitiva) d’ultima istanza, mentre nei pe-riodi normali sembra funzionare solo l’amministrazione (degli “affari generali” dell’intera colletti-vità) e l’egemonia ideologica; attività che stanno alla base delle mistificazioni “annebbianti” degli ideologi dei dominanti o di pseudocritici del capitalismo, interpretato secondo fumose concezioni (di certa “destra”, scopiazzata da alcuni ex “marxisti”) quale semplice formazione “culturale”.
Considero probabile che la cristallizzazione bipolare del mondo – con una delle due parti che, da un certo punto in poi, poteva solo resistere ma non più vincere sull’altra – sia comunque causa del breve periodo di unipolarismo effettivo degli Usa e di riuscita gestazione di potenze concorrenti con tale paese; una gestazione probabilmente accompagnata da processi di trasformazione sociale in grado di dar vita ad una nuova formazione sociale da taluni denominata, con effetti di distorsione e mascheramento, “socialismo di mercato”. Altri hanno risposto con identici propositi di annebbia-mento ideologico sostenendo che in “occidente” – anzi precisamente in Europa, e nel suo momento di allineamento più generale con gli Stati Uniti e di maggiore subordinazione ad essi – esisterebbe o potrebbe esistere, proprio grazie alla crisi, una “economia sociale di mercato”. Tutte “coperture” ideologiche. Siamo di fronte a due diverse formazioni sociali di tipologia capitalistica. Una è quella dei funzionari del capitale; e i paesi della presunta “economia sociale di mercato” appartengono a quest’area trovandosi in una situazione di speciale dipendenza dagli Usa. La “socialità” sta solo nel-le parole ma è costantemente smentita dai fenomeni in fase di svolgimento in questi paesi, i cui gruppi (sub)dominanti sono sempre più servili rispetto a quello rimasto centrale nei loro confronti.
Mi azzardo a prevedere, con la solita formula del mutatis mutandis per nulla affatto di semplice prammatica, che la crisi attuale si inserirà in una nuova fase di “grande depressione”. Non credo che, per un certo periodo storico, si verificheranno crisi violente tipo 1907 e 1929, ma piuttosto una situazione di crescita stentata, alternata a momenti critici come quelli passati dal 2008 ad oggi. Una serie di ondulazioni nei “dati economici”, accompagnata da trasformazioni sociali e da sofferenze che queste indubbiamente comporteranno, ma la cui gravità è al momento imprecisata. Ritengo ipo-tesi plausibile e realistica che sia proprio il nuovo multipolarismo – del resto incipiente perché an-cora gli Usa restano la potenza prevalente sebbene il loro predominio centrale, durato tra il 1991 e i primi anni di questo secolo, sembra proprio finito – a preparare una fase tendenzialmente depressiva del genere. Adesso si preannunciano, come già nel 2009, segni di ripresa (anche europea) che, pur se si precisassero in una effettiva congiuntura di crescita, non muterebbero il carattere generale al-meno del prossimo decennio o forse due. Ci sarà un’altalena di periodi in genere brevi volti nell’uno e nell’altro senso.
Non ricomincerei, come sicuramente farà qualcuno, a pensare al capitalismo putrescente, “matu-ro”, “morente”, ecc. ecc. Nemmeno è possibile, a meno di non credere che la storia si ripeta pari pa-ri, prevedere la durata di quest’epoca e le sue più particolari caratteristiche. E’ al momento suffi-ciente pronosticare (il che implica pure una “scommessa”) un periodo di avviamento della lotta tra potenze – ancora però ben lungi dall’essere tutte sullo stesso piano come forza – con il solito cor-teggio di avvenimenti tipici della lotta tra “dominanti”, che è massimamente contorta e di difficile decifrazione. Questo è il livello più “profondo” (lo “scontro tra falde tettoniche”), cui possiamo at-tualmente attingere. La crisi, in particolare quella finanziaria, è proprio l’aspetto di “superficie”. Non dico che sia inessenziale, che non debba ritenere la nostra attenzione, poiché è il livello a cui si svolge la nostra vita di tutti i giorni, con i suoi bisogni più “materiali”.
