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Il capitalismo a due anni dal fallimento di Lehman

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IL COLPO DI STATO FINANZIARIO

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa interessante analisi sull’attuale crisi capitalistica, riservandoci di rispondere all’autore in merito alla sua tesi che non esisterebbero differenze tra profitti industriali e finanziari, e quindi sulla questione del profitto e della rendita

di Christian Marazzi*

«Il capitalismo finanziario di mercato si caratterizza per il fatto che finanza e economia reale si sovrappongono, non sono più distinguibili. La finanza è, insomma, consustanziale all’economia reale, per cui per capire la logica di funzionamento del capitalismo odierno occorre superare l’idea di una dicotomia tra economia reale ed economia finanziaria. Basti ricordare che sono state le imprese della cosiddetta economia reale che, per prime, all’inizio degli anni Ottanta, hanno dato avvio alla finanziarizzazione investendo i loro profitti in borsa per accrescere i loro profitti. Non sono neppure d’accordo con coloro che, per spiegare la deriva finanziaria degli ultimi trent’anni, pretendono di distinguere i profitti finanziari e quelli industriali.».

15 settembre 2008: fallisce la Lehman Brothers, evento choc che ha segnato l’inizio della crisi finanziaria. Ormai è passato più di un anno. Cos’è cambiato?

Il fallimento della Lehman Brothers rappresenta il passaggio dal capitalismo finanziario in cui centrale era stato il processo di privatizzazione del deficit spending keynesiano, al capitalismo finanziario di Stato, in cui il deficit spending viene di nuovo statalizzato, benché in modo differente rispetto al funzionamento di quello keynesiano praticato dagli Stati nel corso dei trent’anni gloriosi della crescita fordista. Il deficit spending è la modalità con la quale lo Stato o, rispettivamente, la finanza di mercato, crea domanda aggiuntiva, cioè redditi addizionali rispetto a quelli salariali creati dall’economia, una creazione di domanda a mezzo di indebitamento. Si tratta di un meccanismo fondamentale nella storia del capitalismo che ha segnato nel corso del Novecento l’avvento dell’imperialismo, ossia il rapporto di dipendenza tra paesi sviluppati del Nord e paesi poveri del Sud, con questi ultimi funzionanti da “mercati di sbocco” per il plusvalore {surplus) non vendibile all’interno dei paesi ricchi. La creazione dei mercati di sbocco è stata infatti possibile spingendo i paesi della periferia a indebitarsi presso le banche multinazionali, costringendoli in tal modo a cadere nella “trappola del debito”, un dispositivo che ha risucchiato le economie pre-capitalistiche nel capitalismo globale attraverso lo sfruttamento e l’esportazione delle materie prime ma, soprattutto, attraverso lo sfruttamento delle popolazioni del Sud. Nei trent’anni gloriosi del fordismo, la “trappola del debito” è stata interiorizzata dagli Stati con la creazione di una domanda aggiuntiva, di uno sbocco di mercato interno, che ha permesso lo sviluppo del welfare state. L’indebitamento pubblico, che pure è rimasto elevato a partire dagli anni Ottanta, cioè nel corso dell’ultimo trentennio di capitalismo finanziario (sia a causa della spesa militare, sia delle politiche neoliberiste di sgravio fiscale per i ricchi), non ha comunque più funzionato da leva della creazione di domanda aggiuntiva. Le politiche dei tagli della spesa sociale come effetto delle politiche di riduzione della pressione fiscale su redditi (alti) e capitale (per “affamare la bestia”, cioè lo Stato, come ebbe a dire David Stockman, consigliere economico di Bush padre), dà avvio alla privatizzazione del deficit spending, sposta cioè il debito dalla sfera pubblica a quella privata di imprese e famiglie. I trent’anni che precedono la crisi dei subprime sono appunto anni in cui la finanziarizzazione vede imprese e famiglie alle prese con la creazione di redditi aggiuntivi a mezzo di debiti privati, debiti cioè contratti con il mercato finanziario e bancario. La crisi dei mutui subprime, esplosa con il fallimento della Lehman Brothers, è appunto la crisi di questo meccanismo in cui la finanza risucchia anche i più poveri dentro l’economia finanziaria di mercato attraverso l’indebitamento ricorrendo in tutti i modi alla leva del credito-debito (come la cartolarizzazione dei mutui subprime, per liberare i bilanci delle banche dai crediti ipotecari e in tal modo permetter loro di erogare sempre nuovi crediti). La soglia di questo processo, ossia la sua crisi, viene raggiunta nel corso del 2007-08, quando l’aumento dei prezzi dei beni immobiliari, condizione necessaria per cooptare le famiglie a reddito basso nel mercato immobiliare, si arresta per poi rovesciarsi in caduta dei prezzi, ciò che ha scatenato un processo di fallimenti a catena. Per salvare la finanza dal crollo, gli Stati hanno implementato misure di intervento spettacolari, hanno cioè statalizzato il deficit spending con acquisto di titoli tossici (quei titoli cartolarizzati, costruiti sui mutui subprime e quant’altro) e con emissione di liquidità. Ecco, è questa statalizzazione del deficit spending per salvare la finanza che segna la fase successiva al fallimento della Lehman (e di tantissime altre banche di investimento e compagnie di assicurazione), con questa differenza rispetto alle politiche di indebitamento pubblico dell’epoca fordista: si tratta di creazione di domanda aggiuntiva finanziaria, cioè di rendita finanziaria, come dimostra la ripresa dei mercati borsistici a partire da marzo del 2009. Una ripresa, quella della finanza, che solo in parte risolve i problemi dell’uscita dalla grande recessione, nel senso che di per sé non è sufficiente a innescare la crescita della domanda complessiva necessaria a ridar fiato all’economia reale. Quest’ultima, di fatto, stenta a riprendersi, gli investimenti d’impresa sono bloccati, e la disoccupazione e la povertà non cessano d’aumentare.

