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L’ACCORDO DI MIRAFIORI PUNTO PER PUNTO

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Prime riflessioni su “LA FABBRICA ITALIA”

di Carlo Guglielmi*

Rispetto al primo accordo di Pomigliano, quello di Mirafiori del 23 dicembre si presenta straordinariamente più completo ed interessante. Si passa infatti da un testo di due paginette in 16 punti ad un vero e proprio contratto collettivo che – con gli allegati – giunge a circa 100 fogli. Non a caso pressochè il medesimo testo è stato immediatamente trasportato a Pomigliano il successivo 29 dicembre —ma non sottoposto a voto, evidentemente ritenendo le parti che con il precedente referendum si fosse consumato definitivamente ogni rito democratico essendo da tale momento in poi nell’integrale ed esclusiva potestà dei firmatari del primo accordo introdurre ogni innovazione. 
Nell’accordo per Mirafiori sono rinvenibili le descrizioni di due fasi che pare utile affrontare separatamente:

a. quella transitoria sino all’avvio dell’attività produttiva della new.co

b. quella successiva e definitiva .

A.

La fase transitoria parte il 14 febbraio 2011 con “la cassa integrazione guadagni …….per tutto il personale .. per la durata di un anno” (art.7), rispetto a cui l’azienda e i firmatari precisano (a scanso di equivoci) che “non sarà previsto e richiesto a carico Azienda alcuna integrazione o sostegno al reddito sotto qualsiasi forma diretta o indiretta” e ciò anche durante i programmati corsi di formazione “per preparare i lavoratori e metterli in condizione di operare nella Joint Venture” (art.8).

Il primo aspetto assai rilevante è notare come la Cassa integrazione non viene chiesta per la annunciata ristrutturazione, di cui per altro nell’intero accordo non vi è traccia essendosi al riguardo le parti limitate ad allegare un generico comunicato stampa Fiat ove si fa riferimento ad un “investimento previsto” . Al momento della validazione referendaria l’accordo sarà vincolante per i lavoratori ma non certo per l’azienda visto che mai essa nel testo si obbliga a detto investimento e mai l’applicazione delle norme viene condizionata alla sua effettiva attuazione.

Ed allora se non si fonda su rilancio dell’azienda, volutamente tenuta fuori dal perimetro dell’accordo, su cosa si impernia tale prima fase di ristrutturazione? La risposta ce la da lo stesso punto 7: e cioè su “la grave crisi che ha interessato e continua ad interessare il mercato dell’auto” a cui si aggiunge anche un non meglio precisato “evento improvviso ed imprevisto”, che un lettore malizioso (in assenza di migliore specificazione) non potrebbe che individuare nella decisione di Cisl, Uil e Confindustria di aderire festosamente il giorno prima di Natale al medesimo testo che avevano ritenuto inaccettabile appena tre settimane prima.

Chiarito il destino delle intere maestranze Fiat per l’intero 2011 – con piccole eventuali eccezioni per il solo personale che potrebbe essere richiamato in servizio per produrre, in caso di richieste, i modelli “Fiat Idea, Lancia Musa e Alfa MiTo” (presumibilmente inesistente, almeno per i primi due modelli praticamente scomparsi dal mercato) – viene affrontato il dopo con una dichiarazione davvero sorprendente: il personale verrà assunto dalla Joint venture “senza l’applicazione dell’art. 2112 c.c. in quanto nell’operazione societaria non si configura il trasferimento di ramo d’azienda” (art. 10, Regolamentazione per la Joint Venture). Per non tediare il lettore è sufficiente rilevare come la nozione di “trasferimento di ramo azienda” afferisce ad un qualsivoglia evento in cui vi sia il mutamento della titolarità di un’un azienda o di una sua parte (in questo caso lo stabilimento di Mirafiori) con conservazione della sua identità (in questo caso totale rimanendo inalterato lo stabilimento, il personale, l’attività merceologica, il marchio e il capitale di riferimento della holding); e l‘articolo 2112 c.c. – che recepisce tre successive Direttive Europee – è proprio quella norma del nostro codice civile che prevede come in tali casi il rapporto dei lavoratori prosegua con la nuova proprietà dell‘azienda automaticamente e con conservazione di tutti i pregressi diritti di cui risponde anche il nuovo acquirente. Per quanto male si voglia pensare di Marchionne e dei suoi consulenti (nessuna colpa davvero si può dare infatti ai sindacati “complici” non avendo essi concorso a scrivere o modificare neppure una virgola) non si può supporre che non sappiano che un accordo sindacale non possa derogare ad una legge (o almeno per ora, essendo tale potestà espressamente prevista da Sacconi nella sua bozza di “statuto dei Lavori” presentata alle parti sociali lo scorso novembre). Ed allora la mente non può che correre all’unico caso nella storia della ristrutturazione aziendale in Italia ove un’azienda è stata ceduta senza l’applicazione dell’art. 2112 c.c. ovverosia l’Alitalia, modello prototipico a cui l’intero accordo sembra ispirato (d‘altronde, ricordiamo a noi stessi, Colaninno per D’Alema Presidente del Consiglio era una “capitano coraggioso” come Marchionne era “un borghese illuminato”per Bertinotti Presidente della Camera). Ed allora c’è da chiedersi il perché di tale affermazione, facendosi aiutare da alcuni interessanti indizi:

a. come si è detto la società il 14 febbraio sostanzialmente chiude per “la grave crisi che ha interessato e continua ad interessare il mercato dell’auto” ;

b. il personale poi dovrebbe (il perché dell’uso condizionale del verbo lo spiegheremo tra poco) essere riassorbito dalla futura joint venture Fiat- Chrysler. Ma con quali mansioni? Le stesse che svolgeva precedentemente penserà il lettore ingenuo. Ma non è proprio così perché esse potranno essere assegnate “anche sulla base di quanto previsto dall’art. 4 comma 11 L.223/1991” (art. 10 dell’accordo) e qui va ricordato come tale comma di tale articolo di tale legge è quello che prevede come in caso di “LICENZIAMENTO COLLETTIVO” sia possibile demansionare permanentemente i dipendenti se ciò è ritenuto strumentale al mantenimento dell’occupazione. Ed ecco come l’accordo che – pur a fronte di dolorosi sacrifici – per i nostrani riformisti ha l’indiscutibile pregio del rilancio dell’azienda e dell’occupazione non obbliga la Fiat ad alcun investimento e prevede invece l’apertura dei licenziamenti collettivi.

c. E però, sempre il riformista, potrebbe ribattere che certo la preannunciata dequalificazione è un ulteriore boccone amaro ma comunque il bene prevalente della tutela del posto è comunque protetto. Ma ancora una volta – purtroppo – pecca di ottimismo: l’accordo, infatti, MAI dice che TUTTI i dipendenti saranno riassorbiti ma solo che “il fabbisogno degli organici della Joint Venture sarà soddisfatto in via prioritaria con l’assunzione del personale proveniente dagli stabilimenti di Fiat Group Automobiles s.p.a. di Mirafiori” (si v. sempre art. 10). Certo in ragione del comunicato stampa Fiat allegato all’accordo, la joint venture avrà bisogno di talmente tanto personale per giungere ai 6 milioni di auto da produrre l’anno previsti in base al piano industriale (partendo dai circa 3,5 odierni) che addirittura occorrerà procedere a assunzioni addizionali (e l’accordo, sempre al punto 10, già precisa che “eventuali ulteriori fabbisogni di organico saranno soddisfatti con il ricorso a contratti di lavoro somministrato, contratti a termine, apprendistato professionalizzante”, tanto per chiarire le prospettive dell’occupazione giovanile dell’area). Ma nella remota ipotesi che nel corso del 2011 la crisi dell’auto dovesse proseguire (o, addirittura, aggravarsi) e l’assenza di nuovi modelli in uscita dovesse ulteriormente peggiorare la performance del gruppo Fiat rispetto ai competitori, nessun passo dell’accordo prevede che dopo i licenziamenti collettivi vi sarà per tutti la riassunzione.