Non farei però come i “marxisti” di un secolo fa, non mi ci fisserei dal punto di vista dell’analisi di maggior momento. Iniziamo intanto a spingerci nello strato senza dubbio “sottostante”, e più fondamentale, dell’urto tra potenze, cogliendo subito la differenza odierna rispetto all’epoca passa-ta: l’“imperfezione” del multipolarismo (legata comunque all’ancora molto breve periodo d’avvio dello stesso) rappresentata dalla maggiore potenza tuttora detenuta dagli Stati Uniti (ribadisco: non semplicemente in termini militari, bensì proprio come sistema socio-economico e, in primis, politi-co). Dall’inizio di questa fase multipolare, ancora “imperfetta”, dobbiamo aspettarci un periodo di lotte mascherate (e coperte dalla “cooperazione multilaterale”), di tensioni molto più acute in pro-fondità e nel lungo periodo che, nei comportamenti delle potenze nel breve, condurranno a continui voltafaccia con momenti di alleanza e di spirito di collaborazione (del tutto di facciata), poi rapida-mente dismesso per magari riprenderlo in altre forme e con altri aggiustamenti di tiro per meglio combattersi, ecc.
E’ in questo contesto che nasceranno le future crisi economiche e finanziarie, le congiunture al-talenanti con brevi ondulazioni in un senso e nell’opposto. Lo ripeto: incideranno pesantemente sul-la nostra vita, soprattutto su quella delle “classi” subalterne. Tuttavia, lasciamo ai “tecnici” di “stor-dirsi” seguendole, incespicando come un giocatore di calcio che insistesse in stretti dribbling. Que-sti “tecnici” (i leniniani specialisti borghesi) hanno una loro utilità per soluzioni di breve (anche brevissimo) periodo; oltre ad essere utili (non sempre sia chiaro, talvolta provocano guasti peggiori del “terremoto”), essi hanno però in mano la possibilità (mediatica) di ingannarci con ideologie di totale annebbiamento e distorsione dei “fatti” (niente paura, so bene che non esistono in sé, privi di interpretazioni legate alla lotta, al conflitto). In tale compito sono coadiuvati – e non so quanto in buona fede – proprio da coloro che, in vena di carriere accademiche o altro già sopra ricordato, si fingono anticapitalisti, “critici che più critici non si può”; e intanto, anche loro, partecipano alla mi-stificazione ideologica dell’attenzione al livello più “superficiale” della crisi economica e finanzia-ria. E’ evidente che tra i “tecnici”, di cui appena detto, e simili tromboni esiste una bella differenza; ovviamente tutta a favore dei primi.
8. Chiarito quale peso – non irrilevante, ma secondario – dobbiamo attribuire al susseguirsi di crisi (e di riprese ovviamente) cui andremo incontro, chiarita la causa più “profonda” di tali con-giunture (sintetizzando: il multipolarismo pur “imperfetto”), è necessario portare in evidenza un’altra decisiva differenza dell’epoca attuale rispetto a quella della fine del XIX secolo. Ho già ri-cordato che la presenza dell’“ibrido” – la formazione sociale detta socialista, una parte della quale era rappresentata dalla “superpotenza” Urss – è da ritenersi causa, tramite la cristallizzazione bipo-lare del globo per quasi mezzo secolo, del breve periodo di unipolarismo (o monocentrismo) statu-nitense rispetto a quello inglese dell’800 (dal ’15 fino, grosso modo, agli anni ’60-’70 del secolo). Quella presenza ha avuto pure un altro effetto, che non mi sentirei di giudicare negativo, ma che comunque ha largamente sviato l’attenzione di coloro che furono comunisti e crederono al declino del capitalismo borghese quale prossima fine del capitalismo tout court e dunque prodromo dell’avanzata del socialismo (“primo gradino” del comunismo o quanto meno fase di transizione ad esso) nel mondo.
