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Classe sociale e soggetto rivoluzionario

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IL MARXISMO E IL MITO IDEOLOGICO DELLA CLASSE OPERAIA
di Moreno Pasquinelli

I marxisti, dopo Marx, si sono divisi in molte correnti o, come dispregiativamente affermano i liberali, chiese ed eresie. Queste correnti non si sono solo date battaglia nella sfera del pensiero teorico, ma pure in quello politico, alcune  senza esitare a ricorrere allo sterminio dei loro avversari. La madre di tutte queste battaglie venne condotta tra la Chiesa per eccellenza, la stalinista, e la più irriducibile di tutte le eresie, quella trotskysta.


Esattamente come nelle grandi dispute cristologiche e teologiche (le analogie sono sorprendenti), il trofeo per cui gli avversari si azzannavano era, accanto a più prosaiche questioni politiche, quello di stabilire chi avesse titolo per definirsi “vero marxista”.
Non erano in discussione gli assiomi, ma solo i teoremi che, come da causa effetto, ne dovevano “necessariamente” e inesorabilmente conseguire se si voleva raggiungere il fine socialista. Alcuni assiomi erano dunque, in realtà, dogmi intangibili, come certi misteri lo sono per i cristiani, siano essi ortodossi, cattolici o protestanti. Nessun cristiano che si definisca tale, ad esempio, può mettere in discussione che Gesù di Nazareth era figlio di Dio, inviato dal cielo sulla Terra per redimere i peccati del mondo e offrire agli uomini la salvezza eterna.

Può sembrare buffo, invece è tragico, che negli anni del Grande Terrore staliniano i carnefici fucilavano in nome del socialismo, mentre le vittime affrontavano il  plotone d’esecuzione convinti di sacrificare la loro vita per il medesimo supremo ideale. Il generale Yakir, addirittura, gridò “Viva Stalin” mentre i boia lo spedivano nell’al di là.
Numerosi erano i dogmi che carnefici e vittime avevano in comune, i dogmi che per entrambi sostanziavano la concezione marxista del mondo. 
Vogliamo soffermarci solo su un paio. Il primo era quello per cui la lotta di classe è il Leviatano assoluto dell’evoluzione sociale, il solo vero motore della storia. Il secondo consisteva nell’attribuire alla classe operaia moderna e solo ad essa, la funzione messianica e salvifica di creatrice del socialismo. La gran parte dei marxisti, a prescindere dalle loro specifico culto, ritiene ancora oggi che ove si mettessero in discussione questi due dogmi il marxismo crollerebbe su stesso, cesserebbe di essere una “teoria scientifica”, diventerebbe dunque una “mera ideologia”. Proveremo a mostrare che è vero l’esatto contrario.
La controprova del carattere intangibile di questi due dogmi l’abbiamo osservando gli argomenti difensivi di chi ha rinnegato il marxismo. Essi hanno abbandonato il marxismo nel momento in cui non erano più convinti della loro validità.
Quelli che non hanno abiurato la fede, pur non essendo giunti alle stesse conclusioni dei rinnegati, la pensano esattamente come loro sulle premesse: quei dogmi sono i pilastri senza i quali il marxismo perde ogni senso. Entrambi condividono la medesima forma mentis dogmatica, fideistica, irrazionale. E’ come se i fisici teorici, davanti alla tesi einsteiniana che non esistono lo spazio e il tempo assoluti, si fossero divisi tra coloro i quali avessero gettato Newton nella spazzatura, e quelli che avessero negato la teoria della relatività pur di difendere la concezione meccanicistica dell’universo.