Fatta questa precisazione si torna allora alla domanda da cui si era partiti: perché l’accordo mente quando afferma che non si applica l’art. 2112 c.c..? L’unica risposta possibile è che lo fa per costringere i dipendenti – messi di fronte ai licenziamenti collettivi e senza alcuna guarentigia contrattuale (che addirittura neppure prevede che la riassunzione debba avvenire a tempo indeterminato e senza patto di prova, clausola che prevedibilmente sarà inserita solo nella successiva stesura del contratto collettivo) – a firmare nuovamente il contratto, atto che la legge ritiene non dovuto in questi casi proprio grazie all’operatività del suddetto art. 2112 c.c. che prevede il passaggio automatico dal vecchio al nuovo datore. E perché, allora, occorre far firmare nuovamente un contratto di assunzione a lavoratori già dipendenti Fiat da decenni? La risposta ce la da l’art.2 dell’accordo ove afferma che “le clausole del presente accordo integrano la regolamentazione dei contratti individuali di lavoro …sicchè la violazione da parte del singolo lavoratore di una di esse costituisce sanzione disciplinare”; il contratto individuale che i lavoratori dovranno firmare noverà (e cioè estinguerà e sostituirà) il precedente, conterrà l’intero accordo e farà sì che come Bonanni e soci hanno aderito alle richieste di Marchionne il singolo dipendente aderirà alla adesione di Bonanni, vi sarà quindi coincidenza perfetta tra contratto collettivo, contratto individuale e comando di impresa in base alla quale la volontà del lavoratore sarà formalmente scolpita nell’intero prosieguo del rapporto: egli cioè sarà volontariamente chiamato a dichiarare di non avere volontà.

Ma questo aspetto è il punto cerniera tra la disciplina transitoria e quella futura e permanente che va quindi ora affrontata

B.

L’analisi di tale fase necessita di un cappello (a cui ci si proverà ad ispirare per trarre alla fine delle provvisorie conclusioni). Francesco De Sanctis, nel suo “Epistolario” (1856-1858), confrontandosi con la storia affermava come “il contenuto non ritorna, progredisce sempre; le forme soggiacciono (invece n.d.a.) alla legge del ritorno..” (in Opere, Torino, 1965, vol XIX, p. 403); in altre parole nella storia le forme si ripetono sempre mentre i contenuti sono sempre in qualche misura nuovi. E a tale regola non sfugge l’accordo di Mirafiori che mostra una forma (un primo strato) assai vecchia e trita che deve essere letta e defalsificata innanzi agli (auto)proclami di rivoluzionarietà. Ma contiene anche un fondo (e non potrebbe che essere altrimenti) di novità che pure va colto per una complessiva comprensione.

La prima notazione da fare è che l’accordo di Mirafiori non ha pressoché nulla a che vedere con la “produttività” (quanto meno direttamente). Il punto più estremo, infatti, della narrazione “produttivista” è la creazione di 18 turni settimanali con turnazione su sei giorni settimanali a scalare su base trisettimanale e con giorno di riposo settimanale al secondo cambio turno limitato tra le 22 del sabato sera e le 22 della domenica (art. 1 della regolamentazione per la Joint Venture). Ebbene tale turnazione – certamente penosissima – già è stata a lungo in vigore presso lo stabilimento di Melfi, a sintetica e definitiva riprova del fatto che non occorreva certo uscire dal c.c.n.l. metalmeccanici per ottenere tale risultato. A ciò va aggiunto come tale turnazione sia già fallita proprio a Melfi e presumibilmente avrà ben poca vita anche a Mirafiori, parendo difficile immaginare che occorrerà mandare a regime una tale necessità di saturazione degli impianti. Ed ancora non certo nel solco della produttività cinese si colloca l’altra previsione utilizzata dai primi commentatori per sottolineare gli aspetti incrementali della produttività: e cioè la previsione di un ulteriore possibile orario di 10 ore giornaliere. Sul punto chi scrive con molto rispetto non si pronuncia (solo coloro che davvero stanno alla catena sanno se possono e vogliono reggere 10 ore) ma ricorda come l’orario complessivo rimane pur sempre di 40 ore settimanali e il sacrificio dell’allungamento comporta il beneficio (alla cui comparazione – si ripete – sono chiamati i soli operai) di tre giorni di riposo settimanali di cui due necessariamente consecutivi ed uno prevalentemente coincidente con la domenica. Quanto alla soppressione di 10 minuti al giorno di pause chi scrive non ha gli strumenti per valutare se il nuovo sistema ergonomico ERGO – UAS adottato davvero (come proclama la Fiat) renderà proporzionalmente meno penoso il lavoro, ma sa che il sapere operaio è capace di riprendersi da solo nella prassi quotidiana i 10 minuti rubati.

