Rivolta e rivoluzione
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LA SIMBIOSI
Quasi in risposta a Marco Belpoliti
Il nuovo capitalismo,
il nuovo proletariato.
La crisi cronica e il conflitto
di Moreno Pasquinelli
«La rivoluzione sociale non è quindi dietro l’angolo. La disperazione ribelle avrà per lungo tempo il sopravvento sulla speranza rivoluzionaria. Ma di qui occorre di necessità passare. Stiamo solo ora entrando in un nuovo periodo di conflitti, che saranno segnati da profonde polarizzazioni e da scontri sociali che obbligheranno la rivolta a passare, dalla fase iniziale dell’affermazione di sé, alla sua propria negazione, un aufhebung, per cui questo nuovo proletariato dovrà sbarazzarsi del suo primitivismo politico, ma conservando la sua spinta antagonistica».
«Non nel dolce mormorio delle lodi,
ma nelle urla selvagge del furore,
sentiamo le note del consenso»
[Versi di George Sand citati da Lenin nell’Ottobre 1917]
Complice la calura estiva, la notizia passò quasi inosservata. Il primo luglio scorso il Ministro Tremonti, che la sa lunga, ebbe modo di affermare che «Il volume dei derivati nel mondo è tornato a prima del crollo delle piramidi finanziarie e questo è un fattore di squilibrio che insiste ancora sulle nostre economie». Ed ha aggiunto: «Prima, nel vecchio mondo, per ogni operazione sul prodotto si facevano tre o quattro operazioni finanziarie, ora ce ne sono almeno venti, tutte sviluppate in una logica speculativa e non assicurativa». (1)
La scoperta dell’acqua calda? Mica tanto. La notizia non è solo che passata la buriana del post-Lehman Brothers l’infernale macchina del capitalismo-casinò ha ripreso a girare come prima, più di prima. La notizia è che a dirlo non è qualche “catastrofista”, come i critici annoverano chi scrive, bensì il Ministro dell’Economia di uno dei paesi di punta dell’Unione Europea.
Ma che vuol dire che per «per ogni operazione sul prodotto si facevano tre o quattro operazioni finanziarie, ora ce ne sono almeno venti»?
Capitalismo-casinò
I tecnicismi. Sono in pochi a conoscere e saper decodificare tutti i segreti e le diavolerie su cui poggiano il capitalismo-casinò, il mondo della speculazione finanziaria. Ci sono interi dizionari (per non parlare dei “manuali di tecniche speculative di alta finanza”) ovviamente nella lingua madre dell’Impero, l’americano, per spiegare i sofisticatissimi meccanismi, i trucchi, le tecniche e gli strategemmi, in voga nel mondo dei seguaci di Re Mida, di coloro che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, dalla loro scrivania, armati di potenti calcolatori, sfruttando complessi algoritmi, compiono il miracolo di trasformare il nulla in denaro. Una vera e propria neo-lingua, compresa, a livello mondiale, solo da qualche migliaio di speculatori. Una vera e propria setta.
Non facendone parte, confessiamo che ci capita a volte di non comprendere ogni loro astruseria crematistica. Uno svantaggio? Certo! Ma come affermava Platone, che per una volta aveva ragione, chi si perde nel molteplice non è un vero filosofo, ovvero, chi non afferra l’insieme, chi non riconduce ad unità, non potrà conoscere nulla di ciò che lo circonda.
Tecnicamente parlando, non si capirebbe in cosa consista il capitalismo-casinò prescindendo dai cosiddetti “Derivati”, sofisticatissime operazioni finanziarie di compra-vendita (ne esistono d’ogni tipo —Future, Options, Swap, esotici, strutturati, ecc.— e basati sulle più disparate variabili, dalle oscillazioni dei tassi di cambio fino all’eventualità di una catastrofe naturale). Si tratta in pratica di scommesse (alla voce scommessa: “fare una previsione fra due o più persone, impegnandosi reciprocamente a pagare una data somma, secondo che il risultato dell’evento su cui si discute dimostrerà esatte o inesatte le previsioni degli uni o degli altri”). In soldoni gioco d’azzardo, ma un gioco d’azzardo che ha come oggetto l’economia e il suo andamento.
