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QUALE DECRESCITA?

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[ 09 agosto 2010 ]

Rispondendo a Badiale e Bontempelli

di Maurizio Pallante
Più sotto il teso di Badiale e Bontempelli 
Marino Badiale mi ha inviato qualche mese fa un saggio intitolato Due vie per la decrescita, che ha scritto insieme a Massimo Bontempelli. In questo saggio sono state raccolte alcune riflessioni critiche sul mio testo Decrescita e Welfare State, per cui mi ha chiesto di fargli avere il mio parere. Ho letto quanto hanno scritto con attenzione ma solo ora, approfittando della diminuzione di impegni nel mese di agosto, ho messo in ordine le riflessioni che hanno suscitato in me le loro. Le righe in corsivo riportano passaggi del loro testo nella successione in cui appaiono.


Le tesi fondamentali di Pallante nello scritto citato ci sembrano essere le seguenti: poiché “il welfare state e i servizi sociali sono legati con un nesso inscindibile alla crescita del prodotto interno lordo”, mentre la proposta teorica e politica della decrescita è appunto la proposta della decrescita del prodotto interno lordo, Welfare State e decrescita sono incompatibili, e chi sostiene la decrescita deve criticare il Welfare State e chiedere la riduzione dei servizi sociali pubblici tipici delle politiche “socialdemocratiche” che hanno segnato la storia dei paesi occidentali nel secondo dopoguerra.

Se, per fare un’analogia, questa interpretazione di ciò che ho scritto venisse applicata al mal di testa, potrebbe essere tradotta così: poiché il mal di testa e la testa sono legati con un nesso inscindibile, chi vuol guarire dal mal di testa deve farsela tagliare. Basterebbe questa osservazione per stroncare le mie riflessioni e rendere inutile ogni ulteriore sforzo di approfondimento. In realtà la mia tesi non è quella che con una superficialità sorprendente mi viene attribuita, per cui mi sento in dovere di riformularla per punti rammaricandomi di non essere stato sufficientemente chiaro prima.

La tesi è:

1. Il pil misura il valore monetario delle merci comprate e vendute nel corso di un anno, pertanto la crescita ha bisogno di estendere progressivamente la mercificazione a settori sempre più ampi della vita individuale e sociale, anche quando ciò comporti un aumento dell’inquinamento ambientale, uno spreco di risorse e di energia, un peggioramento della qualità della vita. Riprendendo l’ormai abusato esempio del confronto tra lo yogurt autoprodotto, che non fa crescere il pil perché non viene scambiato con denaro, e lo yogurt comprato, che fa crescere il pil, lo yogurt che si compra viene trasportato da lunghe distanze, per cui comporta un consumo di fonti fossili e un aumento delle emissioni di CO2, produce tre tipi di rifiuti, viene prodotto non si sa quanto tempo prima di quando verrà consumato e deve essere aiutato in qualche modo a rimanere fresco più a lungo di quanto non avverrebbe naturalmente, costa quattro volte di più di quello autoprodotto, che non deve essere trasportato, non produce rifiuti ed è freschissimo.

2. Per estendere la mercificazione occorre aumentare il numero dei produttori e consumatori di merci (che sono due aspetti della stessa persona perché solo chi produce merci riceve in cambio il denaro con cui può comprare merci) e il numero delle ore al giorno e dei giorni all’anno in cui i produttori/consumatori di merci lavorano per produrle.

3. Per aumentare il numero dei produttori / consumatori di merci occorre fare una guerra sistematica a chi non lo è, ovvero a chi soddisfa una parte rilevante dei suoi bisogni vitali autoproducendo beni e utilizzando forme di scambio non mediate dal denaro, basate sul dono e la reciprocità. Questa guerra, come tutte le guerre, comincia con la propaganda e le false comunicazioni finalizzate a demonizzare il nemico e ad esaltare la propria bontà che risulta soprattutto dall’impegno profuso nel distruggere il nemico in quanto personificazione del male. Questo lavoro di propaganda ha la funzione di preparare e giustificare l’uso della violenza e la guerra guerreggiata nei suoi confronti. Nel caso specifico della guerra all’economia pre-industriale, nel corso del Novecento e con una progressiva intensificazione a partire dal secondo dopoguerra è stata instillata nella popolazione italiana l’idea dell’arretratezza della vita in campagna fino al punto di indurre nei contadini una profonda vergogna per il loro stato sociale, a convincere le ragazze che fosse una follia sposarli, a considerare un segno di povertà la capacità di autoprodurre qualcosa (le donne pugliesi nascondevano di saper fare le orecchiette e ostentavano come un segno di benessere l’acquisto di pasta prodotta industrialmente nei giorni di festa), a drammatizzare le limitazioni alla libertà individuale imposte dal controllo sociale esercitato nelle famiglie patriarcali e dalla cura dei vecchi (che in realtà continuavano a dare un contributo insostituibile nella gestione della famiglia), mentre venivano esaltati la modernità e la superiorità della vita nelle città, il lavoro salariato perché mette in condizione di acquistare ciò che serve per vivere, l’anonimato e l’isolamento della vita nelle aree urbane come garanti dell’autonomia e della privacy. Contestualmente a livello scientifico il concetto di lavoro veniva appiattito sul concetto di occupazione (per gli istituti di statistica chi lavora per produrre beni anziché merci e pertanto non riceve un salario in cambio dell’attività svolta anche se è utile o addirittura indispensabile, viene catalogato nella categoria delle «non forze di lavoro»). Mentre la pubblicità, esaltando il consumo come segno della realizzazione umana, e la scuola, finalizzando l’istruzione alla formazione del lavoratore e non del cittadino, facevano la loro parte nel formare questa mentalità, la legislazione, utilizzando soprattutto in modo strumentale norme igieniche o misure fiscali, poneva una serie successiva di impedimenti alle attività agricole svolte per autoconsumo e vendita delle eccedenze, per impedire che strati rilevanti della popolazione potessero continuare a vivere al di fuori della mercificazione totale e costringere i contadini a trasformarsi in produttori agricoli, o in lavoratori salariati.

4. Se per far crescere il pil deve crescere il numero dei produttori/consumatori di merci, si riduce il numero delle persone che lavorano per autoprodurre beni. Se per far crescere il pil si devono dedicare tutte le energie e la maggior parte del tempo a produrre merci per avere il denaro necessario a comprare merci, non resta più tempo per autoprodurre beni e per gli scambi basati sul dono e la reciprocità. Se per far crescere il pil si devono dedicare tutte le energie e la maggior parte del tempo a produrre merci, non bisogna essere distratti da altri tipi di occupazioni, che so: la contemplazione, la creatività, l’amore; né da altri tipi di preoccupazioni, che so: la cura dei bambini, dei malati, degli anziani. Ma se si dedicano tutte le energie a produrre merci si ottiene un reddito monetario sufficiente a comprare delle distrazioni e a pagare persone che si occupino della cura alle persone per mestiere. Se per far crescere il pil si devono mercificare tutti gli aspetti della vita, anche le relazioni più intime basate sull’amore, la collaborazione reciproca, la solidarietà, l’affetto, devono essere sostituite dall’acquisto di servizi sociali che goffamente li imitano. Se il pil viene considerato l’indicatore del benessere, anziché di un tanto avere che causa malessere come in effetti è, la sua crescita consente di investire una percentuale crescente di reddito monetario per acquistare quei servizi sociali che vengono definiti in inglese welfare state, ovvero stato del benessere, mentre sono una necessità indotta dalla finalizzazione della propria vita alla ricerca di quel tanto avere che genera malessere. Invece, secondo la propaganda del regime fondato sulla crescita del pil, lo sviluppo dei servizi sociali contribuisce a rendere più libere le persone sollevandole da incombenze fastidiose come donarsi del tempo per amore o solidarietà, e migliora la loro vita. Proprio come sostengono i miei due critici affascinati dalla modernità (di cui peraltro riconoscono la connotazione di promessa non mantenuta) svolgendo senza rendersene conto il ruolo di cavalli di Troia di un’ideologia che nella loro fantasia pretendono di combattere.
Se si crede invece che questo meccanismo di mercificazione estesa ai rapporti umani sia una barbarie, si ha il dovere civile di denunciarlo e di auspicare che un rigurgito di resipiscenza induca le persone che la vivono con disagio esistenziale e sofferenza crescente a ridurre il tempo che dedicano alla produzione di merci e aumentare il tempo che dedicano alle relazioni umane. Chi fa questa scelta, l’unica in grado di dare alla vita quel senso che non può dare per definizione l’accumulo di denaro per comprare cose da buttare sempre più in fretta in modo da poterne produrre e comprare altre, darà oggettivamente un contributo alla riduzione del pil, avrà un reddito monetario minore ma non ne subirà limitazioni perché gli resterà il tempo di scambiare per amore i servizi alla persona e avrà bisogno di comprarne di meno dai servizi sociali. Non chiederà di ridurre i servizi sociali per far diminuire il pil – non si farà tagliare la testa per farsi passare il mal di testa – ma sceglierà di dedicare più tempo alle persone e meno alle cose per essere più felice e far felici le persone a cui vuol bene. Di conseguenza farà diminuire la domanda di servizi forniti dallo stato del benessere e la crescita del pil. Si curerà per eliminare le cause che gli provocano il mal di testa.