E’ sufficiente puntare il dito contro la finanza creativa, i prestiti subprime e i bonus ai manager delle banche o le cause che hanno innescato la crisi sono altre?

No, non è sufficiente, perché la finanza creativa, i subprime, gli stessi bonus scandalosi ai manager sono parte di un meccanismo (di una logica) capitalistico in cui il problema fondamentale è non solo la produzione di valore o, meglio, di plusvalore, ma anche la sua realizzazione, cioè la vendita dei beni e servizi contenenti questo plusvalore. La creazione di rendite finanziarie nel corso degli ultimi trent’anni ha senza dubbio permesso di accrescere il consumo (e quindi la vendita) del plusvalore prodotto. Abbiamo cioè assistito ad una sorta di “divenire rendita del profitto”, cioè di aumento dei profitti a mezzo di finanziarizzazione, come abbiamo assistito ad un aumento dei redditi non salariali a mezzo di indebitamento privato delle famiglie (si pensi solo alle carte di credito, ma anche al debito ipotecario). A partire dai primi anni Ottanta c’è stato uno sviluppo a forbice tra profitti e accumulazione, dove accumulazione significa reinvestimento degli utili in processi produttivi (in macchinari e in creazione di posti di lavoro). I profitti sono cresciuti costantemente, ma l’accumulazione di capitale è rimasta piatta, stagnante. Questa forbice si spiega in più modi: i profitti sono cresciuti, in primo luogo, perché i salari sono rimasti fermi al palo grazie ai processi di flessibilizzazione del lavoro e alle politiche di outsourcing (esternalizzazione e delocalizzazione industriale) nei paesi emergenti a basso costo del lavoro. Ma questa stessa forbice si spiega alla luce di nuove strategie aziendali, di nuovo modelli produttivi, in cui l’estrazione di valore esce, per così dire, dalle fabbriche, si impone nella sfera dello scambio e della riproduzione, mettendo letteralmente la vita stessa al lavoro. In altre parole, l’aumento dei profitti senza accumulazione è, in realtà, un processo in cui i processi di accumulazione sono profondamente mutati, si sono “smaterializzati”, permettendo al capitale di succhiare plusvalore senza investire massicciamente in macchinari, ma investendo in dispositivi di captazione del valore (di lavoro gratuito) nella sfera della circolazione e riproduzione della forza-lavoro. Oggi si parla addirittura di crowdsourcing, cioè di “messa al lavoro” della folla, e il modello che più riassume questa strategia bioeconomica è quello di Google e dell’Ikea (dove facendo lavorare i consumatori alla produzione del loro stesso bene-servizio, come la libreria Billy assemblata a casa, si ottengono risparmi favolosi). È qui, in questo biocapitalismo nascente, che occorre puntare il dito, in questa produzione di valore a mezzo di lavoro gratuito (plusvalore) che risiede la contraddizione del nuovo capitalismo finanziario. Che è finanziario perché ha bisogno di produrre una rendita per poter realizzare-vendere tutto il plusvalore creato. Che è un capitalismo della rendita finanziaria perché, come agli albori del capitalismo fondiario, estrae ricchezza all’esterno dei processi direttamente produttivi. Nel capitalismo fondiario (fisiocratico) la rendita era la forma monetaria dello sfruttamento capitalistico della terra, oggi la rendita è la forma monetaria dello sfruttamento del bios, della vita nella sua totalità.