A fine ‘800 – durante il manifestarsi di quella “depressione”, cui ho attribuito in questo scritto il carattere di manifestazione del multipolarismo in quanto periodo di passaggio all’aperto scontro po-licentrico dai primi anni del XX secolo fino al 1945 – era in avanzata il “movimento operaio”; cioè il movimento nato dalla “decantazione” del Terzo Stato in quelle “classi” dette borghesia e proleta-riato (o, appunto, classe operaia). Ci s’illuse che tale movimento conducesse alla rivoluzione contro il capitale per la trasformazione comunistica, poi si accettò che si dovesse passare per una fase in-termedia, in cui sarebbero via via saltati gli “anelli deboli della catena imperialistica” (i paesi a mi-nor sviluppo capitalistico), ecc. ecc.; chi ha vissuto abbastanza a lungo nel novecento sa di che cosa si tratta. Non si sviluppò nessun processo del genere, ma sarebbe inutile negare la rilevanza di quel movimento di “classi” (grossi raggruppamenti sociali) di carattere subalterno (i “dominati”).
Non semplicemente il sedicente “secolo breve”, ma quello ben più lungo da metà ‘800 fino a pochissimi decenni fa, ne è stato fortemente connotato. Durante tale periodo, si sviluppò la lotta a-cerrima tra due opposte tendenze del movimento in questione: quella “riformista” (che accettò con-sapevolmente di restare entro la riproduzione capitalistica praticando una lotta redistributiva, non di solo reddito) e quella “rivoluzionaria” che continuò ad illudersi, sulla base del misconoscimento delle tesi marxiane relative all’operaio combinato con le sue previsioni errate, sulla possibilità del passaggio al comunismo tramite il socialismo.
Impantanatasi la prospettiva, realmente marxista, di un’ascesa rivoluzionaria della “classe” ope-raia, anche la tendenza “rivoluzionaria” si divise in due: da una parte, quelli che affidavano l’affermazione del “socialismo” alla maggior forza del “campo” corrispondente, ma soprattutto, è inutile negarlo, alla “superpotenza” Urss che si era convinti sarebbe risultata vincitrice sull’antagonista; dall’altra, i sostenitori del ben noto “accerchiamento delle città (paesi capitalistici) da parte delle campagne (le masse contadine del terzo mondo)”. Alla lunga (oltre un secolo), di di-visione in divisione, del “movimento operaio” non è restato un bel nulla. Purtroppo, si è ritardato moltissimo nel prendere atto di una serie di “fatti” di primaria importanza. La sedicente classe ope-raia fu un raggruppamento in crescita sia numerica che percentuale durante la prima fase dello svi-luppo capitalistico. E perfino in questa fase – tipica della centralità inglese nella formazione sociale borghese – mostrò chiaramente, precisamente in Inghilterra, di non possedere un carattere rivolu-zionario, di essere interna alla riproduzione dei rapporti specifici di quella formazione sociale.
Ricordo inoltre, una volta di più, che non si trattava di quella “classe” che Marx pensava si for-masse (l’operaio combinato di cui sopra detto e di cui ho parlato infinite volte negli ultimi 15 anni) e divenisse del tutto maggioritaria nella società, essendo così in grado di conquistare una vera ege-monia grazie al controllo, collettivo (dal massimo livello direttivo all’ultimo esecutivo), dell’intero processo di produzione. I successivi marxisti, preso realisticamente atto che le dinamiche sociali del capitalismo non conducevano per nulla nella direzione prevista da Marx, invece di trarne le logiche conclusioni di radicale correzione e riformulazione di quella teoria, si sono immaginati che tale classe fosse quella esecutiva di fabbrica, educata alla disciplina ferrea dalla direzione capitalistica e quindi già pronta come “esercito rivoluzionario”.
In realtà, quando un paese capitalistico raggiungeva certi livelli di sviluppo – per di più, come rilevato, con il mutamento della formazione sociale in direzione di quella dei funzionari del capitale – questa “classe” si “imborghesiva” (così si pensava). Restava tuttavia una gran parte del mondo ancora poco sviluppata capitalisticamente, in cui vi erano nuovi comparti operai che combattevano duramente per arrivare dove erano arrivati i loro “compagni” dei paesi maggiormente avanzati. Questa accesa lotta, tipica delle prime fasi dell’industrializzazione e della crescita quantitativa degli operai, fu costantemente identificata (e confusa) con la ripresa della coscienza “rivoluzionaria” del-la “classe”.