Da queste prime osservazioni alle critiche che mi sono state rivolte inizio a dedurre che la lettura del mio testo fatta da Badiale e Bontempelli sia stata effettuata col paraocchi dell’ideologia della crescita. E che in conseguenza di ciò essi abbiano sviluppato le loro argomentazioni non su ciò che ho scritto ma su ciò che credono che io abbia scritto. Il proseguimento della lettura del loro testo mi ribadisce questa convinzione. Ecco la seconda argomentazione: Come si risponderà allora ai bisogni che attualmente vengono soddisfatti dai servizi sociali (o da quel che ne resta)? Secondo l’articolo citato, la risposta del movimento della decrescita dovrebbe essere quella del ritorno il più esteso possibile all’autoproduzione, per quanto riguarda la domanda di beni materiali, e alla famiglia allargata, per quanto riguarda la domanda di servizi alle persone (cura dei bambini e degli anziani, per esempio).
Una precisazione iniziale: il soggetto a cui fanno riferimento i miei due critici non è il movimento per la decrescita, che è composto di varie correnti di pensiero, dove le diversità e le sfumature costituiscono in ambito culturale il segno di una ricchezza analoga a quella della biodiversità, ma al movimento della decrescita felice, che di queste correnti è quella in cui io mi riconosco. Ciò precisato, il movimento della decrescita felice non ha mai sostenuto «il ritorno il più esteso possibile all’autoproduzione», bensì la riduzione della produzione e del consumo di merci che non sono beni (ad esempio gli sprechi energetici di un edificio mal costruito, oppure il cibo che si butta) e l’aumento della produzione e dell’uso di beni che non sono merci quando sia più utile e conveniente dell’acquisto di merci equivalenti (l’esempio dello yogurt e la collocazione dell’autoproduzione nel cerchio più interno di tre cerchi concentrici di cui la prima corona circolare è costituita dagli scambi basati sul dono e la reciprocità e la seconda dagli scambi mercantili).
Aver interpretato una distinzione di carattere qualitativo (la differenza logica tra il concetto di bene e il concetto di merce) in termini quantitativi (il più esteso possibile) è un secondo indizio di una impostazione culturale tutta interna all’ideologia della crescita. La terza argomentazione si legge subito dopo, quando a partire dalla conclusione del mio testo, i miei due critici si domandano: Per capire quali siano le conseguenze di queste tesi, partiamo dalla fine, cioè dallo slogan “meno Stato e meno Mercato”. La domanda ovvia che si deve fare, di fronte ad un simile slogan, è “cosa vuol dire?”. Che cosa vuol dire, nell’orizzonte della modernità, criticare contemporaneamente lo Stato e il Mercato? Stato e Mercato sono le due forme di regolazione della società che si sono date storicamente nella modernità. Pensare ad una ritirata simultanea di Stato e Mercato, nella modernità, significa pensare in sostanza ad una società che si autoregola in maniera spontanea. Ma questo non è nient’altro che l’utopia anarchica o comunista, una utopia che è priva di ogni aggancio con la realtà attuale.

Come si possa fantasiosamente dedurre che una riduzione dell’incidenza dello Stato e del Mercato nella vita individuale e sociale si identifichi con l’utopia anarchica e comunista non riesco nemmeno a immaginarlo. Forse nella logica dei due critici, che mi sfugge, la riduzione si identifica con l’abolizione, meno significa niente. Niente Stato e niente Mercato non è nemmeno l’anarchia, è il paradiso terrestre dove tutti si amano e si donano reciprocamente tutto, i serpenti con le colombe, i lupi con gli agnelli, i leoni con le gazzelle. Confesso che questa visione non l’ho mai avuta. Mi sono limitato a pensare che sarebbe bello, ed è possibile, non dipendere al cento per cento dal mercato per la soddisfazione delle esigenze materiali e non dipendere al cento per cento dallo Stato per la soddisfazione delle esigenze relazionali. Perché il saper fare rende più autonomi e liberi. Perché il saper fare guidato dalla capacità progettuale consente di realizzare appieno la natura umana. Perché donarsi reciprocamente tempo e attenzione rende felici. È l’unica cosa che rende felici. Autoprodursi qualcosa, nella misura che si riesce, ogni volta che ciò comporti un miglioramento qualitativo della propria vita e del mondo. Donarsi del tempo reciprocamente, nella misura che si riesce, ogni volta che ciò comporti un miglioramento della propria vita e della vita delle persone a cui si vuol bene. Una misura che ognuno deve valutare in relazione alla sua vita, al suo lavoro, alla sua età, alla composizione della famiglia, a tutte le variabili che non sono misurabili allo stesso modo per tutti e una volta per tutte nella vita di ciascuno.

La critica che mi viene rivolta, secondo i suoi autori naturalmente presuppone che lo slogan “meno Stato e meno Mercato” abbia in mente un tipo di organizzazione sociale che rimanga nell’orizzonte della modernità. È chiaro che, nelle società premoderne, si sono date forme di regolazione sociale diverse sia dallo Stato sia dal mercato. E in effetti Pallante sembra pensare a queste forme, quando fa riferimento alla famiglia allargata come sostituto dei servizi sociali del Welfare State. Ma per proporre seriamente il ritorno alle forme di regolazione sociale tipiche del premoderno (la famiglia allargata, la comunità e le tradizioni locali) occorre cancellare la complessa dialettica della Modernità. La Modernità, come è stato messo in luce da due secoli di pensiero, è una promessa di emancipazione che reca in sé il suo limite dialettico e quindi non viene realizzata se non in parte. La Modernità è il luogo della libera individualità autodeterminantesi secondo coscienza e ragione, e il suo svincolarsi dai limiti delle forme sociali premoderne, sopra indicate, è condizione necessaria al pieno sviluppo dell’individuo. La famiglia allargata premoderna, luogo di produzione e consumo, presenta certo aspetti positivi di protezione del singolo, ma contemporaneamente soffoca il libero sviluppo soggettivo per ottenere individui che accettino di entrare nei ruoli già preformati dalle tradizioni. La Modernità, che libera gli individui dal vincolo delle tradizioni accettate come dati naturali, rappresenta il tentativo di una società dove il legame sociale sia fondato sulla scelta razionale e responsabile di ciascuno. Certo, questo ideale non è mai stato realizzato, ma i progressi nella sua direzione sono stati progressi reali. La proposta del ritorno a forme sociali premoderne (proposta che, ricordiamolo, è l’unico modo di dare un contenuto concreto allo slogan “meno Stato e meno Mercato”) cancella questa complessa dialettica, e si configura quindi come puramente reazionaria.