Tre decisive note a margine:
1) il prezzo di un derivato è stabilito da una formula matematica, ovvero chi gioca coi Derivati si affida a calcoli compiuti grazie ad un algoritmo;
2) I Derivati sono scambiati in borsa ma anzitutto fuori (Over the counter), ovvero su mercati alternativi che corrono sul tempo reale delle reti telematiche e gestiti da istituzioni finanziarie parallele:
3) A quanto ammonta la massa globale di Derivati in circolazione? Il dato è agghiacciante: si parla di 300 trilioni (un trilione=un milione di milioni) di dollari (2) Ora dato che il Pil mondiale, secondo i calcoli del FMI, ammonta a circa 58mila milioni (3), fate voi quante volte la massa di Derivati scambiati in un anno è più grande del Pil (chiedo venia, la mia calcolatrice non ce la fa).
Un dato da tenere bene a mente: sia le banche che le imprese ricorrono all’utilizzo dei Derivati, ovvero si danno al gioco d’azzardo (celebre non solo il caso del fallimento della banca d’affari Lehman Brothers, ma quello, avvenuto ben prima, nel 2001, della multinazionale americana dell’energia Enron).
Sostanzialmente tutto questo vuol dire che sul corpo dell’economia reale, quella che crea ricchezza sociale (nella forma capitalistica s’intende, e quindi vi risparmio ogni giudizio di valore sulla qualità di questa ricchezza), si accaniscono, succhiandogli enormi quantità di plusvalore, le sanguisughe della speculazione finanziaria. Il rischio che vive il capitalismo —e non mi riferisco solo a quello Occidentale in questo caso, poiché le sanguisughe non captano o estorcono il plusvalore solo a Ovest ma a tutte le latitudini— è appunto quello di morire dissanguato. Col rischio che, ove l’umanità non riesca a rifondare su nuove basi il suo modo di produzione (e quindi di distribuzione della ricchezza), essa venga travolta, quantomeno gettata in un periodo storico di convulsioni catastrofiche.
Gli analisti e gli economisti (nonché i politici, come mostra l’affermazione di Tremonti di cui sopra) sono perfettamente consci del problema. Il guaio è che, vittime essi stessi della “grande narrazione” per cui il capitalismo sarebbe eterno, pensano che esso è destinato a trovare da solo la via della salvezza, e quindi non possono trarre le conclusioni logiche dalle analisi in loro stesso possesso, girano in tondo, affogando nell’empiria e nei tecnicismi.
La metamorfosi del capitalismo e la nuova classe dominante
Secondo alcuni assisteremmo ad una specie di contraddizione, in seno al sistema, tra un capitale produttivo e uno speculativo, tra una borghesia vecchio stampo e quella rapace, rentier, che campa di rendita. Per cui sarebbe il caso, per le tradizionali forze della sinistra, che queste si sbarazzino del loro “anticapitalismo d’antan”, per allearsi con ciò che resta della borghesia produttiva, vittima anch’essa del capitalismo-casinò, e quindi ostile ai rentier, alla nuova classe il cui reddito non deriva dall’investire, per valorizzarlo nella produzione, il proprio capitale, ma dal succhiare plusvalore al capitale altrimenti prodotto. La rendita finanziaria, la speculazione, non consisterebbero solo, Marx docet, in meri faux frais per il Capitale, in spese accessorie, ma in vere e proprie estorsioni, del tutto simili ai pizzi mafiosi.
V’è una parte di verità in questa asserzione. Poiché essa sottolinea che il capitalismo occidentale ha da tempo subito una metamorfosi, che siamo già dentro un quadro sistemico post-capitalista, con dinamiche sue proprie e specifiche contraddizioni. Nessuna azione politica che puntasse alla fuoriuscita dal capitalismo può sperare infatti di avere successo senza tenere conto di queste dinamiche e contraddizioni specifiche (che hanno un impatto decisivo su quella che veniva chiamata composizione di classe), ovvero dello stato di crisi cronica in cui è avviluppato il capitalismo-casinò, e di come questa cronicità è destinata a sfociare, a intervalli più o meno regolari, in colossali sconquassi finanziari, e dunque economici.
