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Dallo Stato sociale allo Stato penale

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Danilo Zolo

DIETRO ALLA MASCHERA DELLA DEMOCRAZIA
di Danilo Zolo*

Intervista a cura di Julia Netesova

«Ci sono tre temi che mi stanno particolarmente a cuore e che ho trattato in un mio recente volume[Tramonto globale, Ndr]: 1. la crisi della dottrina dei diritti umani come ideologia occidentale in declino, a cominciare dalla costante, tragica violazione del diritto alla vita; 2. la trasformazione in corso dei paesi occidentali dalla forma dello Stato democratico a quella di una società repressiva e penitenziaria; 3. il fallimento dell’obiettivo di una pace universale, compito inutilmente attribuito alle Nazioni Unite dalle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica compresa. Mi permetto di segnalare in particolare il tema dell’urgente necessità di una riforma delle istituzioni internazionali che includa anzitutto le Nazioni Unite, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, che fra l’altro sono tutte insediate nel continente americano senza alcuna ragione».


Julia Netesova.
 Gli Stati contemporanei devono affrontare numerose sfide che modificano il loro rapporto con la società: l’interferenza dello Stato è in aumento, gli apparati di sicurezza tendono a divenire più influenti e importanti e,soprattutto, la gente è sempre più preoccupata per la propria sicurezza. Pensa che questi trend influenzeranno la democrazia? In che modo?

