STALLO
Note controcorrente sul casino italiano
Ora sappiamo che il berlusconismo non è una meteora nella storia di questo paese, ma una allegoria delle sue disgrazie —la metafora della intrinseca inadeguatezza della borghesia come classe nazionale e dirigente. Dal Risorgimento in poi, la democrazia è stata una patacca di cui fregiarsi negli intervalli di quiete mentre, davanti a tornanti decisivi, essa ha sempre traballato finendo per implorare soccorso a qualche “salvatore della patria”: fosse un Re, un Duce o un Papa.
Chi pensava che ciò fosse essenzialmente determinato dalla incombenza della minaccia proletaria, si sbagliava. Esagerava la potenza sovversiva delle classi subalterne, non coglieva la costitutiva indeterminatezza politica del capitalistume italiano.
Questa borghesia ha avuto un’occasione d’oro per affrancarsi dalla sua impotenza politica ed egemonica ed allinearsi alle proprie sorelle europee. Era nella prima metà degli anni ’90, quando, in un colpo, si sbarazzò sia del vecchio movimento operaio (di cui il PCI era l’allegoria) che del ceto politico demo-socialista oramai diventato un insopportabile parassita. Sembrava fatta. Invece saltò fuori Il Cavaliere. Egli venne preso sottogamba, considerato un referente della moribonda oligarchia politica parassitaria che resisteva all’evacuazione, destinato dunque ad essere velocemente metabolizzato e apazzato via.
I primi a credere a questa storiella consolatoria furono proprio l’ultima leva degli stolti dirigenti del PCI, i quali accelerarono la loro metamorfosi liberale certi di avere già in tasca la vittoria, ove la vittoria era quella di essere oramai diventati essi gli unici referenti politici del «grande» capitalismo. Aleatorio salto della quaglia quello compiuto dai nipotini di Togliatti —quello del passaggio dalla «alleanza dei produttori» all’inciucio con il vituperato «capitalismo monopolistico»
Il casino italiano dipende proprio dal carattere bastardo di questo matrimonio tra il diavolo e l’acqua santa. Esso venne considerato, dal comune sentire popolare, come un adulterio, un accoppiamento illegittimo. Se buona parte dei proletari lo vissero come un tradimento, la gran parte dei borghesucci lo subirono come un perfido voltafaccia. Il berlusconismo è anzitutto questa nemesi storica, questa vendetta politica dei cornuti che non hanno voluto accettare quel doppio divorzio, né aderire al sodalizio tra l’alta finanza, l’aristocrazia operaia e le élite postsessantottine. Berlusconi ha potuto raccogliere consensi, prima ancora che come populista venditore di fumo, perché ha saputo presentarsi come il vendicatore di questo duplice tradimento, come il paladino degli sfigati di tutte le classi e i ceti. Il paradosso è che mentre la sinistra si rappresentava come custode della modernizzazione capitalista e paladina della globalizzazione, Il cavaliere ha saputo raccogliere non solo i malumori causati dalla fine del lungo ciclo espansivo del capitalismo italiano, ma le aspettative di sicurezza e protezione generati dal devastante sopraggiungere del liberismo. Bottegai, industrialotti frustrati, operai disillusi, beghine, coatti, liberi professionisti declassati, avventurieri e incazzati d’ogni risma: una variopinta polvere d’umanità che ha trovato in Berlusconi il suo profeta, quello che ha cercato di trasformarla in un vero blocco sociale. Dopo aver dato loro l’illusione di non essere dei perdenti, con l’inattesa vittoria elettorale del 1994, egli ha dato loro la volontà di potenza di chi ritiene di essere in diritto e in dovere di guidare un paese.
Alcuni dei commenti a caldo sui risultati elettorali insistono sul fatto che ci sarebbe un’Italia profonda che è salita sul tram nuovista del bipolarismo ma che in fondo è sempre la stessa, quella dei guelfi e dei ghibellini, quella dei clericali e degli anticlericali, quella dei fascisti e degli antifascisti, dei comunisti e degli anticomunisti. Come se il centro sinistra e il centro destra non fossero che una mimesi solo un po’ contraffatta dei due tradizionali blocchi sociali dei tempi della prima Repubblica. E’ così solo in apparenza.
I due attuali schieramenti politici son sorti dallo smottamento dei due tradizionali blocchi sociali imperniati attorno alla DC e al PCI. Quella frana colossale non si è conclusa, la società italiana sta ancora rotolando a valle senza aver trovato un punto d’arresto. Sicché i due poli sono instabili, transitori. Ma tra i due blocchi quello più improbabile è proprio quello rappresentato dal centro-sinistra. Non esiste alcuna ragionevole possibilità di stabilizzare un gas per sua natura instabile senza sottoporlo a pressioni fisiche eccezionali. Due cose tengono per adesso assieme l’Esercito della salvezza di Prodi: che questa faccia da prete pare l’unico esorcista capace di scacciare il demonio, dall’altra Bertinotti, in quanto riesce a rivestire una penosa seduta spiritica di una liturgica sacralità politica.