Non vi è dubbio che vi sono ancora molte aree mondiali dove il capitalismo, economicamente e tecnologicamente parlando, non è ancora molto avanzato. Tuttavia, il “passaggio di testimone” da un comparto operaio nazionale all’altro non poteva durare indefinitamente. Oggi, è del tutto eviden-te che la “classe” operaia (ripeto che nulla ha a che vedere con quanto pensava Marx, però sba-gliando completamente analisi e previsioni a tal proposito) non ha nulla di rivoluzionario, è interna alla riproduzione capitalistica. La sua lotta conta dunque nell’ambito della (re)distribuzione del reddito prodotto e del conseguimento di migliori condizioni di vita e di lavoro, così come contano nello stesso senso le lotte di altri comparti sociali, cresciuti con lo sviluppo capitalistico – soprattut-to nella nuova forma di società a “modello” americano predominante – più che proporzionalmente rispetto agli operai (nel senso non marxiano, ma certo marxista, del termine).
Non vi è dubbio che si è troppo ritardato nel comprendere il totale esaurimento di una teoria e di una prassi, che hanno comunque guidato importanti rivoluzioni di tipo tutt’affatto differente da quello che si è insistito a credere da parte dei comunisti e dei marxisti. I risultati di quelle rivoluzio-ni sono stati del tutto fraintesi e, quando alla fine, il movimento comunista è crollato (e sono crollati quasi tutti i paesi “socialisti”, mentre i pochi rimasti lo sono ormai soltanto come etichetta), si è pian piano constatato, dopo le inevitabili convulsioni dovute anche al ritardo di una più corretta pre-sa di coscienza della “realtà” e della propria sconfitta, che ci si trovava di fronte a formazioni sociali di un tipo differente da ogni previsione; talmente differente che, ancor oggi, manca un loro studio e analisi condotti alla luce di quanto avvenuto dopo il 1989-91 (4).
In ogni caso, non esiste al presente un movimento delle classi subalterne, nei paesi avanzati e in particolare in quelli che sono potenze in conflitto nel nuovo multipolarismo, paragonabile a quello operaio della precedente epoca di declino inglese e di entrata nel multipolarismo di fine ‘800. Eppu-re, anche in questa nuova fase, che a mio avviso conoscerà brevi periodi di crescita alternati a cadu-te della stessa con tendenza di medio-lungo periodo nella sostanza ben poco entusiasmante, si av-vertono trasformazioni sociali all’interno delle varie formazioni particolari dei capitalismi più a-vanzati; non ancora ben definite e decantatesi nella “condensazione” di raggruppamenti sociali di-sposti in verticale. Riesce difficile in questo momento rendersi conto con precisione se è la mancan-za di “lenti teoriche” a non farci “vedere” questa decantazione oppure, ed è questa per me l’ipotesi più probabile, se è questa decantazione ad essere così iniziale e gelatinosa da non consentire ancora di “molare le lenti”. In ogni caso, il ceto intellettuale di questo “occidente” nemmeno si pone il pro-blema. O continua con le vecchissime categorie o si lancia nei fumi del chiacchiericcio che serve soltanto alla notorietà di chi ha meno cervello.
9. Queste sono le conclusioni cui giunge un lungo discorso sulla crisi, non tanto per parlare d’essa ma di ciò di cui è sintomo. Ripeto che è comprensibile come quest’ultimo, il “terremoto”, ritenga l’attenzione dei molti in quanto provoca le più immediate sofferenze e disagi. Ci sono però quelli che non soffrono affatto di tali disagi; anzi inneggiano, da perfetti superficiali e irresponsabi-li, all’approssimarsi della rivoluzione e del comunismo (e versioni anche peggiori come il comuni-tarismo). Ho voluto far capire che è ora di finirla con simili bambinate (di quelli in buona fede) o con autentiche mascalzonate criminali (degli altri).