Da queste considerazioni si evincono elementi decisivi per capire il contesto culturale in cui si formano le critiche che mi vengono mosse: la concezione della storia come progresso, di cui la modernità è la fase provvisoriamente più avanzata perché l’ultima in ordine di tempo (se la storia è progresso, cioè avanzamento verso il meglio, tutto ciò che viene dopo è un miglioramento rispetto a ciò che viene prima); la modernità costituisce pertanto un progresso reale rispetto a prima (la premodernità); i limiti della modernità consistono nelle sue promesse non realizzate ma il progresso della storia consentirà di superarli; tutto ciò che precede la modernità è più arretrato e chi ritiene che nella premodernità ci fosse qualcosa di migliore è un reazionario in quanto non crede nella storia come progresso; la modernità ha liberato gli individui dal vincolo delle tradizioni ed è il tentativo di una società dove il legame sociale sia fondato sulla scelta razionale e responsabile di ciascuno. Un peana che raramente mi era capitato di ascoltare.
Tuttavia, secondo i miei due critici occorre ammettere che la dialettica interna alla società liberale e borghese ha portato poi, per vie che sarebbe troppo lungo anche solo accennare qui, all’attuale società di “capitalismo assoluto”, nella quale individui, società e natura sono asserviti ad un meccanismo economico distruttivo. La modernità libera dunque gli individui dai vincoli della famiglia allargata premoderna, che li limitavano in maniera insopportabile ma garantivano anche aspetti positivi di protezione del singolo per asservirli a un meccanismo economico autodistruttivo degli individui, della società e della natura. Un meccanismo che in nome della dedizione assoluta alla crescita della produzione di merci non solo li ha privati degli aspetti positivi di protezione del singolo insiti nella famiglia allargata, ma li sta autodistruggendo come specie. Come progresso, come avanzamento verso il meglio non c’è male. Chi si permette di proporre meno Stato e meno Mercato, secondo i miei due critici si propone l’abolizione totale di Stato e Mercato, le due forme di regolazione sociale della modernità, esce dall’orizzonte della modernità e quindi è reazionario (anatema, anatema) perché si permette di considerare che nella premodernità (quello che è avvenuto prima) ci fossero elementi migliori che nella modernità (quello che è avvenuto dopo).

A parte il fatto che mi preoccuperei molto di più se qualcuno intravedesse in ciò che scrivo elementi di una cultura progressista e, tutto sommato, mi disturba molto meno essere considerato un reazionario, nella venerazione della modernità da cui derivano le critiche che mi vengono mosse sono insiti almeno due pregiudizi: il primo è che dalla modernità si può uscire soltanto tornando indietro, il secondo è che tutto ciò che precede la modernità è negativo, o comunque inferiore, più limitante, più vincolante, più arretrato. Invece dai limiti della modernità si può uscire superandoli in una prospettiva proiettata verso il futuro che alcuni hanno chiamato post-modernità (una definizione che non mi piace, perché non mette in evidenza delle caratteristiche autonome, ma solo le differenze con un’epoca storica assunta a pietra di paragone, come se fosse l’unica definibile di per sé mentre ciò che è stato prima e ciò che sarà dopo non possa essere definito se non in relazione ad essa: pre- o post-), mentre nella pre-modernità ci sono potenzialità inespresse e conoscenze abbandonate per il solo fatto di essere state elaborate in epoche storiche precedenti, che invece possono aiutare a superare i limiti della modernità e l’asservimento degli esseri umani al meccanismo economico autodistruttivo che la caratterizza. Un modo post-moderno di liberarsi dai vincoli che costringono a comprare servizi sociali a individui isolati e plasmati mentalmente per dedicare il meglio delle proprie energie alla produzione e al consumo di merci, è la ricostruzione di forme di solidarietà comunitaria per libera scelta tra persone con sensibilità comune (banche del tempo, gruppi d’acquisto solidale, co-housing, eco villaggi). Un altro modo post-moderno di liberarsi dai vincoli mentali che inducono a considerare la modernità il punto più avanzato della storia e la pre-modernità  una fase arretrata dove non si può trovare niente di buono è riscoprire quegli elementi pre-moderni, rimossi e ridicolizzati dalla modernità, che conservano potenzialità in grado di fornire indicazioni indispensabili per superare i limiti della modernità, in particolare le potenzialità autodistruttive insite nel meccanismo economico della crescita, e andare avanti nella storia. Perché chi non è prigioniero nella gabbia mentale dell’ideologia progressista sa che l’apertura di una nuova fase storica più avanzata è una Delle possibilità insite nel futuro e sa che una delle condizioni necessarie per aprirla è una concezione del progresso come conservazione del patrimonio di conoscenze e di cultura elaborato dalle generazioni passate e l’aggiunta ad esso delle conoscenze e della cultura che le generazioni presenti sono in grado di elaborare a partire dalla conservazione di quel patrimonio.

Nell’orizzonte mentale dei miei due critici la modernità (con tutte le sue promesse non mantenute) ha costituito un salto così prodigioso nel cammino del progresso e rappresenta un bene così prezioso, una conquista così decisiva che una volta raggiunta non può più essere sottratta agli esseri umani se non con l’inganno della religione e con la violenza.
La reazione, che vede nella Modernità un unico errore, si coniuga bene con ideologie di tipo religioso, perché, quando si negano gli aspetti progressivi e liberatori della Modernità, il ricorso al Maligno è la migliore spiegazione possibile del suo successo. Se la famiglia premoderna era il luogo idillico che descrive Pallante, in cui tutti scambiano amore con tutti perché mai abbandonarla, se non per ispirazione diabolica? L’ovvia risposta è che la famiglia premoderna era insieme luogo di protezione e luogo di repressione, e che la famiglia moderna ha avuto successo perché le persone l’hanno scelta, e l’hanno scelta per sfuggire alle costrizioni della famiglia premoderna.
Dove abbiano letto nei miei scritti che la famiglia premoderna era il luogo idillico […] in cui tutti scambiano amore con tutti
, non lo so. Ho solo detto che le relazioni umane basate sull’amore e la solidarietà sono le uniche in grado di dare senso alla vita e che la loro sostituzione con servizi sociali acquistati rappresenta un grave peggioramento qualitativo. Con tutti i suoi limiti, la famiglia tradizionale aveva la potenzialità di realizzare relazioni umane basate sulla solidarietà reciproca, mentre questa possibilità non è data alla famiglia mononucleare chiusa in una gabbietta condominiale con genitori totalmente assorbiti nel ruolo di produttori / consumatori di merci. Ed è la quarta volta che i miei due critici forzano il significato di ciò che scrivo polemizzando con ciò che scrivono loro dopo aver interpretato indebitamente ciò che scrivo. Non capiscono o non vogliono capire? Ma questo è poco importante. Più importante e grave è che interpretino come libere scelte delle scelte condizionate da una propaganda martellante di cui non si rendono conto probabilmente soltanto i telespettatori di Maria De Filippi. Il sistema dei valori di una società fondata sulla crescita della produzione e del consumo di merci ha fatto una vera e propria guerra contro la famiglia premoderna, descrivendola come un carcere a vita, e ha modellato nell’immaginario collettivo come fattore di progresso, modernità, liberazione, emancipazione, l’aberrazione della famiglia mononucleare incapace di fare qualsiasi cosa e quindi dipendente al cento per cento dall’acquisto di tutto ciò che serve per vivere, con i suoi componenti sempre di corsa nel tourbillon lavora-consuma-crepa, eterodiretta in tutti gli aspetti della vita dalla pubblicità. Luogo di frustrazioni e sofferenze represse che di tanto in tanto esplodono in gesti che vengono catalogati nella follia ma sono le conseguenze insite in quel modo di vivere. La famiglia mononucleare moderna e cittadina è indispensabile alla crescita del pil: non sa fare niente e deve comprare tutto ciò che serve per vivere e in misura sempre maggiore ciò che non serve, per comprare tutto ciò che serve e non serve entrambi i coniugi devono essere produttori / consumatori di merci (il contributo alla crescita del pil è doppio), non ha tempo per costruire relazioni umane positive sia al proprio interno, sia con altre famiglie mononucleari, e deve comprare tutti i servizi alla persona (altro contributo alla crescita del pil). E queste sarebbero libere scelte, fatte per sfuggire alle costrizioni della famiglia premoderna e conquistare una vita più libera, priva di costrizioni! Ma mi faccia il piacere, avrebbe detto Totò. Mentre la famiglia premoderna è la sentina di tutti i mali perché non dà lo stesso contributo alla crescita del pil: non deve comprare tutto ciò che serve per vivere, si permette di autoprodurre molti beni, fa a meno di molti servizi alla persona, fa durare gli oggetti, produce pochi rifiuti, è più autonoma dal mercato.