L’interpretazione dominante della crisi è quella secondo cui ci sia stata una netta separazione tra economia finanzaria e economia reale: la prima, perversa, sarebbe stata la causa di ogni male e avrebbe finito per travolgere la seconda, tendenzialmente buona. Secondo lei è sufficiente affermare questo?

No, su questo punto sono in totale disaccordo sia con gli economisti marxisti classici che con gli economisti keynesiani. Come dicevo prima, il capitalismo finanziario di mercato si caratterizza per il fatto che finanza e economia reale si sovrappongono, non sono più distinguibili. La finanza è, insomma, consustanziale all’economia reale, per cui per capire la logica di funzionamento del capitalismo odierno occorre superare l’idea di una dicotomia tra economia reale ed economia finanziaria. Basti ricordare che sono state le imprese della cosiddetta economia reale che, per prime, all’inizio degli anni Ottanta, hanno dato avvio alla finanziarizzazione investendo i loro profitti in borsa per accrescere i loro profitti. Non sono neppure d’accordo con coloro che, per spiegare la deriva finanziaria degli ultimi trent’anni, pretendono di distinguere i profitti finanziari e quelli industriali. A loro suggerisco di andarsi a rileggere Marx quando, nel terzo volume del Capitale, per spiegare la caduta del saggio del profitto, afferma che nella sua analisi il profitto non va suddiviso in profitto industriale e profitto commerciale (che oggi chiamiamo finanziario), essendo il suo un ragionamento che ha al suo centro il “profitto in generale“. Sia chiaro che questa mia critica delle teorie della crisi che ancora separano economia reale da economia finanziaria non ha nulla di apologetico, non è una forma di accondiscendenza verso il nuovo capitalismo della rendita, bensì un modo per guardare alle nuove contraddizione del capitalismo tardomoderno, in particolare la contraddizione tra processi di sfruttamento e bios, vita, una contraddizione esplosiva, in cui allo sfruttamento della vita in tutte le sue forme di manifestazione si contrappongono tutte le forme di cooperazione sociale, di affettività, di sentimenti che resistono allo sfruttamento. All’interno di questo nuovo capitalismo finanziario la lotta deve praticare nuovi percorsi, deve essere lotta per la riappropriazione del tempo dell’esistenza umana, deve cioè praticare forme di esodo dal tempo del capitale. La rivendicazione di un reddito di cittadinanza (un basic income incondizionale), che proprio in questa crisi sta guadagnando terreno e legittimità, è un modo di tradurre politicamente questa analisi del capitalismo al di là della dicotomia tra economia reale e economia finanziaria.

Perché l’autorità monetaria centrale ha lasciato che la Lehman Brothers fallisse?

È un esempio perfetto di quella shock economy così ben descritta da Naomi Klein, quella modalità di produzione di eventi traumatici grazie ai quali il capitalismo, dagli Settanta ad oggi, ha saputo trasformare in possibilità economica l’impossibilità politica. Il fallimento della Lehman è stato questo: costringere i liberisti, sostenitori della capacità del mercato di autoregolarsi, ad accettare la necessità di un (massiccio) intervento pubblico per salvare i mercati finanziari. I mercati finanziari avevano cominciato a perdere terreno sin dall’inizio del 2008, già c’erano stati alcuni fallimenti, come quelli di Bear Sterns, di Fannie Mae e Freddy Mac, ma il problema politico era come convincere i poteri forti a far fronte alla crisi sistemica di banche, assicurazioni, investitori istituzionali con una rivoluzione keynesiano-finanziaria di portata storica. Per questa ragione si decise di lasciar fallire la Lehman, cioè per dimostrare come, in assenza di un salvataggio statale, il mercato sarebbe fallito. Si tratta di una vera e propria “rivoluzione dall’alto”, un colpo di Stato finanziario per imporre ai più scettici liberisti il salto verso quella che oggi possiamo definire la finanziarizzazione dello Stato, ultimo stadio del capitalismo finanziario.

Sono sufficienti le iniezioni da trilioni di dollari da parte delle varie banche centrali per curare le imprese malate?

