RIVOLTA VERSUS RIVOLUZIONE?
Parigi 2005 |
Inizia l’età della rivolta»
Con il crollo delle ideologie le battaglie politiche lasciano il posto al trionfo della rabbia
di Marco Belpoliti*
Atene 2009 |
Roma 2010 |
«I ragazzi che corrono con caschi e scudi per le strade, che salgono sui monumenti, che appaiono e scompaiono nelle banlieue, dando fuoco ad automobili e bidoni della spazzatura, mostrano l’esistenza di un campo di forze che sfugge alle categorie politiche tradizionali, al marxismo e al post-marxismo, oltre che alle teorie neo-liberali. La rivolta accade, alla stregua di un evento artistico, di una manifestazione momentanea, di una performance. Non la si può rappresentare né in forma politica né spettacolare; è un accadimento estatico, più vicino alle forme religiose, alla festa, che non alle strutture della rappresentazione politica, quali un partito o un parlamento: vive, non si rappresenta. La società dello spettacolo che ha dominato negli ultimi vent’anni, realizzando la profezia di Guy Debord, ora ha davanti a sé una serie di accadimenti non catturabili nelle forme dello spettacolo mediatico».
A noi piace pensare che nessuna rivoluzione nasce dal nulla, che essa matura, e si fa le ossa, proprio dopo una catena di rivolte o, come ebbe a dire Mao, “La vittoria è il frutto di una serie di sconfitte tattiche”.
Dopo la fine delle ideologie, dopo la caduta del Muro di Berlino e il trionfo del pensiero unico, in Occidente come in Oriente, a New York come a Shanghai, la rivolta sospende il tempo storico e crea l’istantaneo; è il trionfo del presente contrapposto al futuro. Non si attende più il giorno del compimento del lungo processo rivoluzionario. La rivolta instaura un tempo estatico, scrive Pietrandrea Amato, uno dei teorici delle nuove rivolte metropolitane, il qui e ora. Walter Benjamin racconta come nel corso della Comune di Parigi i rivoltosi sparassero contro gli orologi, simbolo del tempo scandito dal progresso, dalla disciplina del lavoro. La rivolta non prevede, ma vive nel subitaneo; non presuppone neppure una classe sociale che prenderà il potere, ma solo individui atomizzati, che nel corso delle insurrezioni spontanee, non preparate e contagiose, diventano una forza provvisoria. Se le rivoluzioni coltivavano il sogno dell’assalto al Palazzo d’Inverno, conquista del centro simbolico del potere, la rivolta avviene in modo molecolare con l’intento di condizionare materialmente l’andamento normale delle cose.
Dopo la rivolta nulla è più come prima. Per i suoi teorici – Paolo Virno, uno dei filosofi italiani oggi più citati nel mondo, ma anche i francesi Alain Badiou e Jacques Rancière – la rivolta è l’analogo della catastrofe, del collasso cui ci ha abituato il nuovo capitalismo finanziario, l’unica risposta possibile a una società che non sembra più avere nessun fondamento certo, nessuna teoria con cui giustificare il proprio dominio, se non la coercizione, l’uso della forza o la seduzione del consumo. Viviamo nell’epoca del disastro, come aveva intuito alla metà degli Anni Sessanta Susan Sontag.
La rivolta è figlia della crisi della democrazia rappresentativa che in Occidente, per cause complesse, sembra aver perso la propria funzione storica. I rivoltosi, mossi da ragioni spesso differenti, mostrano nelle periferie urbane francesi come al centro di Roma, nelle strade di Atene come nei paesi del Napoletano, l’emergere di una politica che si pone al di là del sistema che oggi la rappresenta: sono l’espressione di una caotica e spontanea volontà di vivere, opposta e simmetrica a quella che in Italia domina la scena politica maggiore. Pierandrea Amato in «La rivolta» (Cronopio), pubblicato di recente, scrive che la rivolta è un vento che porta con sé la propria auto-disintegrazione.
I ragazzi che corrono con caschi e scudi per le strade, che salgono sui monumenti, che appaiono e scompaiono nelle banlieue, dando fuoco ad automobili e bidoni della spazzatura, mostrano l’esistenza di un campo di forze che sfugge alle categorie politiche tradizionali, al marxismo e al post-marxismo, oltre che alle teorie neo-liberali. La rivolta accade, alla stregua di un evento artistico, di una manifestazione momentanea, di una performance. Non la si può rappresentare né in forma politica né spettacolare; è un accadimento estatico, più vicino alle forme religiose, alla festa, che non alle strutture della rappresentazione politica, quali un partito o un parlamento: vive, non si rappresenta. La società dello spettacolo che ha dominato negli ultimi vent’anni, realizzando la profezia di Guy Debord, ora ha davanti a sé una serie di accadimenti non catturabili nelle forme dello spettacolo mediatico.
Quello che in definitiva la rivolta destruttura è l’idea stessa dell’identità politica. Il Noi appare e scompare, e sospende il tempo storico a favore di quello che i Greci chiamavano Kairos: il giusto istante, il colpo d’occhio, quello in cui l’atleta compie la mossa giusta, supera l’avversario, taglia il traguardo. Dobbiamo prepararci a vivere in un tempo diverso da quello che ha segnato le vite dei nostri padri e nonni, un tempo che non ha un’unica direzione, o una destinazione prefissata, ma che accade e insieme collassa, che si mostra e si sottrae. L’Homo seditiosus è il campione di una umanità che scende in piazza oggi, ma anche domani e dopodomani, per realizzare «un’arte senza opera».
Fonte: LA STAMPA del 16 dicembre 2010