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Cina: come gli USA si preparano alla guerra

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NUOVE BASI PER ACCERCHIARE E BATTERE LA CINA

di Andrea Burt*

Riproduciamo questo articolo, a causa della sua indiscutibile chiarezza. E’ apparso su Il Sole 24 Ore di oggi, 9 dicembre col titolo «la lunga marcia degli States in Asia». Che la grande partita geopolitica del prossimo periodo gli USA ritengano di giocarsela in Asia e dunque nel Pacifico, era un fatto acclarato. Il Burt, con linguaggio asciutto, mostra la crescente capacità militare cinese di neutralizzare, in caso di conflitto, le capacità offensive americane, di qui la necessità degli USA di potenziare i loro dispositivi militari offensivi di accerchiamento di Pechino. D’altra parte questa politica di accerchiamento si svolge pure sul piano politico, con accordi bilaterali di mutua difesa con tutti i paesi dell’area indo-pacifica, Vietnam incluso.

«Qualche settimana fa l’ammiraglio Mike Mullen, capo di stato maggiore delle forze armate Usa, si è recato a Tonga, un gruppetto di isole sparute tra le Hawaii e la Nuova Zelanda che insieme formano il 189° stato sovrano più piccolo al mondo, abitato da circa 100mila anime. Mullen è l’ufficiale più alto in grado dell’esercito americano ad aver mai messo piede in questo arcipelago dell’Oceano Pacifico. La visita è passata quasi sotto silenzio e i media in generale hanno liquidato l’evento come “una sosta ai box” per rifornire l’aereo di carburante lungo il volo di ritorno dall’Australia.
L’Ammiraglio Mike Mullen
Ma il viaggio di Mullen è stato molto più di questo. La crescita della Cina costringe tutti i paesi asiatici ad adeguarsi a una delle tendenze geopolitiche più importanti della nostra epoca: il rimescolamento degli equilibri militari in Asia. La visita del capo di stato maggiore americano a Tonga la dice lunga sulle strategie future dell’esercito più grande del pianeta, e di conseguenza sull’equilibrio militare mondiale.

E questo per tre motivi. Il primo è che gli Stati Uniti hanno bisogno di nuove basi in Asia, proprio in posti come Tonga; e ne hanno bisogno alla svelta. In questo momento, la Cina per gli Stati Uniti rappresenta la sfida militare più grossa da decenni a questa parte. Per esempio la settimana scorsa una commissione del Congresso ha reso pubblico uno studio sulle forze armate del Celeste Impero che afferma che i missili cinesi sono attualmente in grado di mettere fuori gioco cinque delle sei grandi basi aeree in Giappone e Corea del Sud, dove è collocato il grosso delle basi militari americane in Asia. E non sono solo le basi a essere minacciate. Presto i cinesi saranno in grado di affondare portaerei, abbattere caccia e distruggere satelliti. Secondo Jeff Hagen, un esperto convocato dalla commissione, «all’origine del problema c’è la sproporzione che si profila tra le possibilità per gli Stati Uniti di stabilire basi militari nella regione e la capacità che hanno i cinesi di attaccarle. Se le portaerei vicino a Taiwan e le basi aeree in Giappone e Corea del Sud possono essere attaccate spostare le operazioni in luoghi più distanti diventa l’unica scelta possibile». Il problema è che di questi luoghi “più distanti”, fuori dalla portata delle forze armate cinesi, in Asia non c’è grande abbondanza.

Se gli Stati Uniti vogliono continuare a essere una potenza militare in Asia, avranno bisogno di queste nuove basi; per questo motivo l’America spedisce altissimi funzionari in giro per l’Asia (in paesi come Tonga), ed è per questo che a Washington il ministero della Difesa si affanna a trovare nuovi posti per collocare le basi.

Il secondo motivo è che anche gli altri paesi asiatici sono preoccupati per l’ascesa militare della Cina, ed è per questo che vogliono che Washington continui a essere la superpotenza militare dell’Asia. A dimostrazione del livello di inquietudine diffuso, i paesi di tutto il continente – dall’India all’Indonesia, dal Giappone alla Corea del Sud – si stanno armando a una velocità preoccupante. Ad esempio, tra il 2000-2004 e il 2005-2009, Singapore, Indonesia e Malesia hanno incrementato le importazioni di armi rispettivamente del 146, 84 e 722 per cento. Secondo quanto dice Siemon Wezeman, dell’International Peace Research Institute di Stoccolma: «Questa ondata di acquisti di armi nel Sud-Est asiatico potrebbe destabilizzare la regione, mettendo a rischio decenni di pace».

Una maggiore presenza militare di Washington nella regione fornirebbe garanzie contro il crescente potere di Pechino. Senza nuove basi americane, invece, avremmo un’Asia dominata dalla Cina, una prospettiva che fa inorridire paesi quali Giappone, Corea del Sud, Vietnam, Australia e molti altri.

Infine, la visita di Mullen a Tonga investe scenari che vanno al di là dell’Asia. Con il crescere del deficit federale, l’esercito più grande del mondo dovrà fare i conti con vincoli di bilancio senza precedenti. Incrementare la presenza in Asia probabilmente costringerebbe gli Stati Uniti a ridurre la presenza in altre parti del mondo. Una proposta formulata di recente dalla Commissione bipartisan istituita da Barack Obama per ridurre il debito pubblico dice esattamente questo quando raccomanda la riduzione di un terzo dei contingenti militari americani all’estero. Per i paesi europei, che già spendono poco per la difesa, questo potrebbe significare dover fare ancora di più avendo a disposizione ancora di meno. In ogni caso, quello che decideranno di fare le forze armate americane in Asia avrà ripercussioni in tutto il mondo.

Questo ci riporta a Tonga e spiega perché nella visita di Mike Mullen nelle remote isole del Pacifico ci sia in gioco molto più di un pieno di carburante. Negli ultimi due decenni, la superiorità militare dell’America era praticamente incontestabile, in Asia come nel resto del mondo: le sue portaerei scorrazzavano dove gli pareva e alleati quali Giappone e Corea del Sud si sentivano sicuri sotto l’ombrello militare degli Stati Uniti. Dopo tutto, chi era in grado di opporsi all’esercito americano? La risposta era semplice: nessuno. Ma se gli Stati Uniti non trovano nuove basi – proprio in posti come Tonga – la risposta potrebbe diventare un po’ più complicata».
(Traduzione di Gaia Seller)

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