Ma il punto forte delle argomentazioni dei miei due critici deve ancora venire. È introdotto ancora una volta da una lettura inventata di ciò che non ho mai scritto: La decrescita che rifiuta sia lo Stato sia il Mercato   [non riesce proprio a entrare nella loro testa che si propone soltanto di ridurre l’invadenza totalizzante dello Stato e del Mercato ogni volta che ciò comporti un miglioramento della qualità della vita e degli ambienti] è dunque una ideologia reazionaria. Certo, il movimento della decrescita [felice, ndr.] non vuole, giustamente, essere classificato come reazionario [in realtà, non vuole, giustamente, essere classificato come progressista] e rifiuta la contrapposizione progresso/reazione. Questo, finalmente, è ciò che pensiamo, ma non so se per le stesse ragioni che pensano i miei due critici e allora meglio spiegarlo. Il movimento della decrescita felice ritiene che le valutazioni delle scelte individuali, sociali, politiche, economiche, tecniche debbano essere effettuate in base alla loro capacità di futuro. Ci sono modi premoderni di stare al mondo, di rapportarsi con se stessi, con gli altri, col lavoro, con la scienza, con la tecnologia, con gli altri viventi, che hanno più capacità di futuro dei modi moderni che li hanno sostituiti perché in base al sistema dei valori della modernità – innovazione, progresso, crescita sviluppo, cambiamento – sono stati considerati arretrati, sorpassati, non scientifici. Per esempio i modi di costruzione tradizionali, elaborati quando l’energia era poca e costava tanto, erano finalizzati a fare in modo che la struttura degli edifici fosse in grado di costituire un riparo dagli effetti indesiderati del clima, il freddo d’inverno e il caldo d’estate, mentre le tecnologie edili che li hanno sostituiti in nome della modernità e del progresso li hanno resi dipendenti da protesi energetiche per svolgere le stesse funzioni, col risultato che oggi gli edifici dei paesi moderni assorbono circa la metà di tutti i consumi energetici, costituendo la principale fonte di emissione di CO2 e del potenziale autodistruttivo insito nel modo di produzione industriale. Ma ci sono anche alcune tecnologie edili moderne con più capacità di futuro delle tecnologie tradizionali che hanno sostituito. I doppi vetri basso emissivi, contenenti l’argon o il kripton nell’intercapedine, riducono le dispersioni di calore e, quindi, le emissioni di CO2, in misura molto maggiore dei vetri semplici o dei doppi vetri. Nel sistema di riferimento culturale definito dalla valutazione della capacità di futuro, la contrapposizione tra reazione e progresso è assolutamente insignificante, anche se tra le due l’opzione più gravida di pericoli è quella progressista perché sono le scelte fatte in nome della modernità, del progresso, del cambiamento, dell’innovazione cambiamento, della crescita e dello sviluppo che stanno portando l’umanità verso l’autodistruzione. Nel loro complesso non hanno capacità di futuro, mentre ne ha molta di più il sistema dei valori e dei modelli di comportamento della premodernità. Se dico questa banalità confermata dai più autorevoli studi scientifici rischio di essere considerato dai miei due critici un reazionario? Non so quale preoccupazione me ne possa derivare, anche perché un altro è il colpo più grosso che stanno per assestarmi: E aggiungiamo infine che, come scriveva Hegel, una volta instaurata la Modernità, la reazione ha sempre una componente violenta (che, s’intende, può concretizzarsi oppure no a seconda delle situazioni): nel momento in cui la libera individualità ha cominciato a dispiegarsi, (sia pure nelle forme contraddittorie e incompiute tipiche della Modernità) non è infatti più possibile ricostringerla entro gli schemi delle società tradizionali, se non attraverso la violenza.

Insomma ero nazista e non lo sapevo. Nazista potenziale, ma inconsapevole. Chissà se è un’attenuante. Ma questi due sanno di cosa parlano? Ma dove vivono? Negli ultimi quattro anni ho fatto quasi mille incontri in tutta Italia con gruppi di persone che subiscono con un disagio esistenziale e una sofferenza crescenti le imposizioni e le costrizioni della modernità, che mi dicono di aver trovato nei miei libri in forma più organica e sistematica quello che pensavano in forma più confusa, che stanno praticando stili di vita alternativi in cui l’autoproduzione e il tempo dedicato alle relazioni umane hanno un ruolo centrale e terapeutico; come movimento per la decrescita felice facciamo i corsi dell’università del saper fare e abbiamo sempre richieste superiori alle nostre disponibilità; la fascia d’età più rappresentata nei nostri circoli è quella dei ventenni; sono in relazione con noi gruppi di industriali e di professionisti che progettano, producono e installano tecnologie finalizzate alla riduzione dei consumi di materie prime, della produzione di rifiuti, dell’inquinamento ambientale (tutti processi da cui deriva una riduzione della produzione e del consumo di merci che non sono beni, nella nostra ottica di decrescita); si è avviato un ancora limitato contro-esodo dalle città alle campagne. Di fronte a questa perdita crescente di credibilità della modernità, di fronte al dilagare della sofferenza che genera e se non trova via d’uscita si scarica nel consumo crescente di psicofarmaci, in un numero crescente di suicidi, nella diffusione del consumo di droga e altri tentativi velleitari di fuga dalla realtà, i miei due critici hanno l’impudenza di scrivere che nel momento in cui la libera individualità ha cominciato a dispiegarsi, (sia pure nelle forme contraddittorie e incompiute tipiche della Modernità non è infatti più possibile ricostringerla entro gli schemi delle società tradizionali, se non attraverso la violenza. C’è veramente da restare basiti. La violenza, anche fisica, è stata ed è tuttora esercitata per sottomettere gli esseri umani ai modelli di comportamento e agli stili di vita liberatori della modernità. Si pensi alle odierne deportazioni di massa dei contadini cinesi nelle città. O alla legislazione inglese del settecento che ha reso impossibile ai contadini / artigiani tessili di continuare a ricavare un reddito sufficiente a vivere dai modi di lavoro tradizionali costringendoli a emigrare nelle città e diventare operai, cioè produttori / consumatori di merci. O alla martellante campagna sull’inferiorità dei contadini rispetto ai cittadini che ha indotto milioni di italiani nel dopoguerra a trasferirsi nelle città, dove vivevano peggio e in ambienti malsani, ma diventando produttori / consumatori di merci pensavano di riscattarsi dalla vergogna con cui erano stati indotti a considerare la loro precedente condizione lavorativa. La violenza fisica non è neanche necessaria per sottomettere gli esseri umani ai comportamenti obbligati necessari a far crescere la produzione e il consumo di merci, perché le tecnologie della comunicazione della modernità sono in grado di convincere a fare come libere scelte le scelte obbligate che impongono. A uniformare i comportamenti degli esseri umani senza bisogno di ricorrere alla repressione. George Orwell in 1984 ha immaginato una situazione più arretrata e meno convincente di quella descritta da Aldous Huxley in Il mondo nuovo (nuovo, e quindi migliore nella concezione progressista della storia).
E con quali toni di arroganza e saccenza, che ricordano gli anatemi della III Internazionale, formulano le loro accuse i miei due critici: Il ragionamento di Pallante contiene due errori, di diverso peso… questa conclusione sarebbe valida se il ragionamento di Pallante fosse corretto… gli errori in cui è incorso Pallante ci sembra si colleghino ad elementi di ingenuità politica e teorica… Questo per quanto riguarda il primo errore. Veniamo adesso al secondo errore logico nel ragionamento di Pallante. Troppo divertente. Involontariamente comico.