Ed allora quale è il punto dell’accordo? Il punto non è la maggiore attività prevista ma l’acquisto potenziale dell’intera vita; esso non disciplina cioè la normale attività dello stabilimento (che, presumibilmente, cambierà in misura non eccessiva) ma lo straordinario potere unilaterale dell’azienda di gestione dei picchi. L’aspetto infatti davvero eccezionale (questo sì “cinese“, ed anzi ancora più) è il combinato disposto tra tali possibili turni e l’avvenuta estensione dello straordinario a 200 ore annue di cui 120 comandabili unilateralmente dall’azienda (art. 2 della regolamentazione per Joint Venture). Se si pone a mente che tale orario straordinario va espletato “a turni interi” ciò significa che può cadere (in caso di turnazione a sei giorni settimanali) nel solo giorno di riposo e quindi con la possibile prospettiva di prevedere ben 15 settimane annue (quasi quattro mesi) in cui l’azienda potrebbe obbligatoriamente far lavorare i dipendenti 7 giorni su sette, che potrebbero giungere a ben 25 settimane annue con l’accordo dei sindacati firmatari E a ciò va aggiunta la gestione dei “recuperi produttivi”, prevedendo l’accordo all’art. 9 che “le perdite della produzione non effettuata per causa di forza maggiore ….potranno essere recuperate collettivamente, a regime ordinario, entro i sei mesi successivi nelle giornate del sabato…o nei giorni di riposo individuale per lo schema a 18 turni”. Certo non accadrà, ma la stessa notazione che un accordo preveda in Italia nel 2011 la possibilità che operai alla catena di montaggio possano lavorare sei mesi l’anno su turni senza neppure il giorno di riposo settimanale dà la reale dimensione della posta in gioco: non come si vuole organizzare la produzione ma lo smisurato potere sui corpi dei lavoratori che Marchionne ha preteso e i sindacati complici hanno concesso. Ma ancora, fermandosi a questo, non si comprenderebbe la ragione dell’accordo: un bisogno di straordinario implica un picco alto della produzione e quindi delle vendite e degli utili, fase in cui – stante anche il modestissimo livello retributivo operaio – è davvero semplice trovare un accordo con la forza lavoro basato su ragionevoli incentivi e maggiorazioni le cui ricadute sui costi sarebbero presumibilmente modeste essendo stato lo stesso Marchionne a dichiarare che il costo del lavoro incide sul prezzo dell’auto finita solo per il 7 %.

Ed allora la risposta va trovato non nel nuovo ma nel vecchio, che nulla cioè ha a che vedere con il Marchionne canadese ma con quello abruzzese e con la cultura Fiat che parla nell’accordo assai più che non la cultura Chrysler. Ed infatti da sempre la Fiat, per affrontare le sue ristrutturazioni, è partita da una posizione che si potrebbe definire di “odio di classe” e cioè dal presupposto che la ristrutturazione non potesse che passare dalla sconfitta del sapere operaio e delle sue capacità di organizzazione.

Per stare all’ultimo trentennio ricordiamo come Romiti abbia tentato di uscire dalla crisi degli anni 70 inventando all’inizio del decennio successivo la “fabbrica senza operai”, introducendo cioè un livello elevatissimo di automazione che proprio a Pomigliano (allora Alfasud s.p.a.) ha mostrato il suo epocale fallimento: senza mani umane le macchine non funzionano! Ed allora il successivo tentativo è stato il “green field” ovverosia la scelta per la costruzione dell’ultimo e più moderno sito industriale italiano del nulla assoluto di Melfi, distante da ogni paese e da ogni linea di comunicazione (l’autostrada dista diverse decine di chilometri da percorrere su una piccola strada statale e una recente inchiesta ha dimostrato che il personale pendola di media tre ore al giorno per il tragitto da casa al lavoro e ritorno). La scelta di Melfi fu espressamente giustificata come la necessità di un nuovo inizio lontano da ogni sedimento di cultura operaia, in una terra vuota e popolata solo da sparsi pastori e agricoltori che mai aveva conosciuto cultura industriale. Ed anche tale strategia è fallita con la straordinaria lotta del 2004 contro la cd “doppia battuta” (i due turni consecutivi notturni) e la gestione disciplinare dei rapporti di lavoro. La scelta di una new.co. fuori dal contratto collettivo e con l’incorporazione nel contratto individuale dell’assolutizzazione del potere d’impresa sui tempi del lavoro si pone allora in assoluta continuità, non c’è nulla di nuovo nella “forma” ma solo il condizionamento di una antica cultura antioperaia che non muore. Al riguardo si rilevi la gustosa circostanza che dalle previsioni definite “antiassenteismo” (in realtà null’altro che il progressivo mancato pagamento dei primi 2 giorni di malattia di cui all‘art. 4) sono graziosamente esclusi gli impiegati che peraltro – a fronte della costruzione di turnazioni inumane per gli addetti alla catena – vedono invece la introduzione di una “flessibilità” dell’orario di lavoro potendo essi giornalmente decidere di iniziare il lavoro “tra le 8 e le 9” in base alle loro mutevoli esigenze (art. 1 regolamentazione per la joint venture). Ed ovviamente per ottenere tale risultato “antioperaio” il primo obiettivo (anzi sostanzialmente l’unico, con buona pace dei dirigenti del Pd che si dilettano a distinguere tra parti buone e parti cattive dell’accordo) è quello di distruggere ogni contropotere in azienda sia individuale (colpendo i “disfattisti”, si vedano artt. 2 e 4) ma ancor più quello collettivo, di cui parleremo a seguire.