Danilo Zolo. Non c’è dubbio che, soprattutto nei paesi occidentali, nuove sfide stanno alterando i rapporti fra quella che un tempo veniva chiamata civil society e le strutture centralizzate del potere statale. Due sono a mio parere i fenomeni più evidenti e più rilevanti. Il primo è il processo di sfaldamento degli istituti della rappresentanza politica che erano alla base del tradizionale modello “democratico”, anche nelle sue forme più moderate e realiste à laSchumpeter. I suoi principali assiomi – il pluralismo dei partiti, la competizione fra programmi politici alternativi, la libera scelta elettorale fra élitesconcorrenziali – sono ormai degli enunciati sfuggenti, puramente formali. Anche il parlamento non svolge più alcuna funzione rappresentativa e legiferante, sostituito dal “governo” che tende a concentrare in sé tutti i poteri dello Stato di diritto (o rule of law) e a praticare una permanente ignorantia legis.
La volontà del potere esecutivo si sostituisce di fatto alla volontà, puramente presunta, del “popolo sovrano” e alla dottrina della “sovranità popolare” non resta che il ruolo di una “maschera totemica”, come lo stesso Kelsen ha sostenuto. Il secondo fenomeno è la pressione crescente che il potere esecutivo esercita sui cittadini. La vita pubblica è dominata dall’egemonia di alcune élites politico-economico-finanziarie al servizio di intoccabili interessi privati. È la cosiddetta “nuova classe capitalistica transnazionale” che domina i processi di globalizzazione dall’alto delle torri di cristallo di metropoli come New York, Washington, Londra, Francoforte, Nuova Delhi, Shanghai. In questo contesto il sistema dei partiti è un ristretto apparato “autoreferenziale”, che opera circolarmente come fonte della propria legittimazione e della promozione degli interessi delle grandi imprese produttive e degli enti finanziari, come le banche d’affari, gli investitori istituzionali, i fondi pensione, le compagnie di assicurazione. In questa veste il potere “post-democratico” svolge un ruolo di controllo e di repressione dei comportamenti privati. Nei paesi occidentali – USA ed Europa occidentale in particolare – il Welfare State sta scomparendo mentre avanzano sempre più il controllo poliziesco pubblico e privato, la segregazione degli strati più poveri della cittadinanza (la Zero tolerancenewyorkese), l’incontenibile espansione della popolazione carceraria, in particolare in paesi come gli Stati Uniti, l’Italia, la Francia, l’Inghilterra. Stiamo passando, ha scritto Loïc Wacquant, dallo Stato sociale allo Stato penale.
J.N. Nonostante il prevalere del modello liberal-democratico, i paesi non-occidentali stanno cercando di ideare forme alternative di organizzazione democratica. La globalizzazione porterà alla scomparsa dei modelli alternativi o i movimenti di resistenza alla globalizzazione rilanceranno la ricerca di alternative adattabili ai contesti etno-culturali?
D.Z. A mia conoscenza il solo tentativo di dar vita a forme politiche alternative al modello liberaldemocratico nell’ambito di paesi non occidentali è quello che si è affermato sotto il nome di Asian values nell’area dell’Oceano indiano e del Pacifico. A partire dai primi anni Novanta del secolo scorso, in paesi come Singapore, la Malaysia, la Thailandia e altre nazioni dell’area cinese si è tentato di dar vita a strutture politiche alternative alla democrazia, ispirate alla tradizione confuciana. Nella “Dichiarazione di Bangkok”, del 1993, valori come l’ordine, l’armonia sociale, il rispetto dell’autorità, la famiglia, vennero opposti ai valori della modernità occidentale, inclusa la democrazia rappresentativa. In questa prospettiva anche la dottrina “individualistica” dei diritti dell’uomo venne giudicata in contrasto con l’ethos comunitario delle tradizioni asiatiche. Si può dire tuttavia che nel contesto dei processi di globalizzazione, che tendono a far prevalere anche in Oriente i principi (e gli interessi) dell’Occidente, l’alternativa degli Asian values sembra senza prospettive di rilievo.
J.N. Stiamo assistendo al mutamento dell’interazione tra le elite e la società. Alcuni esperti dicono che questa interazione è in via di scomparsa, sta diventando meno intensa e meno frequente. È d’accordo? Quali strumenti potrebbero invertire la tendenza?
D.Z. Si può dire che oggi non esistono più all’interno delle democrazie occidentali le élites ideologico-politiche come le avevano concepite autori classici, quali, fra gli altri, Max Weber, Joseph Schumpeter, Robert Dahl, Giovanni Sartori. Se per democrazia elitaria si intende un regime nel quale la maggioranza dei cittadini è in grado di esercitare, sia pure indirettamente, una qualche influenza sui processi decisionali, allora oggi, nel contesto della globalizzazione, anche la “leadership concorrenziale” è cosa del passato. La dottrina della “democrazia pluralistica”, assieme alla cosiddettaresponsiveness e accountability del potere esecutivo, è di fatto sostituita da forme di populismo autoritario che si giova largamente degli strumenti di comunicazione di massa. I partiti politici, operanti come apparati burocratici dello Stato, si accordano fra di loro e con gli altri soggetti della poliarchia corporativa, sottraendosi a qualsiasi efficace regolazione normativa, controllo o sanzione e garantendosi fra l’altro un imponente auto-finanziamento. Basti pensare, per fare un esempio di indubbio rilievo, che in un paese “democratico” come l’Italia, la fittissima rete di appalti pubblici è essenzialmente la casa madre miliardaria della corruzione e della concussione di leader politici, di funzionari pubblici e managers. Personalmente non vedo alcuna possibilità di recupero nel breve periodo di un rapporto fra cittadini ed “élites democratiche” che operino come veicoli delle aspettative popolari e siano sostenute dai propri militanti ed elettori. La globalizzazione ha favorito il costituirsi di regimi che, pur sventolando ancora, opportunisticamente, la bandiera della democrazia, sono in realtà oligarchie elitarie, tecnocratiche e repressive che vivono all’ombra del mercato globale. Sono regimi orientati alla pura efficienza economico-politica, al benessere della classe dominante e alla discriminazione dei cittadini non abbienti e dei migranti provenienti dall’Africa e dall’Asia.
