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Riforma Gelmini (il delirio dell’economista)

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MODELLO IKEA

Il fantasma di una università di classe mascherata da università di qualità

In risposta ad  Andrea Ichino

di Tiziana Terranova*

«L’autonomia, così come essa è tratteggiata nelle politiche sociali ed economiche neoliberiste, è infatti devoluzione della responsabilità e del rischio verso il basso mentre la valutazione, così come essa si va configurando, è meccanismo di controllo dall’alto. Come l’autonomia del lavoratore precario indica semplicemente una nuova condizione di subordinazione senza diritti, così la cosiddetta autonomia delle università in tempi di tagli massicci al finanziamento della formazione e della ricerca è solo il potere di determinare i modi e i mezzi attraverso cui attuare i comandi che arrivano dall’alto». 
L’articolo di Andrea Ichino sul Sole 24 ore dell’11 dicembre 2010, provocatoriamente intitolato Il posto del professore è il tabù da sfatare chiarisce le idee a chi ancora potrebbe pensare che la riforma Gelmini è l’ultimo atto di dismissione dell’università pubblica in una lunga catena di riforme di cui rappresenterebbe l’ultimo definitivo anello. Ichino rende chiaro che la riforma Gelmini, considerata dal punto di vista della razionalità politica che pure l’ha ispirata, è inesorabilmente compromessa da tutte le mediazioni (fondamentalmente con i segmenti più potenti del corpo docente e dell’amministrazione delle università) a cui è stata costretta a sottoporsi. L’articolo di Ichino offre dunque una rappresentazione chiara e lucida del diagramma che ha generato tutte le varie riforme dell’università italiana, e nel suo delirio di fondo, illustra quella che esso considera come il suo telos finale e la sua inevitabile destinazione.

Che ci sia un legame ineludibile, come sostennero Deleuze e Guattari a suo tempo, tra capitalismo e produzione desiderante, cioè tra capitalismo e delirio, è confermato dall’apertura dell’articolo annunciata dallo stesso titolo: «Il posto del professore è il tabù da sfatare». La grande mobilitazione del risentimento populista, che corre sulla cresta di anni di propaganda, è motore fondamentale di quel consenso necessario a sfatare l’ultimo tabù: quello del lavoro ‘garantito’, cioè non ricattabile, che dev’essere inesorabilmente rappresentato come un insopportabile privilegio di fronte alla realtà e normalità del lavoro precario. L’unica uguaglianza accettabile è quella della ricattabilità, della mancanza di diritti, dell’incertezza. Il vero ostacolo alla ‘normalizzazione’ dell’università italiana per Ichino è dunque ‘il posto del professore’, che costituisce un insopportabile livello di rigidità nella gestione della crisi, costringendo le università a gestire le inevitabili, massicce riduzioni di finanziamento, risparmiando sugli altri servizi. Cosa sarebbe possibile se questo insopportabile livello di rigidità potesse essere rimosso, sfatando il tabù della ‘licenziabilità’ del professore, è nientemeno che la vera rivoluzione meritocratica dell’università italiana. Sullo sfondo del discorso di Ichino, nel suo inesorabile accanimento da (professore) economista liberista contro il lavoro, si intravede il fantasma di una università IKEA: immensi spazi liberi, pieni di offerte (formative) da montare in casa, seguendo le istruzioni di appositi foglietti, attraversati da folle di studenti-prosumatori che scelgono i propri corsi e lauree, mentre qua e là, con ansia, si scorge la sagoma solitaria di qualche impiegato-docente-precario, pronto a chiarificare la collocazione di qualche corso non facilmente rintracciabile (e se un giorno le migliaia di prosumatori IKEA e derivati si rendessero conto che non c’è nessuno a sorvegliare le merci?).