Dobbiamo andare ben più in profondità per comprendere meno brevi tendenze della formazione sociale mondiale. Per il momento, il livello “più profondo” cui possiamo attingere è quello dello “scontro tra falde tettoniche”; fuor di metafora, quello del conflitto tra potenze nella nuova fase di multipolarismo in avanzata, non ancora però perfezionatasi né tanto meno passato all’acuto scontro policentrico. La previsione da farsi sembra essere quindi quella di un periodo abbastanza lungo (ma, almeno grosso modo, direi non più di una generazione) di relativa stagnazione, il che non significa assenza di momenti di crescita o di nuove crisi di tipologia economica; solo che queste andranno inserite nel contesto del mutamento dei rapporti di forza nella lotta (piena di accordi, di finte coope-razioni, di sorrisi davanti e manovre spiacevoli alle spalle, ecc.) tra le potenze, di cui una resterà an-cora abbastanza a lungo la più forte pur se ci si allontanerà progressivamente, ma a ondate, dall’unipolarismo dei 10-12 anni successivi alla dissoluzione dell’Urss.
Vi è un livello ancora “più profondo”? Certamente: è quello della decantazione e condensazione di nuovi scontri tra raggruppamenti sociali in verticale (detto, ma molto imprecisamente per dare soltanto un’idea del problema, tra dominanti e dominati; si tratta insomma della vecchia “lotta di classe”). Il conflitto tra potenze interessa i gruppi dominanti; esso comporta mutamenti dei rapporti di forza tra questi ultimi non solo a livello mondiale, ma anche all’interno delle formazioni partico-lari o paesi (o nazioni). In questo conflitto, da seguire oggi con specifica attenzione, si andranno formando appunto, anche all’interno dei singoli paesi, determinate costellazioni di forza (e blocchi sociali per il momento egemonizzati dai gruppi dominanti fra loro in urto), che corrisponderanno alle diverse zone d’influenza delle differenti potenze. Evidentemente, in tale situazione, non va tra-scurata (questo è specialmente valido per il nostro paese) la battaglia per tentare di uscire da una zona d’influenza: certo tentando di non cadere subito in un’altra, ma tenendo ben conto della situa-zione di multipolarismo ancora “imperfetto” esistente, per cui il primo compito del presente è af-francarsi il più possibile dal predominio degli Stati Uniti.
Tutto lascia supporre, malgrado il ritardo sopra segnalato, che dallo scontro tra potenze nascano infine sommovimenti profondi anche in verticale all’interno di varie formazioni particolari (paesi), in modo da arrivare alle decantazioni e precipitazioni (di raggruppamenti sociali) di cui si è detto e che sono, almeno tutto lascia così presagire, in forte ritardo. Alcuni punti vanno allora tenuti ben presenti.
a) Non ci si può inventare, perché così lo si desidera o vuole, che già oggi vi siano classi subal-terne in movimento tale da scardinare gli assetti, mondiali o anche solo nazionali, dei dominanti. Chi procede con queste forzature utopistiche e di pura fantasia, non tiene conto della dura “materia-lità” delle condizioni “oggettive” indipendenti dalla volontà di individui o gruppi sociali. Nel 1820 o 1830, nessun genio, perfino superiore a Marx, avrebbe saputo vergare il Manifesto del partito co-munista. E negli anni in cui questo fu scritto, difficile credere alla possibilità di un’elaborazione (scientifica, non elucubrazioni di un vago futuro) come quella de Il Capitale. Occorreva non solo la lunga preparazione di studio e analisi compiuta da Marx – la lettura dei testi dell’economia classica inglese e dei rapporti sull’industria in quel paese, ecc. da cui, soltanto, nacque la critica dell’economia politica, non un’ulteriore opera filosofica fra le tante che ormai esistevano all’epoca – bensì anche il pieno sviluppo del capitalismo industriale inglese, giunto all’apice della sua maturi-tà e predominanza centrale, che consentì così a Marx di prenderlo quale “laboratorio” della sua in-dagine.