J.N. La società civile è nata dal conflitto con lo Stato che tentava di espandere la propria autorità. Oggi gli Stati stanno diventando globali, stanno cedendo il loro potere a una sorta di Stato mondiale. Anche la società civile sta diventando globale. Che correlazioni esistono fra questi due processi? In che modo lo Stato mondiale e la società civile globale si influenzeranno reciprocamente nel corso di questa trasformazione?
D.Z. La mia opinione è che oggi non esiste e non ci sarà mai uno Stato globale se per “Stato globale” (World state) si intenda una struttura di potere mondiale centralizzato e concentrato in un unico governo, in qualche modo rappresentativo delle aspettative e degli interessi della popolazione mondiale. Uno Stato globale non può che essere uno Stato neo-imperiale dominato dal potere politico, economico e militare di una super-potenza. Nello stesso tempo, non vedo il formarsi di una “global civil society” come qualche autore occidentale ha superficialmente sostenuto. Il mondo è diviso fra un nucleo di grandi potenze, per lo più occidentali, e un alto numero di paesi poveri e poverissimi. Il 20% dei paesi ricchi assorbe il 90% della ricchezza mondiale annualmente prodotta, mentre il 20% dei paesi poveri ne consuma l’1%. E questa tragica situazione si aggrava ogni giorno di più. Si deve inoltre tenere presente il fenomeno del terrorismo: mi riferisco al duplice fenomeno terroristico delle guerre di aggressione (le guerre di aggressione anglo-statunitensi contro l’Iraq, le guerre degli Stati Uniti e della NATO nei Balcani, in particolare contro la Serbia, la guerra tuttora in corso contro l’Afghanistan) e l’inevitabile replica terroristica del mondo islamico (è stato detto che “il terrorista è un terrorizzato”). Il nostro mondo, a partire da Hiroshima e Nagasaki, è un mondo che legittima il terrore, non è certo una global civil society.
J.N. La democrazia come la conosciamo oggi è anche un prodotto dei nuovi mezzi di informazione e delle tecnologie di comunicazione. Questo settore è in continua crescita e gli esperti dicono che assisteremo a sempre nuove forme e strumenti di comunicazione. Pensa che queste scoperte indurranno una ulteriore evoluzione del modello democratico? In che modo?
D.Z. Non ci possono essere dubbi che un ruolo decisivo nella trasformazione della “democrazia” occidentale è stato svolto dai mezzi di comunicazione di massa, in modo tutto particolare dalla televisione. E questo è vero non solo per l’Occidente, ma anche per le vaste aree del pianeta che oggi sono esposte alla pressione della cultura occidentale. Come è noto, gli sviluppi della tecnologia informatica vengono esaltati nel mondo del business multimediale come l’avvento della comunicazione interattiva. Una delle conseguenze positive, si assicura, è l’accrescimento della cultura e della competenza politica e, soprattutto, l’affermarsi di nuove forme di partecipazione popolare. Grazie all’uso di sofisticate apparecchiature elettroniche – teleconferencing, opinion-polling systems, automated feedback programmes, two-way cable television, etc. – i cittadini sono in grado di impegnarsi in un quotidiano bricolage politico. L’agorà elettronica uscirà dal mito e si incarnerà nelle forme di una instant referendum democracy. Si tratta a mio parere di un ottimismo senza fondamenti. Il carattere asimmetrico, selettivo e non-interattivo della comunicazione elettronica non potrà subire in futuro alcuna attenuazione. E non crescerà la capacità degli utenti di selezionare la comunicazione ricevuta, né la loro capacità critica nei confronti dei suoi contenuti. Al contrario, la loro autonomia sarà probabilmente esposta a rischi più gravi poiché le strategie della comunicazione multimediale punteranno sempre più consapevolmente su forme di persuasione ‘subliminale’, a cominciare dalla pubblicità commerciale, dai sondaggi di opinione e dalla propaganda politica. La comunicazione politica, dominata dal codice televisivo del successo, della spettacolarità e della personalizzazione, tenderà a svuotarsi ancora di più dei suoi contenuti argomentativi e razionali e ad alimentare nuove forme di delega plebiscitaria. Usando sistematicamente lo strumento televisivo, i leader politici continueranno a rivolgersi ai cittadini-consumatori esibendo, secondo precise strategie di marketing televisivo, i propri prodotti. Una tele-democrazia dispotica e grottesca è destinata così a convivere con un tele-populismo servile all’ombra del tramonto della democrazia rappresentativa.
J.N. Pensa che internet e i social networks diventeranno un nuovo fattore della democrazia contemporanea, che ne modificherà le caratteristiche? Si creerà un nuovo modello di “uomo sociale”?