In altre occasioni ci siamo dedicati ad una critica filologica ed esegetica del dogmatismo, invitando a non confondere il plastico e problematico marxismo di Marx, con quello meccanicistico e storicistico divulgato da Engels ai tempi della Seconda Internazionale. Ora vorremmo andare al cuore teoretico del problema, nel tentativo di mostrare che non solo una teoria comunista della trasformazione sociale regge anche ove le due proposizioni in questione fossero popperianamente falsificate. Noi vorremmo mostrare che il marxismo, se non religiosamente inteso, se concepito come scuola scientifica di pensiero, non crolla perché due  postulati si sono rivelati fallaci alla luce dell’esperienza storica. 

In ballo, qui, c’è’ il materialismo storico, la concezione materialistica della storia. I due dogmi in questione, teoria della lotta di classe come motore esclusivo della storia e funzione messianica della classe operaia, sono in realtà i due aspetti di un altro: quello per cui i rapporti economici, ovvero i rapporti di produzione, sono il primigenio e esclusivo luogo in cui si costituiscono, come per necessitato riflesso, i più complessi rapporti sociali. La lotta di classe non sarebbe altro che lotta economica per il possesso dei mezzi di produzione e dunque della ricchezza sociale materiale; mentre la funzione guida della classe operaia verrebbe desunta dal movimento obiettivo del modo capitalistico di produzione, che non soltanto polarizzerebbe la società in due sole classi frontalmente contrapposte a antagonistiche ma che porterebbe con sé, come la larva la farfalla, un crescente e irreversibile grado di socializzazione della produzione.
Questa teoria riduzionistica è, filosoficamente parlando, monista, ovvero figlia del materialismo filosofico volgare, per cui il pensiero, res cogitans, è solo una protesi della res extensa, della materia, e l’agire umano non anche il frutto di uno slancio creativo, autodeterminantesi, ma meccanicamente causato dalle leggi fisiche del mondo materiale.
In termini marxistici ciò equivale a sostenere che la sovrastruttura sociale (l’insieme composto da idee, aspirazioni, passioni, affetti, usi, costumi, tradizioni) non ha alcuna dignità sua propria, né autonomia, né una storia, in quanto mero riflesso dei rapporti economici; che la coscienza sta al cervello come la bile al fegato (Moleschott).
Questa concezione monista e riduzionistica non si presenta mai in una forma pura. Nemmeno l’economicista più incorreggibile nega “l’importanza delle sovrastrutture”. Nella sua forma pura l’economicismo è infatti una pittoresca parodia del marxismo. Questo economicismo si presenta sempre mascherato, deve cioè camuffarsi e imbellettarsi per essere preso in considerazione. Diversi sono i travestimenti dell’economicismo per sfuggire al suo destino (che è quasi sempre quello del disincanto).

Il principale è anche il più banale di tutti, è una forma di soggettivismo frustrato. Né la teoria marxista né la classe operaia sarebbero fallaci: la colpa è tutta dei cattivi dirigenti del “buon movimento operaio”, al massimo delle forme cattive che esso si è dato storicamente. Dirigenti e forme che spiegano come mai il naturale corso della storia verso il socialismo sia stato temporaneamente deviato. Questa tesi autoconsolatoria accomuna agli anarchici la più parte delle eresie marxiste: trotskysti, luxemburghiani, sindacalisti, consigliaristi.
Il travestimento secondario è quello crollista, ovvero l’economicismo portato alle sue estreme conseguenze. Se lo sbocco socialista non si è dato non perché ci siano state perturbazioni carattere politico o deviazioni —queste hanno ben  poca importanza—, al contrario!  i tempi “naturali” non sono ancora giunti a maturazione, e quindi occorre aspettare il fisiologico  corso delle cose, ove per “fisiologico” si intende il pieno e dispiegato sviluppo capitalistico e a cui deve seguire, come la notte il giorno, la grande crisi, il crollo della struttura economica del capitalismo. In questa cornice, la sovrastruttura, le sfere ideali e spirituali sono del tutto irrisorie, la crisi, infatti, si incaricherà di “far entrare l’idea del socialismo anche nelle teste di legno”. Nella sua forma chimicamente pura questa eresia si rappresenta nel bordighismo.