Il delirio dell’economista non si ferma qui, ovviamente: dopo aver licenziato i professori improduttivi, bisogna introdurre il numero chiuso e selezionare gli studenti, sfatando il mito demogagico dell’uguaglianza del diritto all’istruzione superiore; infine bisogna arrivare ad un meccanismo di selezione più generalizzato che deve confluire in una università di serie A, dove pochi, ma ottimi ricercatori, insegnerebbe a pochi, ma ottimi studenti, mentre una università di serie B dovrebbe racchiudere, come un unico grande ghetto, quella massa di docenti (sempre licenziabili) non interessati alla ‘ricerca di frontiera’ e quindi pronti ad assumersi un ‘maggiore carico didattico’ da esercitare su una massa di studenti poco meritevoli che in generale non ‘siano interessati a dare il massimo’.

Viene da ripetere qui lo slogan inventato dagli studenti dell’università di Pisa: ma quale eccellenza tra queste macerie.
Quella che ci viene presentata senza vergogna è il fantasma di una università di classe, dove l’enfasi sulla qualità non può non lasciare intravedere un’università dove è il reddito la discriminante fondamentale a garantire l’accesso alla presunta qualità. Dando per scontato che non saranno i finanziamenti pubblici a sostenere l’università di serie A, quali risorse potrebbe essa mobilitare tranne quelle sostanziose tasse universitarie che solo gli abbienti possono permettersi? Quale università potrebbe permettersi di rifiutare l’accesso a chi è disposto a pagare? In ultima analisi, solo gli abbienti sono intrinsecamente esenti dalla selezione del merito, ed è solo chi non può pagare che ha l’obbligo di mostrarsi meritevole per assicurarsi non il diritto allo studio, ma il ‘diritto al credito’, il diritto ad indebitarsi. Di nuovo per citare uno degli slogan della rivolta studentesca del 2010, questa volta quello degli studenti inglesi, quello che ci vuole veramente sono ‘genitori ricchi per tutti’ (‘rich parents for all’).

Ma al di là del fantasma di un’università di classe mascherata da università di qualità evocata da Ichino, molto interessanti ci appaiono anche i meccanismi che già operativamente funzionano nell’università italiana e non solo, e che costituiscono una istanza specifica di un meccanismo generale di governo della società e dell’economia (nella loro crescente indistinguibilità). In verità si potrebbe dire che il processo di precarizzazione o ricattabilità del lavoro vivo è passato tutto attraverso questi meccanismi e procedure. Questi meccanismi sono esplicitamente designati nel binomio ‘autonomia/valutazione’ e costituiscono le procedure pratiche e concrete contro cui ogni movimento di destrutturazione di questa nuova società piramidale e gerarchica deve confrontarsi. L’autonomia, così come essa è tratteggiata nelle politiche sociali ed economiche neoliberiste, è infatti devoluzione della responsabilità e del rischio verso il basso mentre la valutazione, così come essa si va configurando, è meccanismo di controllo dall’alto. Come l’autonomia del lavoratore precario indica semplicemente una nuova condizione di subordinazione senza diritti, così la cosiddetta autonomia delle università in tempi di tagli massicci al finanziamento della formazione e della ricerca è solo il potere di determinare i modi e i mezzi attraverso cui attuare i comandi che arrivano dall’alto. I meccanismi premiali e punitivi che sottintendono il funzionamento del binomio autonomia/valutazione rendono chiaro come essa funzioni come la nuova forma del comando. Chi viene valutato bene è ‘premiato’ con retribuzioni maggiorate, chi viene valutato male è punito con ulteriori tagli fino alla sua definitiva chiusura ed espulsione. Dietro l’impersonalità della valutazione, dunque, noi non possiamo fare a meno di scorgere l’ombra del padrone (e dei tanti padroni e padroncini che come un virus essa riproduce a catena).

Vale la pena dunque di ragionare sul meccanismo della valutazione – un fantasma che viene evocato come una panacea a tutti i mali della scuola e dell’università. Per chi ne ha esperienza diretta, la valutazione, così come essa si esercita attualmente, altro non è che una forma burocratica di controllo indiretto, che detta le modalità e i tempi dell’organizzazione della produzione. Per quel che riguarda il lavoro precario in un contesto privato, la valutazione la fa ovviamente il mercato, che decide per esempio che il docile lavoratore cinese o est-europeo è intrinsecamente più meritevole di lavorare di quello italiano. Lo stesso mercato ‘valuta’ che un dirigente meriti ‘obiettivamente’ di guadagnare un salario cinquecento volte più alto di quello di un operaio.