D.Z. Per quanto riguarda in modo specifico gli effetti di interazione sociale che si ritiene siano stati prodotti a livello globale dalla rete telematica di Internet, non si può negare che essa è diventata rapidamente uno strumento efficacissimo di informazione culturale, scientifica, economica e politica, oltre che di comunicazione personale. Sarebbe grottesco negarne il grande valore comunicativo ed informativo. E tuttavia, per quanto riguarda in particolare gli effetti di interazione e di integrazione politica che sarebbero stati prodotti sia nell’ambito nazionale sia a livello internazionale, le opinioni sono contrastanti. Ci sono autori – ed io sono fra questi – che sottolineano la crescente specializzazione delle funzioni politiche entro le società minimamente industrializzate e la scarsità delle risorse di tempo, di attenzione e di competenza socialmente disponibili per la partecipazione politica anche sul terreno semplicemente informatico. Ci sono molti dubbi che le tecnologie informatiche possano contribuire ad una diffusione nazionale e tanto meno transnazionale dei valori e delle istituzioni democratiche. La possibilità di prendere decisioni politiche pertinenti dipende assai meno dalla disponibilità di tecniche di comunicazione rapida che non dalla capacità degli attori sociali di controllare e selezionare criticamente le proprie fonti cognitive, in un contesto di generale trasparenza sia dei meccanismi di di emissione delle notizie, sia dei processi decisionali. Non va inoltre dimenticato che le nuove tecnologie della comunicazione hanno notevolmente accentuato le diseguaglianze su scala mondiale. Il cosiddetto global digital divide taglia in due il mondo “globalizzato”. Nei trenta, ricchi paesi dell’OCSE, nei quali risiede meno di un quinto della popolazione mondiale, risulta presente il 95% delle utenze stabili di Internet mentre l’Europa sorpassa di 41 volte l’Africa, che pure ha una popolazione più numerosa di quasi 100 milioni. Complessivamente meno del 6% della popolazione mondiale è connesso alla rete: circa 4 miliardi di persone oggi ne sono escluse. Mentre gli Stati Uniti e il Canada contano assieme circa il 60% dei “navigatori”, l’Africa e il Medio Oriente raggiungono assieme il 2%.
J.N. Che genere di sfide le società multiculturali pongono alla democrazia? Come si trasformano le forme e le procedure democratiche nelle società divise da identità culturali, etniche e religiose differenti? In che modo la democrazia può armonizzarsi con il pluralismo e il multiculturalismo?
D.Z. L’antagonismo fra l’eguaglianza democratica dei cittadini e i “diritti cosmopolitici” dei non cittadini è diffuso in molti paesi del mondo, ma è particolarmente drammatico nei paesi occidentali. La lotta per l’acquisto delle cittadinanze pregiate dell’Occidente è condotta da parte di masse sterminate di soggetti appartenenti ad aree continentali senza sviluppo e con un elevato tasso demografico. Questa lotta assume la forma della migrazione di massa di soggetti molto deboli ma che esercitano, grazie alla loro infiltrazione capillare negli interstizi delle cittadinanze occidentali, una forte pressione per l’eguaglianza. La replica da parte delle cittadinanze minacciate da questa pressione “cosmopolitica” – in termini sia di espulsione violenta degli immigrati, sia di negazione della loro qualità di soggetti civili – sta scrivendo e sembra destinata a scrivere nei prossimi decenni le pagine più luttuose e più squallide della storia politica dei paesi occidentali. È la stessa nozione di cittadinanza che si ritiene sfidata dalla richiesta dei migranti di diventare cittadini pleno iuredei paesi dove vivono e lavorano. Questa richiesta viene considerata da molti come una sfida inaccettabile perché lo stesso rapporto fra “cittadino” e “straniero” verrebbe violata dall’imponenza dei fenomeni migratori e dalla loro oggettiva incontrollabilità e irreversibilità. E si tratterebbe di una sfida dirompente perché, a giudizio di molti, tende a far esplodere le stesse strutture dello Stato democratico e a cancellare l’identità nazionale dei suoi cittadini. Ma a queste strutture i “migranti” rivolgono giustamente la richiesta di un riconoscimento “multietnico” non solo dei loro diritti individuali, ma della loro stessa identità in quanto minoranze caratterizzate da una notevole distanza culturale rispetto alle cittadinanze occidentali. Ma se è vero che queste cittadinanze si giovano ampiamente del lavoro e dei servizi di persone provenienti da paesi che sono vittime della crescente discriminazione internazionale fra un gran numero di paesi poverissimi e un piccolo numero di paesi democratici ricchi e potenti, la sola soluzione possibile è l’apertura culturale, politica e giuridica agli “altri”, come suggerisce Tzvetan Todorov, indipendentemente dalla loro qualità di stranieri.
J.N. Lo scorso settembre la Russia ha ospitato un importante World Global Policy Forum a Yaroslav – un’iniziativa del Presidente Medvedev che ha raccolto alcuni dei più importanti politici ed esperti a livello mondiale. L’argomento principale in discussione era: “Modern State: Standards of Democracy”. Può suggerire un altro tema da discutere a Yaroslav nel 2011? Quali eventi dovrebbero essere trattati nel programma del convegno?
D.Z. Ci sono tre temi che mi stanno particolarmente a cuore e che ho trattato in un mio recente volume: 1. la crisi della dottrina dei diritti umani come ideologia occidentale in declino, a cominciare dalla costante, tragica violazione del diritto alla vita; 2. la trasformazione in corso dei paesi occidentali dalla forma dello Stato democratico a quella di una società repressiva e penitenziaria; 3. il fallimento dell’obiettivo di una pace universale, compito inutilmente attribuito alle Nazioni Unite dalle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica compresa. Mi permetto di segnalare in particolare il tema dell’urgente necessità di una riforma delle istituzioni internazionali che includa anzitutto le Nazioni Unite, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, che fra l’altro sono tutte insediate nel continente americano senza alcuna ragione.
* Fonte: Jura Gentium. Originale in Russian Journal, 19 novembre 2010

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