Il travestimento terziario è un storicismo cristianizzato, un umanesimo escatologico.
Il capitalismo non ha polarizzato la società in due sole classi antagoniste? Lo sviluppo capitalistico non produce affatto alcuna anticamera del socialismo (massima socializzazione delle condizioni della produzione e dello scambio)? La classe operaia lungi dall’aver rovesciato le classi dominanti  ha finito per accettare nella sua stragrande maggioranza il dominio capitalistico? Poco importa, gli uomini, per loro natura, sono esseri buoni, e la storia, pur per contorte e imperscrutabili vie, muove sempre avanti, verso il progresso, verso il socialismo. Ogni altra direzione sarebbe priva di senso, e non può essere che la Storia non ne abbia di per sé alcuno, altrimenti avrebbe ragione il nichilismo. Del marxismo resta poco o niente ovviamente, se non il fatto che Marx avrebbe nominato questo destino, strappandolo dal cielo mistico della religione alla vita reale.

Noi non contestiamo, ovviamente, che i rapporti economici siano decisivi nello spiegare i fatti e le dinamiche sociali. Ciò che contestiamo è: (1) che essi costituiscano il luogo esclusivo dove si formano le classi sociali; (2) che essi siano la sola e principale causa delle lotte sociali; (3) che siano la sola fonte da cui sgorgano le idee e la coscienza —di classe all’occorrenza; (4) neghiamo infine che la pura e semplice lotta economica per l’appropriazione della ricchezza sia il terreno fondamentale dell’antagonismo tra oppressi e oppressori, tra proletari e capitalisti.

Partiamo dalle classi sociali. Non c’è una muraglia tra la classe in sé e la classe per sé. Il per sé, ciò che passa sotto il nome di “coscienza di classe”, è spesso inteso come mera forma, un portato necessitato dell’in sé. Questo non era vero nemmeno per Marx, che giustamente insisteva che non si da alcun contenuto che non abbia una forma adeguata. In altre parole è proprio la forma che connota il contenuto, che ci permette di coglierlo e di separare un contenuto da un altro. Certo che le classi sociali esistono obiettivamente, a prescindere dalla coscienza che esse hanno dei propri interessi. Ma la teoria di Marx non si fermava a questa verità lapalissiana e sociologica (Marx stesso ebbe a dire che non fu lui a riconoscere che la società era divisa in classi). Considerata dal punto di vista obiettivo, di come il capitale la produce, la classe operaia è solo la parte variabile del capitale stesso, quella creatrice di plusvalore. Affinché essa sia creatrice di socialismo, che cioè assolva una funzione rivoluzionaria, c’è bisogno che prenda coscienza di questo suo non-essere, che prenda cioè forma come essere libero dalle catene del lavoro salariato, dallo sfruttamento e dall’alienazione. E’ quindi solo il prendere coscienza che fa eventualmente del proletariato un soggetto rivoluzionario. Senza questo atto esso resta un mesto fattore del processo capitalistico di valorizzazione.