Ma solo una parte di verità, appunto. L’altra è costituita dal fatto che tra il corpo del Capitale che chiameremo produttivo (ove per Marx produttivo deve intendersi produttivo di plusvalore, non meramente di denaro, anche se è pur sempre in denaro che si cristallizza il plusvalore)e il suo parassita che gli succhia profitto, s’è stabilità una vera e propria simbiosi asimmetrica, tale, comunque, che ove si strappasse via la mignatta, il corpo stesso non potrebbe sopravvivere. Parlano, a favore di questa seconda tesi —la tesi per cui capitale e rendita sono oramai come gemelli siamesi, per cui l’eventuale separazione dei due corpi sarebbe fatale ad entrambi—, una messe incontrovertibile di dati empirici (dati che anche noi abbiamo puntualmente mostrato in questo blog).
Come a suo tempo non tutta l’aristocrazia perì col perire dei rapporti di produzione feudali su cui si basava, dato che una parte cospicua ebbe modo di trasmutarsi in borghesia (portò anzi in dote al capitalismo nascente il denaro che poi si trasformerà in Capitale vero e proprio); così nel periodo che viviamo, gran parte della proto-borghesia imprenditoriale (quella che ha fatto la gloria del capitalismo) è stata sussunta nel capitalismo-casinò, conquista da questa gallina dalle uova d’oro (il potere guadagnare bypassando la fatiche del processo sociale di produzione), si è data insomma alla speculazione essa stessa.
Metamorfosi che aveva intuito per primo, nel 1900, l’inglese Hobson, osservando le conseguenze del nascente imperialismo sulla borghesia inglese. Intuizione di cui Lenin capì le straordinarie implicazioni storiche e politiche (di qui la sua tesi che l’imperialismo era la fase senescente del capitalismo).
Metamorfosi della borghesia che Joseph A. Shumpeter, sulla base dell’evoluzione della società americana e delle conseguenze del sopravvento del capitale monopolistico, confermò nel suo testo del 1942, Capitalismo, socialismo e democrazia, ove teorizzò il fatale declino della vecchia classe dei borghesi-imprenditori, lasciando intendere che avrebbe preso il sopravvento una casta di manager di tipo neo-feudale. Aveva ragione.
Aggiungiamo solo che al vertice di questa nuova classe, in cima, assieme agli aggiotatori, agli speculatori, ai tecnici e ai guru della razzia finanziaria, ci sono proprio questi facoltosi redditieri, capitalisti di nome, feudatari di fatto. Assieme fanno una nuova aristocrazia, un’oligarchia mondiale parassitaria che trova nelle borse, nei mercati paralleli e nelle banche, le sorgenti della sua immensa forza economica, sociale e politica. È quest’aristocrazia che porterà il sistema capitalistico verso l’autodistruzione. Potrà risorgerne? Non è escluso, almeno fino a quando, una forza rivoluzionaria di massa non saprà tagliare la testa del mostro.
Come afferma un adagio popolare: “la prima generazione costruisce, la seconda mantiene, la terza dissipa e distrugge”.
Proletariato vecchio e proletariato nuovo
Come aveva ragione John Kenneth Galbraith quando, nel suo memorabile testo degli anni ’60 La società opulenta, parlava dell’avvento di una “nuova classe sociale di massa” che stava schiacciando in un angolo il proletariato classico, ovvero i burocrati, gli impiegati, gli intellettuali, i funzionari del capitale d’ogni ordine e grado.
Marxisticamente parlando, uno sconvolgimento storico della “composizione di classe”, per cui sì la maggioranza dei cittadini campava vendendo la sua forza-lavoro, ma al reddito percepito per le loro prestazioni non necessariamente corrispondeva creazione di plusvalore, il quale solo giustifica un rapporto di sfruttamento. Dovessimo semplificare: gran parte dei lavoratori dipendenti, nella Società opulenta, consiste (consisteva per meglio dire) in una moltitudine di funzionari del capitale, funzionari di ogni ordine e grado: tecnici, intellettuali, burocrati, amministratori, giornalisti, politicanti ed infine sindacalisti. Visto che vero è quanto sosteneva Galbraith, che due erano i titoli per accedere a questa nuova classe di funzionari e di servi del Capitale: l’istruzione e l’abilità politica.