C’è sicuramente un problema, in questa fase della crisi, che ha a che fare col rilancio della domanda per permettere alle imprese di rilanciare la loro produzione. Il credito costa poco, ma le banche non vogliono correre rischi con le imprese “malate”, e quindi preferiscono investire sui mercati borsistici tutta quella liquidità che le banche centrali hanno fatto affluire nel sistema bancario. Le imprese cercano di rastrellare capitali ricorrendo al mercato obbligazionario, ma in questo mercato c’è la concorrenza degli Stati fortemente indebitati, anch’essi alle prese con la necessità di ricorrere al mercato obbligazionario per coprire i loro deficit. Nel frattempo le imprese tagliano sul fronte dei costi del lavoro, riducendo anche le spese per Ricerca&Sviluppo e il lavoro cognitivo così strategico per uscire in modo vincente dalla crisi (di fatto, stanno esternalizzando la ricerca nei paesi emergenti). Ci vorranno anni (gli analisti parlano di sette-otto anni) prima di ritornare al potenziale di crescita del periodo pre-crisi. Nel frattempo assisteremo al susseguirsi di bolle speculative, da quelle delle materie prime a quelle dei mutui commerciali, addirittura alle bolle del debito pubblico. Infatti, gli Stati, per impedire l’esplosione di queste bolle potenziali, stanno acquistando moltissimi titoli tossici, titoli che, una volta in pancia dello Stato, rischiamo di provocare vere e proprio crisi del debito pubblico.

Lei afferma che dopo trentanni di finanziarizzazione, la finanza è entrata nello stato. C’è quindi da supporre che la prossima volta che l’economia finanziaria entrerà in crisi, saranno le casse dei vari stati a tremare?

Il rischio c’è, eccome! Le politiche dette di quantitative easing, cioè di creazione di liquidità (stampando moneta) per evitare il fallimento del sistema bancario e finanziario, sono politiche che vanno incontro a problemi giganteschi. Il pericolo d’inflazione è uno di questi, anche se non penso che l’inflazione sia dietro l’angolo. Semmai, il problema più serio è la destabilizzazione dei tassi di cambio delle monete, con il dollaro che si indebolisce a causa della politica a tassi d’interesse prossimi allo zero della Federal reserve, una politica che favorisce il carry trade (in italiano: arbitraggio), in cui gli investitori prendono a prestito in dollari (basso tasso di interesse), convertono il dollaro in altre valute e poi investono laddove i rendimenti sono più elevati. La bolla universale generata da questo meccanismo, peraltro già noto da tempo (basti pensare allo yen giapponese degli anni Novanta), non può non portare a momenti di crisi. Nel momento, ad esempio, in cui gli Stati Uniti fossero costretti ad aumentare i loro tassi di interesse per attirare capitali, si assisterebbe ad una inversione del carry trade, cioè ad una uscita dai mercati con rendimenti elevati per saldare il più velocemente possibile le posizione debitorie. Un bel casino! La bolla del debito pubblico non è da escludere. Il problema, in questo caso, è l’assenza di un creditore in ultima istanza, l’assenza di un trascendente, di un Dio monetario capace di salvare i salvatori del sistema finanziario. Sarebbe il trionfo dell’immanenza sulla trascendenza!

La crisi finanziaria sta gravando prevalentemente sulla classe media e sui ceti meno abbienti. È stato questo un fenomeno circoscritto al crollo dei mercati o c’entra anche la natura del sistema capitalistico?

La crisi dei ceti medi è iniziata da tempo, da quando si è usciti dal fordismo e si è cominciato a sviluppare forme di lavoro flessibile, forme di lavoro autonomo (di “seconda generazione”, come si è detto) al di fuori delle tradizionali forme di rapporto tra capitale e lavoro. Inoltre, i ceti medi sono alle prese, oltre che con le difficoltà legate alla capacità di risparmio, con l’erosione del reddito differito, cioè delle rendite pensionistiche. Queste ultime sono state risucchiate dai mercati borsistici, ciò che ha permesso al capitale di legare il rischio dei ceti medi al rischio del capitale. La pauperizzazione dei ceti medi è un fatto reale, che avrà ripercussioni enormi sulla politica. Il populismo come strumento politico di governo è una delle conseguenze più pericolose della pauperizzazione dei ceti medi.

Cosa ci prospetta il futuro? Le misure adottate dai vari governi saranno efficaci a lungo termine o è stata tappata l’ennesima falla?

Il futuro prossimo sarà punteggiato da crisi finanziarie sempre più ravvicinate. Già dagli anni Ottanta ad oggi abbiamo avuto crisi mediamente ogni due anni e mezzo, da oggi in poi questa media temporale si raccorcerà ancora. È questo, d’altronde, il modus operandi del capitalismo finanziario, un modo in cui ai processi di esclusione seguono processi di inclusione e poi ancora di esclusione, un po’ come è accaduto con le enclosure seicentesche, in cui gli “abitanti dei beni comuni”, allora delle terre, vennero espulsi dai processi di privatizzazione delle terre per poi essere inclusi nei processi di salarizzazione-privatizzazione della produzione di merci. Siamo ormai afflitti da una “sindrome bipolare” generalizzata, una psicopatologia del capitalismo schizofrenico che chiama in essere la cura di sé, la ricerca di nuove forme di vita centrate sulla nostra autonomia dal capitale.

* Fonte: rivista telematica,  N. =, 2010 TYSM,

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