E siccome lo spirito demoniaco che si è impossessato dell’Italia non è stato debellato, ecco spiegato come questo Esercito della salvezza possa tirare a campare, come sia possibile che il peggio della grande finanza capitalista e quello del movimento no global possano andare a braccetto. Quest’accozzaglia eteroclita, per un pugno di voti, è ora costretta a governare il paese. C’è chi scommette sulla sua fulminea implosione.
Noi vogliamo essere più cauti. Prodi e soci sanno benissimo che questa è l’ultima chance che la storia offre loro. Essi, pur senza amarsi, sono costretti a consumare questo matrimonio di convenienza, pena l’uscita definitiva di scena. Se non interverranno gravissimi fatti internazionali o terremoti sociali interni, si terranno ben avvinghiati l’uno con l’altro, riducendo al minimo i rischi di sconquassi come ai tempi del primo governo Prodi. Gli stessi famelici oligarchi che lo hanno investito come primo ministro si guarderanno bene dal fare la fronda. Essi sperano che il destino li assista, che questo rotolare della società italiana verso-non-si-sa-dove, finisca presto e che lo sfracello colpisca l’ammasso sociale avversario.
Se tuttavia confrontiamo i due ammassi, è facile vedere come quello di cui Berlusconi è stato architetto è quello che ha radici più solide nella sconnessa società italiana. E’ quello che ha scavato più a fondo e messo più solide radici. Anche ove l’Unione non fosse che una protesi del tutto momentanea che alcuni grandi agglomerati capitalisti hanno deciso di indossare per agganciare l’Italia alla grande contesa mondiale, resta che esso non è né cucca né noce. E’ un ectoplasma politico-sociale che porta in grembo due creature differenti, destinate ad un’improbabile coabitazione non appena questa interminabile gravidanza avrà fine. Uno dei due nascituri ha già un nome e un cognome: Partito Democratico. Sul nome dell’altro pargoletto c’è controversia ma la sua natura è data: una versione insipida dell’attuale Rifondazione.
Dall’altra parte il centro-destra sa rappresentare meglio l’interclassimo perché non si è limitato a difendere meschini interessi di bottega ma li ha infarciti con una retorica dei valori etici non meno meschini, certo, ma forti, pervasivi, alimentati dalle potenti torsioni indotte dalla globalizzazione e dalla crisi sociale e morale del paese. Se l’ulivismo può al massimo partorire uno scialbo ed elitario Partito Democratico (allettante solo per certi pezzi delle cosmopolite classi dominanti e le sue rigaglie sociali), il berlusconismo, anche dove il suo artefice dovesse sparire di scena, resterà invece come fenomeno di lungo corso, perché ha deposto le sue uova insidiose nei più profondi recessi della società italiana. Il populismo reazionario e sicuritario, l’ansia e l’attesa per l’avvento di un risolutivo salvatore della patria, mutatis mutandis, di un nuovo Cesare o di un nuovo Duce “che metta finalmente le cose a posto”, è oramai un fattore congenito e inesorabile del panorama sociale e politico. Se Berlusconi dovesse abdicare, essere fatto fuori, ostracizzato, un altro, ben presto, potrebbe prendere il suo posto.
Chi ha votato per l’Unione nella speranza di togliere di mezzo il Cavaliere sappia ciò che lo aspetta. Non si scherza col cinquanta per cento degli italiani ostili. Il loro odio primordiale, le loro paure piccolo-borghesi, i loro confusi bisogni reazionari, sono profondi e andranno a coaugularsi, prima o poi. E nulla può chi, pur al governo, non ha altra politica se non quella di illudere i cittadini che i guai dipenderebbero solo da Berlusconi, e non invece dal fatto che la grande borghesia italiana, nel contesto della crisi europea, è un classe bollita, decotta, alla frutta. Che il “grande” capitalismo guarda ormai ad oriente, tentato di abbandonare l’Europa al suo declino.
Le elezioni del nove e del dieci aprile ci consegnano un paese in stallo, dove imponenti e anonime forze sociali se ne stanno come paralizzate in attesa di scendere in campo con tutta l’irruenza di un animale in gabbia. Una nuova polarizzazione è, pur sotto traccia, in atto, e troverà prima o poi una nuova rappresentazione politica.
In questo contesto nulla può fare più danni al movimento rivoluzionario che farsi paralizzare dalla fatalistica attesa di un crollo generale della nazione. Senza questo crollo, il solo che possa scompaginare questi due bastardi blocchi sociali e politici, ogni alternativa anticapitalista apparirà in effetti un’invocazione velleitaria.
A Bertinotti, che giustitifica il suo opportunismo con al frase per cui “l’alternanza prepara l’alternativa”, rispondiamo che è vero il contrario: l’alternativa anticapitalista nascerà solo dallo schianto dell’alternanza tra due fronti entrambi capitalisti. I rivoluzionari non possono limitarsi ad invocare questo schianto, essi potranno svolgere domani o dopodomani una decisiva funzione solo se oggi sapranno attrezzarsi in modo adeguato e questo dipende anche dalla loro capacità di indicare quale sia l’alternativa concreta che essi propongono.
Fonte: ERETICA. Laboratorio per un altro comunismo – n.1 del 2006