Questo processo, iniziato in sordina nelle roccaforti anglosassoni del capitalismo, anzitutto negli USA, si è esteso a macchia d’olio dopo la seconda guerra mondiale agli altri paesi imperialistici. I grandi conflitti degli anni ’60 e ’70, segnati dal protagonismo anticapitalistico dell’operaio della fabbrica fordista, hanno accelerato la mutazione sociale del “lavoro dipendente”, per molti versi pilotato dallo stesso Capitale, sorretto a sua volta da politiche statali di carattere strategico —welfare, crescita abnorme dell’amministrazione pubblica, l’uso sociale corruttivo e patogeno del debito pubblico, hanno fatto il resto.
E’ questa mutazione che spiega la sconfitta del memorabile ciclo di lotte di classe degli anni ’60 e ’70. E, se proprio dobbiamo dirla tutta, è questa stessa mutazione che sta alla base dell’egemonia della nuova classe dominante, dell’implosione del movimento operaio e quindi del crollo irreversibile della sinistra tradizionale,. Chi pensa che questo crollo sia da addebitare anzitutto ai “dirigenti traditori”, dovrebbe io penso, e non certo per essere indulgenti con quei dirigenti, effettivamente “traditori” (gli “scienziati” mi perdonino questa “concessione al moralismo”), capovolgere il rapporto causa-effetto.
Ma questa è roba vecchia. Di acqua ne è passata sotto i ponti. E’ almeno un decennio che questo neo-sistema manifesta falle d’ogni genere. Il crollo del 2008, la recessione in cui è entrato l’Occidente, sono solo le ultime per quanto eclatanti conseguenze. Il capitalismo-casinò ha fatto piombare la società in una crisi cronica, irreversibile, da cui non si esce senza rotture radicali.
Nel frattempo l’onda lunga della cetomedizzazione si è esaurita e sta lasciando il posto alla ri-proletarizzazione. In seno al marasma, sta prendendo forma un nuovo proletariato, nuovo per le sue caratteristiche genetiche, nuovo per la sua fisionomia, diverso dal vecchio per le modalità che usa per far sentire la sua voce, per le modalità con cui solo può manifestare la sua natura. Privo di memoria storica, privo di ogni rappresentanza politica e sindacale, privo di avanguardie che abbiano titolo ad indicare la strada, e privo anche di fiducia nelle proprie capacità di sovvertire l’ordine di cose esistente, privo del tutto d’ogni visione progressista del mondo. Ma questo nuovo proletariato è privato anzitutto, contrariamente alla generazione precedente, di un diritto certo ad un’esistenza degna di essere vissuta.
Questo nuovo proletario è dunque l’incarnazione stessa della più assoluta privazione. È una forza negativa, obbligata alla ribellione sociale, alla rivolta come modus essendi e operandi. I segni sono sotto gli occhi di tutti: da Parigi ad Atene, da Roma a Londra.
La rivoluzione sociale non è quindi dietro l’angolo. La disperazione ribelle avrà per lungo tempo il sopravvento sulla speranza rivoluzionaria. Ma di qui occorre di necessità passare. Stiamo solo ora entrando in un nuovo periodo di conflitti, che saranno segnati da profonde polarizzazioni e da scontri sociali che obbligheranno la rivolta a passare, dalla fase iniziale dell’affermazione di sé, alla sua propria negazione, un aufhebung, per cui questo nuovo proletariato dovrà sbarazzarsi del suo primitivismo politico, ma conservando la sua spinta eversiva.
Ci piace pensare che l’epoca delle rivolte nella quale siamo entrati, porti in grembo la rivoluzione, poiché sappiamo per certo che essa non è mai stata accudita dal riformismo, né che questa società possa salvarsi con una indolore cura omeopatica. E siccome ci piace pensarlo —ovvero immaginare che il corso della storia non si né predeterminato né in balia del caso, ma che esso possa essere invece determinato dall’azione degli uomini—, sappiamo che nessun cambiamento rivoluzionario potrà darsi se esso non sia prima avvenuto nel campo del pensiero stesso. Non si tratta dunque di affidarsi alla rivolta, ma di viverla, immettendo in essa, ove se ne abbia la capacità, quelle idee politiche nuove che, fecondando, permetteranno ad essa di compiere il salto verso la rivoluzione sociale.
Note
(1) Bluerating, 2 luglio 2010
(2) Emilio Girino, I contratti derivati, Giuffrè Editore. Milano 2010
(3) Per l’esattezza: 57.843.37657.843.376 (World Economic Outlook Database, edizione ottobre 2010)