Quel 27 febbraio 2004
7 visite totali, 1 visite odierne
[ 28 luglio 2010 ]
Il marxismo vivo di Paul Sweezy
Il marxismo vivo di Paul Sweezy
di Lucio Manisco
«Stiamo registrando un nuovo esercizio di tendenza del capitale a trasferirsi non tanto verso la produzione di beni e servizi utili, quanto verso la manipolazione del denaro, della speculazione, naturalmente per produrre altro denaro senza l’intermediazione del processo di produzione. Il che conduce direttamente ad una crescita incredibile del debito, allo sviluppo sfrenato dei mercati finanziari e delle bolle speculative. Stupefacenti i limiti raggiunti dal fenomeno, che appare destinato a provocare una sua propria forma di crollo, ma che sarà di tipo completamente nuovo rispetto alle crisi del passato».
Paul M. Sweezy ci ha lasciato all’età di novantatré anni nella sua bella casa stracolma di libri a Larchmont, nello stato di New York e, malgrado la sopravvivenza della sua rivista, la Monthly Review, e della omonima casa editrice, ha lasciato un vuoto per il momento incolmabile nell’elaborazione marxista dell’analisi del capitalismo contemporaneo.
Non mancano certo in terra d’America gli studiosi del marxismo: basti pensare che sono ben undici le facoltà universitarie dedicate a questo tipo di studi, ma si tratta in gran parte di attività accademiche di tipo storicistico volte a sezionare il “cadavere” del pensiero dell’uomo di Treviri. Diametralmente opposto l’approccio di Paul Sweezy: lontano da un lato dall’ortodossia pietrificata e dall’altro da un revisionismo a vuoto spinto, ha applicato in un lungo percorso intellettuale di più di sessant’anni la teoria marxista del valore come chiave di lettura continuamente aggiornata e spesso anticipatoria della realtà economica dei nostri tempi.
Basta pensare al suo pensiero, corroborato da quello di Baran, sulla globalizzazione, e cioè sul rapporto fra le aree sviluppate e sottosviluppate del mondo capitalista. Il capitalismo, hanno sostenuto negli anni ’90 l’uno e l’altro studioso, non si è diffuso creando un sistema omogeneo più o meno identico a quello dei paesi sviluppati, bensì radicando un altro sistema globale polarizzato tra aree a pieno sviluppo economico ed aree sottosviluppate, in una contrapposizione dialettica di parti non solo dissimili, ma destinate a non diventare mai omogenee. E Sweezy è stato tra i primi a sottolineare come Karl Marx, nel terzo volume del capitale e negli ultimi anni della sua vita, avesse incominciato a ragionare proprio su questo dialettico ed ipercritico rapporto tra paesi industrializzati e sottosviluppati. Altrettanto profonda in termini analitici se non addirittura profetici la sua analisi del trasferimento del capitale dalla produzione di beni alla finanziarizzazione più spericolata fino ai limiti della truffa. Come ebbe a dichiarare in un’intervista concessa a Christopher Phelps in occasione dei suoi novant’anni: «Stiamo registrando un nuovo esercizio di tendenza del capitale a trasferirsi non tanto verso la produzione di beni e servizi utili, quanto verso la manipolazione del denaro, della speculazione, naturalmente per produrre altro denaro senza l’intermediazione del processo di produzione. Il che conduce direttamente ad una crescita incredibile del debito, allo sviluppo sfrenato dei mercati finanziari e delle bolle speculative. Stupefacenti i limiti raggiunti dal fenomeno, che appare destinato a provocare una sua propria forma di crollo, ma che sarà di tipo completamente nuovo rispetto alle crisi del passato.»
Ad altri comunque il compito di porre in luce ricchezza e contemporaneità del suo pensiero, a noi quello di ripercorrere la strada di memorie personali, dei purtroppo rari ma sempre fecondi incontri avuti con Paul Sweezy. Negli anni ’50, quando ci trasferimmo dalla Gran Bretagna negli Stati Uniti, avevamo naturalmente letto con estremo interesse “Teoria dello sviluppo capitalista” e “Socialismo“; sapevamo anche della sua persecuzione ad opera del maccartismo allora imperante, ma fummo poi sorpresi dalla decisione della Corte Suprema di annullare la sua precedente condanna per attività sovversive nello Stato del New Hampshire. Fu lui stesso molti anni dopo a ridimensionare quella decisione della Corte Suprema, attribuendola sia all’iniziale declino del maccartismo sia all’evoluzione iperliberale del magistrato supremo Earl Warren.
Dobbiamo a Luciana Castellina e al costituzionalista di estrema sinistra Leonard Boudin gli altri incontri con Sweezy nella polverosa quanto modesta sede della Monthly Review sulla 27esima strada di New York. (Una volta accompagnammo ad una di quelle famose colazioni a base di té e di panini “organici” un Armando Cossutta sempre più perplesso dagli sviluppi di una discussione quantomai teorica). E poi ancora una straordinaria conferenza sull’anticomunismo indetta nell’università di Harvard. E poi ancora, durante un’accidentata visita dell’allora segretario del PCI Achille Occhetto negli Stati Uniti, la requisitoria analitica di Paul Sweezy sulla fallacia autodistruttiva dell’eurocomunismo.
«L’eurocomunismo – osservò in quella occasione – è l’abbandono totale di tutte le intuizioni più importanti, di tutti i principi dell’analisi marxista del capitalismo. Ecco perché il Pc italiano sta andando in pezzi. Non so neppure se all’interno di questo partito c’è una corrente che aderisca ancora all’analisi marxista, al di là di pochi individui che conosco bene. Il compromesso storico avrebbe dovuto essere la grande innovazione italiana. Compromesso con che cosa? Con la Democrazia Cristiana, con il capitalismo, e poi vanno ancora più avanti, vogliono avere il compromesso con gli Stati Uniti, con la nazione guida dell’imperialismo. Di questo si tratta, di un compromesso storico con l’imperialismo.»
Correva l’anno 1989. Paul Marlor Sweezy aveva capito molto, aveva capito tutto sul corso intrapreso dal PCI, poi Pds, poi Ds.
Febbraio 2004