Il resto delle argomentazioni è finalizzato a dimostrare che:

– matematicamente è possibile coniugare decrescita del pil e welfare state;

– la decrescita ha bisogno di Marx sostanzialmente per le ragioni indicate nel punto successivo;

– la decrescita non può essere un processo felice, o sereno, perché non si limita a modificare in meglio gli stili di vita individuali, ma ha una portata rivoluzionaria che intacca i fondamenti stessi del sistema capitalistico per cui non può non suscitare le reazioni degli interessi minacciati e, quindi, non può non scatenare conflitti a cui i decrescisti devono essere preparati.

Diamo per scontato che un modello istituzionale e organizzativo in grado di conciliare decrescita e welfare state sia possibile. Il problema è di capire se c’interessa. Se cioè, appurato che la decrescita sia un obbiettivo desiderabile, sia anche desiderabile continuare ad affidare a servizi sociali la gestione di relazioni umane così significative come la cura delle persone a cui si vuol bene nelle fasi della vita in cui sono più fragili e hanno più bisogno dell’affetto delle persone a cui vogliono bene, in cui hanno fiducia, con cui hanno in comune l’atto d’amore da cui nasce la vita. Ebbene, se lo sviluppo del welfare state è una necessità a cui non può rinunciare chi s’incatena a dedicare il meglio delle sue energie alla crescita del pil, qualora non si dedichi più il meglio delle proprie energie alla produzione e al consumo di merci per quale ragione si dovrebbe ritenere liberatorio non dedicarlo alle persone a cui si vuol bene? Perché, se ci si può liberare da una triste necessità si dovrebbe proseguire in una inutile sofferenza? L’esempio della cura dei bambini effettuata gratuitamente a turno da un gruppo di genitori che dedicano un po’ meno del loro tempo alla produzione e al consumo di merci è veramente un top irraggiungibile di assurdità. A parte il fatto che il paragone è fatto con un asilo privato a pagamento, come se l’asilo pubblico non fosse a pagamento, per una quota da parte di chi ne usufruisce e per una quota da parte di tutti i contribuenti attraverso la fiscalità, se alcuni genitori decidessero di dedicare meno tempo alla produzione e al consumo di merci potrebbero dedicare più tempo direttamente ai loro figli, senza che tutti debbano dedicarne una parte a tutti i bambini del gruppo di famiglie al solo scopo di mantenere un welfare, anche se non più state, ma basato sul dono reciproco del tempo. Il problema non è aumentare i beni al posto delle merci, ma ridurre il consumo di merci che si possono ottenere più vantaggiosamente sotto forma di beni. Mi rendo conto che sarebbe meno moderno e, pertanto, reazionario, ma più semplice da realizzare e più soddisfacente per tutti.

Quanto a Marx, può darsi che chi si rifà a Marx abbia bisogno della decrescita, ma ciò esula dai nostri interessi. Posso garantire che il filone della decrescita a cui faccio riferimento, la decrescita felice, non ha avuto bisogno di Marx per elaborare le sue idee, anche se non si possono negare analogie tra la sua distinzione tra valori d’uso e valori di scambio e la nostra distinzione tra beni e merci, né tra ciò che lui chiamava il feticismo delle merci e noi chiamiamo consumismo. Probabilmente in altri elementi della sua teoria potremmo trovare elementi fecondi. Non sono in grado di affrontare il tema per mancanza di conoscenza. Posso dire soltanto che tutte le correnti politiche che si sono più o meno ispirate alle sue teorie non hanno mai messo in discussione la crescita, ma si sono limitate a prefiggersi di distribuire in modi più equi il reddito monetario che la misura. Tutte le sfumature della sinistra e del pensiero che si è richiamato e si richiama al socialismo, a eccezione di pochi socialisti utopisti, sono stati, insieme e in opposizione a tutte le correnti che si sono richiamate e si richiamano al pensiero liberal-liberista, le due varianti in cui si è incarnata l’ideologia della crescita. Il pensiero della decrescita è la fase iniziale di un paradigma culturale diverso da entrambe, non perché sia equidistante tra loro, ma perché si muove in uno spazio delimitato da altre coordinate. Nel nostro contesto culturale, ancora tutto da approfondire e articolare col contributo di una quantità infinitamente superiore d’intelligenze e competenze rispetto al modestissimo apporto che noi siamo stati in grado di dare, l’aggettivo felice non indica lo stato d’animo di chi pratica la decrescita nella sua vita, né la connotazione di una società fondata sulla decrescita, né del processo che porterebbe alla sua realizzazione, ma solo la conseguenza oggettiva dei miglioramenti che sarebbero apportati alla qualità ambientale e alla qualità della vita, individuale e sociale, da una riduzione della produzione e del consumo di merci che non sono beni e da un aumento della produzione e dell’uso di beni che non sono merci quando ciò sia conveniente e utile. Questo ho cercato di spiegarlo nei miei libri. Può darsi che io non sia stato chiaro. Può darsi che non siano stati letti, o che siano stati interpretati con gli occhiali di un’altra impostazione culturale.

Maurizio Pallante
5.08.2010


Questo scritto prende spunto da un articolo di Maurizio Pallante: Decrescita e Welfare State, reperibile in rete all’indirizzo http://www.decrescitafelice.it/?p=821. Si tratta di un testo di grande chiarezza (come sempre in Pallante), una qualità che giudichiamo di grande valore in questi tempi confusi. Proprio la chiarezza e l’onestà intellettuale di questo testo permettono di individuare quelli che giudichiamo i suoi errori, e ci danno l’occasione di iniziare una discussione, che pensiamo importante e urgente, sul fondamento ideale e teorico del movimento della decrescita.

Le tesi fondamentali di Pallante nello scritto citato ci sembrano essere le seguenti: poiché “il welfare state e i servizi sociali sono legati con un nesso inscindibile alla crescita del prodotto interno lordo”, mentre la proposta teorica e politica della decrescita è appunto la proposta della decrescita del prodotto interno lordo, Welfare State e decrescita sono incompatibili, e chi sostiene la decrescita deve criticare il Welfare State e chiedere la riduzione dei servizi sociali pubblici tipici delle politiche “socialdemocratiche” che hanno segnato la storia dei paesi occidentali nel secondo dopoguerra. Come si risponderà allora ai bisogni che attualmente vengono soddisfatti dai servizi sociali (o da quel che ne resta)?