b) Tale sviluppo del capitalismo industriale e quello del movimento operaio erano in appena lie-ve sfasatura temporale, quasi concomitanti. Ciò consentì a Marx di pensare che il primo processo fosse causa del secondo. Pur se la maggior forza dell’effetto si constatava in Germania e non in In-ghilterra, tale fatto non fu ritenuto da Marx così fondamentale da inficiare le tendenze che credé di individuare nelle dinamiche capitalistiche, e che lo portarono a teorizzare la “scissione” tra proprie-tà del capitale e direzione dei processi produttivi, con quest’ultima in via di tendenziale ricomposi-zione nel lavoratore collettivo cooperativo, soggetto della rivoluzione verso il comunismo. Oggi, dobbiamo avere il coraggio di studiare le tendenze del capitalismo dell’epoca successiva al declino inglese, cioè quello americano dei funzionari del capitale, senza voler subito individuare il (vero o presunto) nuovo soggetto rivoluzionario o quanto meno le “classi subalterne” in forte contestazione dei gruppi dominanti.
c) Qualora riuscissimo, eventualmente, a meglio individuare un nuovo organizzato movimento dei dominati (subordinati, non decisori o come si vorrà denominarli) in fase di riunificazione e raf-forzamento, con la decantazione e precipitazione di nuove divisioni della società in verticale, do-vremo stare attenti a non immaginare subito che il capitalismo tout court è putrescente, morente, ecc. per cui si preannuncerebbe la nuova società dell’eguaglianza e della cooperazione universale; ripetendo cioè l’errore compiuto durante il declino del capitalismo borghese (di matrice inglese). Per il momento, intanto, è possibile intuire – ma non analizzare compiutamente – la distinzione tra l’ancora prevalente formazione dei funzionari del capitale (nel cui ambito hanno ancora posizione predominante centrale gli Stati Uniti) e differenti forme (o “strutture”) dei rapporti sociali, sempre guidate e orientate da gruppi dominanti. Esse vengono enucleandosi soprattutto in Russia e Cina; e sono, a mio avviso, il vero risultato storico del grande sconvolgimento provocato nel XX secolo dalla Rivoluzione d’ottobre, pur con percorsi tortuosi del tutto diversi, come sempre ma proprio sempre accade, da quelli voluti e perseguiti dagli attori inseritisi rivoluzionariamente in dati proces-si storici.
Questi mi sembrano gli insegnamenti fondamentali da trarre dagli ultimi decenni. Per il momen-to, il livello “più profondo” analizzabile è quello legato all’avviamento del multipolarismo con la solita ambigua e multilaterale lotta tra potenze. Chi si limita a concentrarsi sul “terremoto” relativo alla crisi, lo può fare del tutto utilmente se però ha coscienza di stare evidenziando un livello “più superficiale”; certamente non irrilevante, con effetti attuali di prevalente disgregazione sociale ma magari – in un futuro non lontano di andamento contrario – di nuova riaggregazione in forme diver-se. Chi si dedica invece a ulteriori fumose credenze di “catarsi” sociale in vista di nuove vie da im-boccare verso il comunismo (o similari) è invece particolarmente dannoso, non porta ad alcuna co-noscenza utile, devia l’attenzione a tutto favore dei dominanti della formazione dei funzionari del capitale, i dominanti che sono oggi i principali nemici. Perniciosi sono questi pseudopensatori e vanno quindi combattuti e tenuti a distanza come appestati; essi bloccano il pensiero critico e nem-meno sanno cogliere gli aspetti salienti dei “terremoti”.
Come avevo segnalato nel titolo, ho scelto l’argomento della crisi per parlare d’altro, di ben al-tro. Mi auguro ci si sia accorti che ci siamo imbattuti in problemi di grande rilevanza storico-teorica. Certo, ho soprattutto indicato e poco risolto. Era però esattamente il mio scopo. Non posso nascondere tutta la mia antipatia verso chi annuncia, da perfetto trombone, soluzioni mirabolanti in un’epoca storica, in cui stanno prendendo forma processi tali da porci infiniti rompicapo e ben po-che soluzioni; almeno per il momento, in futuro la situazione potrebbe mutare radicalmente. Non anticipiamo, per favore, la realtà, scambiandola con i nostri desideri.