E come avviene questo processo? Come si determina? Avviene forse spontaneamente, come risultato necessario e ineluttabile dello sviluppo capitalistico? Certo che no, e tutta la storia del capitalismo, dagli albori ad oggi, mostra in maniera incontrovertibile che non è così. Non la continuità, la linearità, la gradualità del processo; bensì la rottura del processo e la negazione della sua presunta obiettività, sono i principali momenti per mezzo dei quali una classe sfruttata prende forma, e da parte variabile del capitale diventa classe antagonista, soggetto rivoluzionario. La lotta di classe consiste in questi momenti di discontinuità, rottura, negazione, ovvero di autodeterminazione, non certo nella pura e semplice opposizione tra capitale e lavoro salariato.  Come argutamente affermava Lenin, contestando l’economicismo e correggendo alcune illusioni affettivamente contenute nell’impianto di Marx e prendendo atto dell’evoluzione concreta dei paesi dove il capitalismo era più sviluppato: dalla pura e semplice opposizione capitale salario non sorge un movimento rivoluzionario, ma solo un tradeunionismo, o un corporativismo, i quali non solo non conducono alla rivoluzione, ma all’esito opposto: incatenano il proletariato ai piedi del capitale. Ovvero: “il tradunionismo è la politica borghese nella classe operaia”.
Questa premessa è secondo del tutto confermata dall’evoluzione storica e quindi assolutamente  imprescindibile. Sul piano puramente esegetico poi, Lenin non stravolgeva affatto il discorso di Marx, come taluni affermano. La verità è che in Marx ci sono due discorsi distinti, quello economicista come pure il suo opposto, per cui, è sempre Marx che parla: “La classe operaia è rivoluzionaria o non è nulla”. Oppure: “Ci vorranno decadi di guerre civili affinché il proletariato si tolga di dosso tutta la merda borghese e sia capace di costruire il socialismo”.
Di contro a tutti gli oggettivismi e ai determinismi che si cullano nell’illusione che sarà l’evoluzione economica del capitalismo a consegnarci su un piatto d’argento oltre che la rivoluzione il soggetto capace di farla, noi affermiamo che non è l’economia che crea il soggetto, ma la lotta di classe. Lotta di classe che non avviene anzitutto nella sfera delle mere relazioni economiche (queste sono solo la base), bensì in quella politica, il luogo in cui si formano le concezioni del mondo, in cui si forma la coscienza di classe —concezioni e coscienza senza le quali non solo è del tutto privo di senso parlare di missione storica di una classe, è anche aleatorio pensare di tracciare i confini “oggettivi” tra una classe e l’altra, dato che esse sono unite da mille fili sociali, sia economici che politici.

Quindi, per lo stupore di tutti gli economicisti, non è il soggetto sociale che crea quello politico, ma viceversa, quello politico crea, ovviamente in condizioni determinate, il soggetto sociale. In altre parole v’è una relazione biunivoca tra il fattore sociale e quello politico: affinché si possa parlare di classe c’è bisogno che essa esista fisicamente, materialmente, dentro l’organismo sociale. Ma siccome questa sua esistenza è proteiforme, mutevole, intrecciata inestricabilmente a tutto il resto; c’è’ bisogno di un soggetto politico che intervenga per astrarla, separarla dal tutto, dandogli cioè forma, coscienza di sé, che la trasformi in comunità autonoma, in forza antagonista. Il sistema capitalistico è un insieme composto di classi, come l’acqua contiene ossigeno e idrogeno uniti in una molecola unitaria. Separarli implica un’intervento deliberatamente scissorio, ovvero l’azione fecondante del soggetto politico. Del soggetto che non solo riconosce l’insieme, le sue contraddizioni come i suoi punti di forza, ma che sa ciò che vuole e possiede gli strumenti per condurre la sua missione. Ora possiamo tornare ai due assiomi che il marxismo considera dogmi intangibili e affermare che:

(1) Né la storia né il “progresso” procedono solo a causa della lotta di classe. Questo processo storico esiste, ed ognuno può verificarlo empiricamente, anche ove la lotta di classe sia a bassa intensità o non si manifesti affatto. Entrano in gioco altri fattori, economici, tecnici, nazionali, statali, religiosi, ideologici che il soggetto politico deve tenere in somma considerazione se, appunto, vuole assolvere alla sua missione.
(2) E’ il partito proletario che sa di avere una missione, non la classe in sé, così come la sforna il modo capitalistico di produzione. La classe in sé è una leva della rivoluzione, la sua energia, l’acqua di una macchina a vapore che per poter rilasciare la sua potenza ha bisogno, non solo del fuoco del conflitto, ma di una complessa macchina politica che la raccolga come vapore in un cilindro a pistone.

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