Secondo l’articolo citato, la risposta del movimento della decrescita dovrebbe essere quella del ritorno il più esteso possibile all’autoproduzione, per quanto riguarda la domanda di beni materiali, e alla famiglia allargata, per quanto riguarda la domanda di servizi alle persone (cura dei bambini e degli anziani, per esempio). La conclusione dello scritto di Pallante compendia perfettamente il senso di queste proposte:

“Se le varianti liberal-liberiste, di destra, della crescita possono essere contraddistinte dallo slogan “più Mercato e meno Stato”, e le varianti socialiste-socialdemocratiche, di sinistra, dallo slogan “meno Mercato e più Stato”, il paradigma culturale della decrescita, perché di un paradigma culturale si tratta e non solo di una teoria economica, si contraddistingue con lo slogan “meno Stato e meno Mercato” ”.

Le nostre considerazioni critiche sono divise in tre parti. Mostreremo in primo luogo le conseguenze delle tesi esposte da Pallante. Cercheremo in secondo luogo di mostrare qual è l’errore logico fondamentale del suo ragionamento. Infine faremo qualche considerazione generale sulla decrescita, non direttamente legata al testo di Pallante.

1. Ciò che consegue. Per capire quali siano le conseguenze di queste tesi, partiamo dalla fine, cioè dallo slogan “meno Stato e meno Mercato”. La domanda ovvia che si deve fare, di fronte ad un simile slogan, è “cosa vuol dire?”. Che cosa vuol dire, nell’orizzonte della modernità, criticare contemporaneamente lo Stato e il Mercato? Stato e Mercato sono le due forme di regolazione della società che si sono date storicamente nella modernità. Pensare ad una ritirata simultanea di Stato e Mercato, nella modernità, significa pensare in sostanza ad una società che si autoregola in maniera spontanea. Ma questo non è nient’altro che l’utopia anarchica o comunista, una utopia che è priva di ogni aggancio con la realtà attuale. Se la decrescita abbraccia questo tipo di utopie si condanna all’impotenza.

Questo tipo di critica naturalmente presuppone che lo slogan “meno Stato e meno Mercato” abbia in mente un tipo di organizzazione sociale che rimanga nell’orizzonte della modernità. E’ chiaro che, nelle società premoderne, si sono date forme di regolazione sociale diverse sia dallo Stato sia dal mercato. E in effetti Pallante sembra pensare a queste forme, quando fa riferimento alla famiglia allargata come sostituto dei servizi sociali del Welfare State. Ma per proporre seriamente il ritorno alle forme di regolazione sociale tipiche del premoderno (la famiglia allargata, la comunità e le tradizioni locali) occorre cancellare la complessa dialettica della Modernità. La Modernità, come è stato messo in luce da due secoli di pensiero, è una promessa di emancipazione che reca in sé il suo limite dialettico e quindi non viene realizzata se non in parte. La Modernità è il luogo della libera individualità autodeterminantesi secondo coscienza e ragione, e il suo svincolarsi dai limiti delle forme sociali premoderne, sopra indicate, è condizione necessaria al pieno sviluppo dell’individuo. La famiglia allargata premoderna, luogo di produzione e consumo, presenta certo aspetti positivi di protezione del singolo, ma contemporaneamente soffoca il libero sviluppo soggettivo per ottenere individui che accettino di entrare nei ruoli già preformati dalle tradizioni. La Modernità, che libera gli individui dal vincolo delle tradizioni accettate come dati naturali, rappresenta il tentativo di una società dove il legame sociale sia fondato sulla scelta razionale e responsabile di ciascuno. Certo, questo ideale non è mai stato realizzato, ma i progressi nella sua direzione sono stati progressi reali. La proposta del ritorno a forme sociali premoderne (proposta che, ricordiamolo, è l’unico modo di dare un contenuto concreto allo slogan “meno Stato e meno Meercato”) cancella questa complessa dialettica, e si configura quindi come puramente reazionaria. Spiegamoci meglio. Abbiamo detto che la Modernità è la promessa ancora non realizzata di una società di liberi individui. Questa promessa non è stata realizzata perché non è stata trovata la forma sociale entro la quale sia possibile adempierla. La società liberale e borghese, che è la prima forma storica nella quale si è concretizzata la Modernità, non ha realizzato la promessa perché se da una parte ha liberato gli individui dal peso dei legami premoderni, dall’altra, contemporaneamente, ha istituito nuove servitù. La dialettica interna alla società liberale e borghese ha portato poi, per vie che sarebbe troppo lungo anche solo accennare qui[1] , all’attuale società di “capitalismo assoluto”, nella quale individui, società e natura sono asserviti ad un meccanismo economico distruttivo. Ora, di fronte a questa complessa dialettica sono possibili, e comuni, due errori contrapposti: da una parte il progressismo che oscura gli aspetti negativi o incompiuti della Modernità e in questo modo, fra l’altro, non vede come i recenti sviluppi dei paesi occidentali rappresentino una crisi della stessa società liberale e borghese; dall’altra, appunto, la reazione che vede nella Modernità un unico errore. La reazione si coniuga bene con ideologie di tipo religioso, perché, quando si negano gli aspetti progressivi e liberatori della Modernità, il ricorso al Maligno è la migliore spiegazione possibile del suo successo. Se la famiglia premoderna era il luogo idillico che descrive Pallante, in cui tutti scambiano amore con tutti, perché mai abbandonarla, se non per ispirazione diabolica? L’ovvia risposta è che la famiglia premoderna era insieme luogo di protezione e luogo di repressione, e che la famiglia moderna ha avuto successo perché le persone l’hanno scelta, e l’hanno scelta per sfuggire alle costrizioni della famiglia premoderna.

La decrescita che rifiuta sia lo Stato sia il Mercato è dunque una ideologia reazionaria. Certo, il movimento della decrescita non vuole, giustamente, essere classificato come reazionario e rifiuta la contrapposizione progresso/reazione. E’ giusto così, ma se non si vuole essere classificati come reazionari non basta dirlo, bisogna anche mettere in pratica ciò che si dice, il che vuol dire, in questo caso, che bisogna rifiutare di fondare la decrescita su orizzonti teorici che sono essenzialmente reazionari.

E aggiungiamo infine che, come scriveva Hegel, una volta instaurata la Modernità, la reazione ha sempre una componente violenta (che, s’intende, può concretizzarsi oppure no a seconda delle situazioni): nel momento in cui la libera individualità a cominciato a dispiegarsi, (sia pure nelle forme contraddittorie e incompiute tipiche della Modernità) non è infatti più possibile ricostringerla entro gli schemi delle società tradizionali, se non attraverso la violenza.

2.Ciò che precede. Se queste sono le conseguenze delle posizioni cui arriva Pallante, sembra che l’unica scelta sia fra l’accettare una versione reazionaria della decrescita e il rifiutare la decrescita appunto perché reazionaria. Ma questa conclusione sarebbe valida se il ragionamento di Pallante fosse corretto, se cioè fosse vero che a partire dai principi della decrescita si arriva alle conclusioni cui egli arriva, cioè che la decrescita è in essenziale contraddizione con il Welfare State. Noi vogliamo adesso mostrare che non è così. Il ragionamento di Pallante contiene due errori, di diverso peso. Cominciamo da quello realtivamente meno importante. Pallante afferma correttamente che “la spesa pubblica dipende dalle entrate” e queste a loro volta dipendono, tramite le imposte, dal pil. Ne conclude che “l’entità dei servizi sociali che uno Stato può offrire è dunque direttamente proporzionale al pil”. Pallante cioè afferma che l’entità dei servizi sociali è una frazione fissata (è questo il corretto significato matematico di “direttamente proporzionale”) del pil, per cui se il pil diminuisce diminuiscono i servizi sociali. Ma questo passaggio è scorretto. E’ infatti ovvio che la frazione di ricchezza spesa dallo Stato per una quantità e qualità determinate di servizi sociali è una frazione del pil, ma niente dice che questa frazione debba essere costante. Quale sia questa frazione, è una scelta politica. Entro certi limiti, se la frazione del pil impiegata nei servizi sociali aumenta, i servizi sociali possono rimanere gli stessi, o perfino aumentare, anche a pil decrescente. Se il pil diminuisce del 10% ma la frazione del pil impiegata nei servizi sociali aumenta di un fattore 10/9, la quota di ricchezza dedicata ai servizi sociali è costante. Ma è possibile pensare di aumentare la quota di pil impiegata nei servizi sociali? Sì, e in due modi diversi. Si può in primo luogo aumentare le entrate dello Stato, colpendo i grandi patrimoni generati in Italia dalla speculazione immobiliare e finanziaria e dall’evasione fiscale e tassando pesantemente attività inutili e dannose come la pubblicità o la finanza. Si può in secondo luogo cambiare la destinazione delle risorse che lo Stato preleva (ad esempio eliminando la corruzione della casta politica con l’eliminazione della casta stessa e interrompendo tutte le missioni militari all’estero e l’acquisto dei sistemi d’arma connessi) e destinando ai servizi sociali le risorse così liberate. Si può infine recuperare ricchezza combattendo seriamente la criminalità organizzata e requisendo le sue ricchezze.