Nelle aziende pubbliche quali la scuola e le università, invece, la valutazione è la procedura formale che simula il mercato, riproducendo artificialmente la sua ideale efficienza. La valutazione, come assodato ormai dalle esperienze di altri sistemi universitari come quello inglese (descritta efficacemente da Mark Fisher nel suo Capitalist Realism) è pura simulazione burocratica fatta di un’infinita e costante produzione di documenti e tabelle che poco hanno a che fare con il vissuto reale delle università e che servono per lo più a consumare il tempo e le energie di chi ci lavora al solo scopo di mantenerlo in uno stato costante di ansia competitiva. Nel contesto italiano, essa permette una modernizzazione in chiave liberista delle vecchie logiche di controllo baronali sulla spartizione delle risorse negli atenei e nelle scuole. Nel binomio autonomia/valutazione nessuna possibilità è data di invertire la catena del comando che inesorabilmente si esercita con gradi sempre maggiori di violenza dall’alto verso il basso. Come vengono determinati i criteri e quindi i valori che informano il meccanismo valutativo? Come si definisce e misura la produttività del lavoro di ricerca e formazione? Come vengono selezionati i valutatori e chi li valuta? Chi valuta per esempio gli amministratori delle nostre scuole e atenei?

Il problema dunque è quello di rovesciare l’unidirezionalità del dispositivo valutativo in direzione di una nuova pratica partecipata della ricerca e della formazione che vada oltre il meccanismo premiale/punitivo e inventi nuove soluzioni ai blocchi, le difficoltà, le carenze e gli abusi di potere che infestano le scuole e università pubbliche di oggi. Il passaggio obbligato di questa auto-riforma è una de-gerarchizzazione radicale che vada nella direzione opposta delle nuove gerarchie promesse dal delirio economista. E’ possibile inventare modelli e procedure di valutazione partecipata che inventino delle vere soluzioni ai problemi della scuola e dell’università? Come reinventare un’autonomia del governo delle università che si smarchi dallo pseudo-parlamentarismo di consigli di facoltà e senati accademici per accogliere in maniera nuova e costitutiva tutte le componenti che le attraversano? Può l’università diventare incubatore di nuove istituzioni di auto-governo capaci di estendersi ad altre realtà economiche e sociali?

Il delirio dell’economista neoliberista, invece, ci promette che tutti i mali della formazione e della ricerca pubblica verranno risolti non semplicemente ‘privatizzando’, ma soprattutto ‘mercatizzando’. Da trent’anni questo delirio ci ripete come il mercato sia un meccanismo ideale che laddove implementato (anche nella sua forma simulata) produce automaticamente efficienza e qualità. Ignorando i propri fallimenti e le proprie crisi, questo delirio insiste a presentarsi come l’unica realtà possibile in un vuoto di alternative – che vanno disconosciute e represse anche con la forza. Salvato dai governi nazionali che ne hanno socializzato le perdite incrementando il debito pubblico, esso disconosce la drammaticità del proprio fallimento e continua a sostenere che non è ancora avanzato abbastanza, che ancora non gli è stato permesso di manifestarsi nella sua purezza. Se il malato è peggiorato, è solo perché il farmaco non è stato assunto abbastanza a lungo e in soluzioni abbastanza pure. Da trent’anni questo delirio si presenta come il nuovo che avanza scontrandosi con le resistenze di un vecchio mondo che si rifiuta di morire, mentre in realtà è esso stesso che continua a soffocare ogni reale possibilità di rinnovamento. Nel pieno di un’inevitabile crisi di credibilità, colto ormai da un’inesorabile demenza, esso continua ad allucinare attribuendo persino la difesa dello status quo a quelle folle di volti giovani e determinati che non hanno conosciuto nient’altro che questo delirio e che lo hanno già sfiduciato in blocco.

Fonte: Tiziana Terranova

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