NOTE
(1) Tale carattere capitalistico è adombrato da quegli economisti, in genere americani, che hanno sostenuto come l’imprenditore non guardi al massimo profitto immediato, ma a quello generato in un più lungo periodo di tempo; ciò implica che l’imprenditore sia in realtà un gruppo di vertice dell’unità produttiva detta impresa, gruppo che può in tale periodo essersi profondamente modifica-to e che, inoltre, sempre meno è il diretto proprietario delle imprese. E l’impresa, a sua volta, non consiste più principalmente negli stabilimenti direttamente produttivi, ma diventa un’organizzazione estremamente complessa. Questa elaborazione prende indubbiamente atto dei mutamenti intervenuti, ma tende a piegarli sempre nel senso della preminenza dell’economia sulla società, vera ossessione di tutti i teorici della società capitalistica, sia apologeti del sistema che suoi critici, anche “marxisti”.
(2) Libro che va letto oggi come un qualsiasi classico della storia del pensiero economico, ma sapendo che è superato e anche errato. Hilferding non ha nemmeno il minimo sentore della forma-zione del nuovo capitalismo secondo il “modello” statunitense, quello infine vincente su scala mon-diale.
(3) Ci si guardi soprattutto dai ritorni a Marx, dalle renaissances di Marx, ecc. Sono opera di meschini opportunisti, alla ricerca di carriere accademiche e di inserimenti in imprese e apparati di Stato, ecc., che si servono delle utopie o delle sclerotizzazioni pseudoscientifiche (a base di schemi-ni matematici) per dissolvere ogni “nocciolo razionale” del pensiero marxiano. Vanno combattuti e denunciati continuamente, perché sono i più spregevoli distruttori di un pensiero realmente critico proprio perché scientifico (per null’affatto utopico) in senso non “scolastico”.
(4) “Le lotte di classi in Urss” di Bettelheim resta a mio avviso un’ottima analisi di quel paese, cardine del “campo socialista”, ma si basa su categorie fondate su una ben diversa visione del pro-cesso di cui si comprendeva comunque l’involuzione. Si prevedeva pure la fine del “socialismo” (non nei tempi e modi, ovviamente), senza però andare sino in fondo nella critica e presa d’atto che esso era del tutto differente da quello che noi comunisti continuavamo ad immaginarci. Non è un caso che i comunisti critici di stampo althusseriano (e quelli che, come me, hanno seguito Bettel-heim) non sono stati colti di sorpresa dal “crollo del muro” e nemmeno dalla fine dell’Urss. Hanno tuttavia pensato che ormai l’intero sistema fosse in sfacelo (solo pochi si sono aggrappati al “socia-lismo di mercato” in Cina) e non erano in possesso delle categorie necessarie a cogliere, ad esem-pio, la ripresa della Russia oltre che la progressiva trasformazione della Cina in continuo sviluppo. Personaggi come Stalin e Mao – non solo in quanto individui ma espressione di gruppi attuanti de-terminate politiche – verranno un giorno valutati in tutto il loro valore; tuttavia, non lo si potrà fare se non si lascerà perdere proprio ciò che essi erano: dei comunisti e dei marxisti. I risultati della ri-voluzione d’Ottobre – e non fu condotta con “doppia faccia”, fu effettivamente guidata da comuni-sti – sono stati del tutto diversi da quelli creduti, voluti e perseguiti “soggettivamente” per troppo tempo. In ogni caso, sono convinto che da quelle rivoluzioni sono emerse le nuove potenze dell’odierna fase multipolare sia pure ancora “imperfetta”.
Sarà profonda e razionale fin che si voglia questa analisi del capitalismo attuale, ma se dovessimo ispirare una qualsiasi azione politica a ciò che La Grassa dice qui, staremmo freschi!