Le risorse così liberate permetterebbero di finanziare i servizi sociali pubblici anche a pil decrescente.

Questo per quanto riguarda il primo errore. Veniamo adesso al secondo errore logico nel ragionamento di Pallante. E’ il più importante dei due, ed è il punto decisivo di questo nostro scritto. E’ ovvio, come dice Pallante e come abbiamo ammesso anche noi nella discussione fin qui svolta, che entro l’attuale organizzazione economica il Welfare State dipende (in un modo o nell’altro) dal Prodotto Interno Lordo. La critica di Pallante si riferisce a questa situazione. Ma la decrescita vuole suggerire una diversa organizzazione economica. Il punto cruciale della decrescita è la distinzione fra merci e beni, e l’organizzazione economica che il movimento della decrescita ha in mente mira alla diminuzione di beni prodotti in forma di merce e all’aumento di beni prodotti non in forma di merce. Il movimento della decrescita ritiene cioè possibile pensare una economia con meno merci e più beni. Ma se questo è possibile per l’economia nel suo complesso, perché non dovrebbe essere possibile anche per quella parte dell’economia rappresentata dai servizi sociali? Se possiamo pensare, come chiede la decrescita, una economia organizzata almeno in parte come scambio non monetario di beni, perché non possiamo pensare a un Welfare State “decrescista” come scambio non monetario, a livello nazionale, di servizi? Proviamo a spiegarci. Un tipico esempio di cosa si può concretamente intendere per decrescita potrebbe essere il seguente: partiamo con un gruppo di famiglie con bambini che vivono nello stesso condominio; tutti gli adulti lavorano e devono portare i figli all’asilo privato, pagando la retta. Una tipica proposta “decrescista” sarebbe la seguente: gli adulti scelgono di ridursi un po’ l’orario di lavoro, e a turno una famiglia tiene i bambini di tutti mentre gli altri adulti sono al lavoro. In questo modo il pil diminuisce (perché gli adulti lavorano un po’ di meno, quindi ricevono un salario un po’ minore, e inoltre non vengono pagate le rette dell’asilo) ma il servizio che viene fornito (cura dei bambini) è lo stesso, e i rapporti umani migliorano, perché i bimbi stanno nell’ambiente familiare e gli adulti hanno maggiori possibilità di rapporti con i bambini. Non discutiamo adesso, naturalmente, la fattibilità concreta di una proposta di questo tipo ma consideriamo il punto fondamentale: si passa da servizi acquistati con denaro a servizi scambiati in modo non monetario. Gli adulti possono rinunciare a una parte del loro reddito monetario perché i servizi che con quella parte del loro reddito essi acquistavano vengono ora forniti in altro modo. Essi forniscono una parte del loro lavoro all’interno di una rete di scambi non monetari, e quindi da questa parte del loro lavoro non ricevono salario, mentre ricevono una parte del loro reddito come servizio all’interno della stessa rete. Ora, che cosa impedisce di pensare a un Welfare “decrescista” come una rete di questo tipo, solo più ampia e complicata? Pensiamo ad una infermiera che va al lavoro in un ospedale pubblico usando un mezzo di trasporto pubblico e gratuito, e lascia il figlio in un asilo pubblico e gratuito. Il suo salario può anche essere relativamente basso, perché riceve una serie di servizi gratuiti, che diventano una componente (non monetaria) del suo reddito reale. Ma chi paga i salari dei lavoratori dei mezzi pubblici e dell’asilo? Allo stesso modo, il reddito reale di questi lavoratori avrà una parte non monetaria formata dai servizi pubblici gratuiti, per cui il conducente del mezzo di trasporto, sapendo che se si ammala viene curato all’ospedale gratuitamente, non ha bisogno di farsi aumentare il salario per pagarsi l’assicurazione sanitaria. In questo modo un Welfare State “decrescista” appare come una ovvia generalizazione dei principi della decrescita. Certo, vi sarà sempre una componente monetaria del reddito, ma questo è ammesso da tutti i teorici della decrescita: nessuno di essi, ci sembra, propone l’abolizione tout court del mercato e degli scambi monetari.

Possiamo allora concludere su questo punto: l’errore di Pallante è quello di pensare ad una economia della decrescita escludendo da essa il Welfare State, di inchiodare cioè il Welfare State alla sua dimensione attuale. Non c’è nessuna ragione logica di farlo, come speriamo di aver dimostrato.

Non c’è dunque contraddizione fra decrescita e Welfare State, e non è quindi necessario radicare la decrescita in forme sociali premoderne. Si può certo proporre una decrescita reazionaria, nel senso da noi indicato, ma si può anche proporre una decrescita che accetti l’orizzonte della Modernità, del libero sviluppo dell’individuo e del ruolo dello Stato nel promuoverlo. Vi sono dunque due strade di fronte al movimento della decrescita, ed esso non può esimersi dallo scegliere quale delle due vuole percorrere.

3. Altre considerazioni.

Questa ultima parte è dedicata a considerazioni più generali. Gli errori in cui è incorso Pallante ci sembra si colleghino ad elementi di ingenuità politica e teorica del movimento per la decrescita. Crediamo che un serio confronto col pensiero di Marx potrebbe aiutare a superare queste ingenuità. Abbiamo scritto qualche tempo fa un articolo sul rapporto fra la decrescita e il pensiero di Marx [2] , nel quale fra le altre cose ci siamo sforzati di spiegare “cosa può dare il pensiero di Marx alla decrescita”. Non possiamo ripetere qui le analisi di quel lungo testo, ci limitiamo a ricordarne alcune conclusioni, che ci sembrano rilevanti per questa discussione.

Per poter impostare un programma di cambiamento sociale incentrato sulla decrescita, occorre avere chiaro che la crescita, che è la nozione che nel linguaggio ufficiale traduce l’accumulazione del capitale, è indispensabile all’attuale sistema economico. Se non si capisce questo punto, l’adesione alla crescita appare unicamente come un errore intellettuale e morale, che si può quindi correggere con le argomentazioni e con l’esempio. Ora, la “religione della crescita” è sicuramente anche un errore inteIlettuale e morale, per combattere il quale occorrono tutte le argomentazioni teoriche elaborate dai pensatori della decrescita, e occorrono tutti i possibili esempi e iniziative pratiche prodotte dalle persone impegnate nella decrescita. Ma non si comprende la forza e la persistenza di questo errore intellettuale e morale se non si capisce che esso si incardina entro il rapporto sociale capitalistico e ne rappresenta l’espressione appunto intellettuale e morale. Perdendo di vista questa connessione le persone impegnate nella decrescita non arrivano a inquadrare la realtà del potere e della politica contemporanee, e in questo modo sembrano ridursi a sperare che dal sistema emergano prima o poi politici sensibili ai temi della decrescita, e che si possano convincere i ceti dirigenti della convenienza economica della decrescita. Queste sono illusioni che paralizzano l’azione politica. I politici attuali sono vincolati ad un sistema di potere che ha fatto della crescita la sua base vitale, né si può sperare di dimostrare la convenienza economica della decrescita, perché in effetti all’interno del capitalismo essa non è conveniente in termini macroeconomici.

