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Vicenda FIAT: «oltre il sindacalismo»

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[ 02 agosto 2010 ]

MARCHIONNE E IL NUOVO RAPPORTO DI LAVORO

di Fabio Damen*
«Solo se le lotte prendono la via della autonomia nei confronti del sindacalismo, comunque si presenti, eludendone lo spirito conservatore, se non reazionario, e con la presenza operante di un partito di classe, sarà possibile tentare di mettere politicamente in discussione il rapporto capitale lavoro in chiave anticapitalistica».

L’obiettivo di Marchionne è molto semplice. Perché la “sua” economia reale possa ripartire risalendo il baratro della crisi, occorre che la Fiat persegua una politica di concentrazione con altre imprese internazionali (Chrysler) per anticipare l’ingresso sul mercato automobilistico di due colossi come quello cinese ed indiano ed essere competitivo con quelli che già ci sono. Necessita che il “suo” proletariato supporti senza condizioni il disegno di ristrutturazione, altrimenti si chiudono gli impianti in Italia per trovare all’estero le migliori condizioni possibili (Polonia, Serbia, Argentina e Brasile). Occorrono ingenti investimenti che verranno fatti solo se vengono soddisfatte le condizioni prima esposte.
In altre parole per il capitale Fiat, ma più in generale per tutti i capitali che si propongono sul mercato interno ed internazionale, attraversati dalla più profonda crisi nella storia moderna del capitalismo, non è più sufficiente l’attuale livello di sfruttamento, non basta che i salari vengano diminuiti, che la precarietà aumenti, occorre aumentare i ritmi di produzione, allungare la giornata lavorativa (sabati lavorativi obbligatori e straordinari), imporre l’aumento delle flessibilità nell’orario di lavoro e, non ultimo, sradicare gli attuali, anche se minimi, paletti legati alla contrattazione nazionale. Occorre cioè che il mondo del lavoro diventi una prateria che il capitale possa percorrere in lungo e in largo senza ostacoli di sorta.
Occorre cioè, per Marchionne e per tutti i Marchionne di questo mondo, che il lavoro salariato sia, ancora di più, una variabile dipendente degli interessi del capitale, delle sue necessità di profitto, senza che nessuna condizione normativa e giuridica possa intralciarne il processo di riorganizzazione. Occorre che il capitale abbia mano libera su tutto, licenziamenti compresi, altrimenti, ci si dice, sarà peggio per tutti. Una verità in questa dichiarazione c’è. E’ che per i lavoratori il pendolo della prospettiva economica e sociale oscillerà tra un sempre più selvaggio livello di sfruttamento e lo spauracchio della disoccupazione agitato come deterrente ricattatorio: peggio di così…
Questa crisi ha mostrato gli attuali limiti del capitale nell’economia reale penalizzata da una grave crisi dei saggi del profitto che ha dato fiato alla speculazione, che, a sua volta, esplosa nella crisi finanziaria, è ritornata sull’economia reale deprimendola ulteriormente. Ma questa crisi, che abbia toccato il fondo o no, ha ancora da produrre gli effetti più devastanti sul proletariato, e il modello Marchionne ne è un esempio. Il suo intimo contenuto non risiede soltanto sulla “necessaria” mannaia che si abbatte impietosa sul mondo del lavoro nel tentativo di erodere anche quel poco di “garantismo” in termini di lavoro e di modo di lavorare, ma anche nell’inaccettabile ricatto: o così o niente. O si accetta di lavorare di più a salari inferiori, senza rivendicazioni di sorta, o si accettano supinamente tutte le necessità del capitale, con senso di responsabilità, oppure si apre il baratro del nulla, ovvero della disoccupazione, della miseria e della fame. 
Questo è il capitalismo. Un capitalismo che in nome delle sue contraddizioni, delle sue crisi, chiede al proletariato senso di responsabilità, ovvero di essere la condizione del superamento di quello stato di cose che esso stesso ha prodotto. Un capitalismo che chiede il sangue proletario non solo per superare le sue crisi ma per continuare ad essere “l’unica forma economica dominante”, basata sullo sfruttamento, sull’arroganza politica, sulla necessità di bassi salari per rigonfiare i profitti, sulla miseria di molti per la ricchezza di pochi. Ma le crisi non sono una maledizione divina o una catastrofe naturale, sono il prodotto di una organizzazione sociale basata sull’iniquo rapporto tra capitale e lavoro. Un capitalismo che, con questa crisi, sta dimostrando la sua astoricità. Uscire da tutto ciò non passa, ovviamente, dall’accettarne i ricatti, né dal limitarne i danni, se e quando è possibile, occorre un salto di qualità politico che inizi a mettere in discussione il rapporto stesso tra capitale e lavoro.
