ALGERIA: LO SPETTRO DELLA RACAILLE
Parigi, novembre 2005. Atene dicembre 2008. Algeri 2011 La gioventù senza futuro si ribella…. |
«Non fidatevi delle apparenze, quelli al mattino si riposano, la sera si scaldano e la notte mettono tutto a fuoco», spiega il taxista, sempre sul chi vive mentre guida per la capitale. «Quelli» sono i giovani, quasi tutti tra i 15 e i 20 anni, che da qualche giorno hanno gettato l’Algeria nella rivolta e si accaniscono con una rabbia immensa sugli edifici pubblici come su quelli privati. La mattina di venerdì 7 gennaio era stata effettivamente molto calma, così da indurre a credere che il deflusso fosse cominciato. I timori di vedere gli islamisti recuperare a sé il movimento, col favore della preghiera del venerdì, si rivelavano privi di fondamento.
Nella piccola moschea dei Bananiers, quartiere proletario alla periferia di Algeri, come praticamente in tutte quelle del Paese, l’imam era stato fermo nella denuncia dei casseur, evocando però «l’imperativo di giustizia» come antidoto. Il suo messaggio era rivolto soprattutto ai genitori. «I rivoltosi del 2011 non sono figli della moschea, sono i figli del nulla», confermava Tayeb, professore di educazione fisica. Il tassista non aveva torto. Verso le quattro del pomeriggio la calma, che era prevalsa fino ad allora, viene rotta. Giovani in tenuta sportiva, spesso col volto coperto dal passamontagna – i poliziotti filmano i contestatori -, muovono dalle case popolari dei Bananiers verso le grandi torri, dove gli algerini della classe media hanno acquistato appartamenti signorili con formule agevolate.
Piccoli proprietari che agli occhi dei giovani delle bidonville intorno sembrano appartenere a un altro mondo. Tayeb, l’insegnante, che si sente più vicino all’«opposizione», dice di aver sentito una «sorta di odio di classe» in questi giovani che considerano tutti quelli che possiedono una casa o una macchina come appartenenti all’altro campo. «Il peggio è che questi giovani non hanno nulla da dire, non fanno alcun discorso, in loro c’è il vuoto. Ma neppure lo Stato ha qualcosa da dire loro», aggiunge, mostrando con un gesto la televisione.
Dal decimo piano, dove si trova l’appartamento di Tayeb, si possono vedere questi giovani prepararsi a una nuova giornata di «guerra». Si piazzano sulla passerella per i pedoni, senza frenesia, con la loro provvista di pietre, pronti a venire alle mani. Non occorre aspettare molto. Passa un’auto blindata della polizia, soprannominata «lo stivale» per via della sua forma. Lì si abbatte una prima pioggia di pietre. Calmissimi, i poliziotti si fermano più lontano, attraversano la strada, lanciano gas lacrimogeni.
I giovani si disperdono e tornano a riunirsi un po’ più lontano. Qui, ai Bananiers, c’è la sede dell’Ispettorato del lavoro, l’unico ufficio pubblico del quartiere: sembra essere quello il loro bersaglio. Qualche chilometro più a Est, nella località costiera di Bordj Al-Kiffani (l’ex Fort-de-l’Eau dei tempi della colonizzazione francese), la rottura tra i giovani della banlieue e la gente della città è netta. Gli abitanti di Bordj Al-Kiffani, la cui arteria principale è stravolta dal cantiere del tram, hanno deciso di proteggere la loro città e di supplire alle forze dell’ordine, completamente travolte.
La «minaccia» per gli abitanti viene dalle bidonville di Beni Mered e di Bateau-Casse a Est, e dal quartiere popolare dei Bananiers a Ovest. Venerdì la città, assediata dai rivoltosi, meritava bene il suo nome di «Forte». Centinaia di giovani dai 25 ai 35 anni, cioè un po’ più vecchi dei rivoltosi, vivono al ritmo delle voci sui movimenti del «nemico». «Non li lasceremo certo distruggere la posta o le scuole, saremmo noi a perderli, non certo il potere.
Il presidente Bouteflika non ha bisogno di andare alla posta», spiega un guardiano improvvisato della città. Qualche minuto più tardi gli abitanti arrivano appena in tempo per impedire ai rivoltosi di devastare il bazar, un ampio centro commerciale di proprietà privata. Quelli però riorganizzano continuamente l’assedio della città, attaccano le auto di passaggio, saccheggiano i negozi. La strada che porta dall’aeroporto a Bordj Al-Kiffani e Ain Taya è chiusa. Sui cavalcavia ci sono ragazzi che lanciano pietre contro tutto ciò che passa.
Spesso in silenzio, a volta salutando la squadra locale di calcio. Duecento metri più in là poliziotti in tenuta antisommossa si nascondono dietro i veicoli blindati e di lì lanciano gas lacrimogeni. A differenza delle rivolte dell’ottobre 1988 (quasi cinquecento morti), le forze di sicurezza ora agiscono con prudenza, facendo di tutto per evitare perdite di vite umane. All’inizio della sera, rivoltosi riescono a penetrare nella città da Nord-Est. Un faccia a faccia teso si instaura con gli abitanti che hanno dato man forte ai poliziotti. Volano gli insulti.
«Vigliacchi, non valete nulla, lecchini di stivali di Stato!». Alla fine vengono respinti e ricacciati in periferia. Un poliziotto è ferito alla testa. Venerdì Bordj Al-Kiffani ha evitato il peggio. In altri quartieri della capitale prevale lo stesso riflesso di protezione degli edifici pubblici. A Diar Al-Djema, vicino a Al-Harrach, è scoppiata una rissa tra gli abitanti che avevano deciso di difendere il loro ufficio postale. Ai Bananiers, l’Ispettorato del lavoro non resiste all’assedio. Cade, e gli uffici vengono saccheggiati. Il primo morto è stato venerdì a M’sila, nell’Est dell’Algeria: un ragazzo di 18 anni, colpito da una pallottola mentre era impegnato nell’assedio al municipio».