In sostnaza, non si può pensare ad un mutamento radicale dell’organizzazione sociale senza che questo mutamento, se per caso si avviasse nella realtà, susciti l’opposizione di tutte le forze che hanno interesse al mantenimento dell’attuale organizzazione sociale. I marxisti hanno sempre saputo questa ovvietà, il movimento della decrescita non può sperare di rimuoverla.

C’è poi un altro punto importante. I teorici della decrescita sembrano ritenere che il dogma dello sviluppo, e il potere politico-economico ad esso collegato, sia una specie di “ostacolo” tolto il quale la società potrà progredire “serenamente” e “felicemente” secondo linee più umane e sensate. Non è così, purtroppo, e il problema sta nel fatto che il capitale è un rapporto sociale che si riproduce e allarga continuamente la sua sfera, e quindi incide sull’insieme dei rapporti sociali. Nei paesi occidentali esso si è instaurato da secoli ed ha ormai modificato in profondità la natura dei rapporti sociali, informando di sé l’intera compagine sociale. Oggi il capitalismo, come abbiamo detto non “domina” la società, ma la informa, la struttura. Se è così, è chiaro che la proposta della decrescita è destrutturante. Nel momento in cui il processo di accumulazione del plusvalore modella tutte le relazioni umane, tutte le sfere sociali, metterlo in questione significa disarticolare l’intera società, e generare quindi una crisi radicale dell’intera organizzazione sociale. Se si vuole realmente avviare le nostre società sulla strada della decrescita, occorre essere preparati a sconquassi sociali di grandi dimensioni. La decrescita non può pensarsi come un processo di sostituzione indolore dell’attuale società dissennata con una società più razionale, senza scosse né traumi. Non si può seriamente pensare ad una decrescita che sia solo “felice” o “serena”. Le nostre società saranno spinte sulla strada della decrescita, se mai lo saranno, certo anche dall’aspirazione ad una “serenità” e “felicità” che l’attuale sistema sociale non può dare, ma soprattutto dal rifiuto del continuo peggioramento della vita che la crescita capitalistica comporta, dallo spettacolo di degrado materiale e spirituale che il nostro mondo mostra con evidenza a chiunque voglia vedere. Lungo questa strada occorrerà affrontare da una parte la violenza dei poteri che si nutrono della degradazione prodotta dallo sviluppo, dall’altra le crisi e gli sconquassi prodotti sia dalla degradazione capitalistica stessa sia dai tentativi di sostituire alla logica necrofila dell’attuale sistema una logica di vita. Nessun risultato è garantito, l’unica certezza è quella della profonda crisi di civiltà e cultura alla quale l’attuale sistema ci sta portando.

Marino Badiale, Massimo Bontempelli




2 pensieri su “QUALE DECRESCITA?”

  1. Anonimo dice:

    Una domanda a Pallante.Supponendo che la specializzazione del lavoro aumenti la produttività (in senso fisico, quindi sia dei beni che delle merci), in una società in cui le persone usano il proprio lavoro per fare molte cose diverse dovrebbe necessariamente (a parità di tecnologia disponibile) ridurre la quantità di beni (e merci) disponibili (in media) per ciascuno.E' ciò asuspicabile?Rederebbe le persone più felici o meno felici? E in base a cosa?

  2. Anonimo dice:

    Un punto fondamentale di tutto il discorso decriscista – da Latouche a Pallante, agli stessi Badiale e Bontempelli – è che la Decrescita, sia essa convivial–“consensuale” o combattuta e fonte di scontri con il potere vigente, richiede un cambiamento culturale e di immaginario, a livello di massa, di trecentosessanta gradi, difficilmente realizzabile in tempi brevi e reso arduo dal processo capitalistico di flessibilizzazione delle masse in pieno corso, nonché dalla costruzione sociale del tipo umano precario [l’antitesi dell’”uomo decriscista”], perfettamente aderente ai contesti culturali e sociali del capitalismo del terzo millennio.Risulta molto probabile, inoltre, che cambiare la “costituzione materiale” in essere e i rapporti sociali di produzione a favore della prospettiva decriscista potrà comportare tensioni sociali e politiche estreme, nonché copiosi spargimenti di sangue, e questo i gruppi decriscisti-anticapitalisti lo devono mettere in conto fin d’ora, come giustamente ammoniscono Badiale e Bontempelli.Ma il cambiamento non potrà realizzarsi – ammesso che la prospettiva decriscista potrà concretizzarsi progressivamente, nei prossimi decenni – che fra due o tre generazioni [25/ 30 anni x 2 o x 3!], ossia in tempi storici o addirittura ultrasecolari, a meno che, nel frattempo, l’empusa capitalistica non riesca a divorare il futuro dell’uomo e a dilaniare l’ambiente.Altro punto di cruciale importanza – e in ciò non posso che concordare, ancora una volta, con Badiale e Bontempelli – è che il Capitale deve essere correttamente inteso come un rapporto sociale, e non come una cosa, un complesso di beni, un inventario di impianti e attrezzature produttive e/o un insieme di bacini di risorse controllate.Infine, è decisivo indicare i lineamenti costitutivi del modello di società umana che dovrebbe sostituire la cosiddetta società di mercato liberalcapitalistica.Da quel che ho potuto comprendere, leggendo Serge Latouche, Alain Caillé ed altri decriscisti, la loro alternativa è pensata con tutta evidenza nel solco dell’alternativa maussiana del “Dono” [Essai sur le don dell’antropologo e sociologo francese Marcel Mauss, inizi Novecento] in piena contrapposizione alla crescente mercificazione capitalistica dei rapporti sociali, già allora in atto.Si tratta di una rispettabile alternativa all’individualismo utilitaristico di matrice liberale, pur con un occhio rivolto al passato, che però richiederebbe, per essere pienamente operante, una forte coscienza sociale a supporto.Riporto un passaggio fondamentale e rivelatore di Mauss in rapporto alla supposta persistenza dello spirito del Dono nelle società capitalistiche [per lui quelle d’inizio Novecento, bene inteso]: «Une partie considérable de notre morale et de notre vie elle-même stationne toujours dans cette même atmosphère du don, de l'obligation et de la liberté mêlés. Heureusement, tout n'est pas encore classé exclusivement en termes d'achat et de vente. Les choses ont encore une valeur de sentiment en plus de leur valeur vénale, si tant est qu'il y ait des valeurs qui soient seulement de ce genre.»Se questa è la matrice originaria, con radici profonde nelle società umane precapitalistiche e non scevra da un certo “nostalgismo” per i loro meccanismi di funzionamento, non a caso Latouche ha definito il Dono [essenza della ipotetica rivoluzione decriscista?] come un principio attivo sempre vivente nella realtà occidentale.Concordo con Badiale a Bontempelli quando rilevano che i decriscisti convial-felici hanno un occhio rivolto al passato, ma non nella definizione data di “reazionari”, perché quella del progresso è un’ideologia di matrice capitalistica, nata con la cosiddetta “modernità” [altro nome assunto dall’onnipotente Capitalismo], e quindi anche la dicotomia progresso/ reazione è interna al rapporto sociale capitalistico, non avendo niente a che vedere con le logiche e la cultura che animavano le società antiche[/ arcaiche] alle quali implicitamente fanno riferimento i decriscisti, cioè quelle del Dono.Eugenio Orso

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