Già una risposta sul terreno economico rivendicativo sarebbe auspicabile come segno di vitalità della classe, come primo elemento di non rassegnazione alle leggi del capitale. In una simile situazione sarebbe auspicabile che i lavoratori Fiat si collegassero a livello nazionale, che unitariamente combattessero una lotta da Termini Imerese a Torino. Che tentassero di unificare il fronte di lotta con i lavoratori dell’indotto e, non ultimo, con i lavoratori polacchi e serbi, rovesciando i termini della questione così come li vorrebbe il dettame Fiat. Non una guerra tra poveri e sfruttati, gli uni contro gli altri, per sottrarsi reciprocamente il magro osso di un sempre più basso salario, ma una guerra contro il capitale sia sul fronte nazionale che internazionale. Necessitano assemblee autonome, spontanee, fuori e contro le gabbie sindacali e le prospettive minimaliste delle sedicenti forze politiche di sinistra. Solo se le lotte prendono la via della autonomia nei confronti del sindacalismo, comunque si presenti, eludendone lo spirito conservatore, se non reazionario, e con la presenza operante di un partito di classe, sarà possibile tentare di mettere politicamente in discussione il rapporto capitale lavoro in chiave anticapitalistica.In una fase come questa, il compito delle avanguardie politiche è quello di mostrare come la lotta contro il capitale abbia nel sindacalismo un nemico “interno” che opera nel sistema e all’interno delle sue compatibilità. Nel caso Fiat tutte le strutture sindacali, Fiom-Cgil comprese, sono per la politica dei sacrifici, sono perché il proletariato paghi ancora una volta il prezzo che il capitale chiede, con l’unica differenza, per Epifani e compagni, che non siano solo i lavoratori a pagare, o paghino un po’ meno, e che non vengano messi in discussione i contratti nazionali. Sì all’aumento dello sfruttamento secondo le necessità del capitale, ma senza esagerare sul terreno normativo, come se fosse possibile accettare il primo senza concedere anche il secondo che ne rappresenta il necessario involucro. Saranno poi gli ingegneri della politica borghese a trovare le soluzioni più idonee per smantellare il contratto nazionale o per lasciarlo formalmente in piedi, svuotandolo però dei contenuti strutturali. Ben sapendo che, alla fine, trovata la “soluzione” di facciata, la capitolazione sindacale sarà, come sempre, totale e definitiva. Fatte le debite differenze di epoca e di intensità della crisi, sembra di essere tornati ai tempi in cui lo slogan era “la scala mobile non si tocca”, con tutto quello che poi è avvenuto sul terreno della rinuncia sindacale in termini di rapporto tra capitale e forza lavoro. Ma anche nel caso del sindacalismo radicale, quello cosiddetto di base, che sembra ergesi a paladino degli interessi di classe, le cose non cambiano di molto la sostanza del problema. Il radical riformismo di queste organizzazioni, a parole, tende a superare sul terreno rivendicativo le compatibilità del sistema, ma politicamente ne rimane all’interno con il doppio danno per chi ne subisce le false sirene. Da un lato si dà per praticabile, sempre e comunque, la via del riformismo economico quale predominante fattore di emancipazione di classe: basta organizzarsi e lottare per ottenere, dall’altro non pone nessuna alternativa al capitalismo se non quella, che alternativa non è, di renderlo più umano di quanto non voglia esserlo.
Che le lotte partano dalle rivendicazioni economiche è un dato di fatto. Che queste lotte debbano essere sostenute sempre e comunque al di là delle compatibilità del sistema è una condizione necessaria alla ripresa della lotta di classe ma non sufficiente. Il compito delle avanguardie politiche è quello di mostrare i limiti che il capitalismo impone alle giuste rivendicazioni per il semplice motivo che, molto spesso, non sarebbe in grado di concederle nemmeno se lo volesse. Anzi in questa fase è il capitale che cerca di imporre quelle “riforme” economiche e politiche che gli sono funzionali per sopravvivere. Il che non significa che le rivendicazioni economiche non si debbano fare, che il loro contenuto non debba tentare di andare al di là delle compatibilità del sistema, significa invece che quando ciò si scontra inevitabilmente con gli insormontabili interessi del capitale, o si prende coscienza della necessità del suo superamento o si finisce per capitolare anche sul terreno politico oltre che su quello del solo rivendicazionismo economico.

* Fonte: la classe operaia

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