Ma se questo è l’aspetto del “ritorno” della forma, qual è la novità del “contenuto”?

La novità – ed è qui che la cultura americana di Marchionne viene davvero fuori – è il rifiuto di ogni ipocrisia, soprattutto nella definizione del ruolo che egli intende dare al sindacato all’interno dell’azienda, e di ciò in qualche modo bisogna essergli grati.

La parte innovativa dell’accordo è avere chiarito, finalmente senza infingimenti, all’art. 1 del “Sistema di Relazioni Sindacali”, come il ruolo del sindacato non sia quello di rappresentare le istanze del lavoro nel confronto/conflitto con chi lo utilizza nell’esercizio dell’impresa ma quello di “trovare soluzioni coerenti con gli obiettivi condivisi” (con l‘impresa) e quindi sindacati e direzione “assumono la prevenzione del conflitto come un reciproco impegno su cui (addirittura, n.d.a.) il sistema partecipativo si fonda” e quindi “si identificano nella Direzione e (in uguale misura, n.d.a.) nella Rappresentanza Sindacale dei lavoratori i soggetti che hanno questo compito”. Mai con questo nitore programmatico si è trovato in un accordo un tale manifesto ideologico del “partito dell’amore” nella gestione dei corpi dei subordinati, con una rispondenza straordinaria tra la cultura politica del governo d’Impresa e di quella del governo della Nazione che lascia davvero poco spazio alla logora strategia CGIL di attendere il divorzio tra CONFINDUSTRIA e Berlusconi, sempre annunciato e mai davvero realizzato a riprova della sostanziale condivisione di intenti e linguaggi tra la destra e la rappresentanza dell’imprenditoria Italiana. E mai è stato chiarito con tanta programmatica certezza (al comma 1 dell‘art. 1 del nuovo sistema di relazioni) che il compito unico dei sindacati sia quello di bloccare il conflitto.

Ebbene “l’amore” dà, ed infatti i sindacati firmatari ricevono subito

a) il potere di veto rispetto a qualsivoglia competitore prevedendo l’accordo che “l’adesione di terze parti al presente accordo è condizionata al consenso di tutte le parti firmatarie” potendo quindi – ad esempio – l’associazione Capi e Quadri Fiat (con le sue centinaia di iscritti) impedire da ora e per sempre l’adesione della Fiom (con le sue centinaia di migliaia di iscritti);

b) circa 15 dirigenti sindacali da poter nominare ciascuna organizzazione in numero uguale, del tutto a prescindere da fastidiosi passaggi elettorali e dal numero degli iscritti e per sempre (fino a quando cioè le organizzazioni firmatarie abbiano almeno 15 iscritti da far divenire tutti dirigenti);

c) oltre ai permessi legali già previsti dallo statuto dei lavoratori un ulteriore monte ore di permessi retribuiti (solo per i sindacati firmatari ovviamente);

d) la facoltà contrattuale di ricevere direttamente dalla Fiat i contributi sindacali automaticamente trattenuti dalle buste paga dei dipendenti (beneficio negato a qualsivoglia organizzazione sindacale non firmataria);

Ma non bisogna credere che “amare” sia facile, amare è un compito davvero duro che non ammette né soste né scrupoli (“è uno sporco lavoro ma qualcuno dovrà pur farlo, baby”). Ed infatti si prevede che i benefici connessi al monte ore addizionale di permessi e ai contributi sindacali saranno revocati dall’azienda non appena uno dei sindacati firmatari cessi di amare (anche solo un poco) ponendo in essere “comportamenti idonei a rendere inesigibili le condizioni concordate” (art. 1 “clausola di responsabilità”). Ma non basta: l’impegno che i firmatari si sono assunti non è solo quello di non confliggere ma – come si è detto – di impedire che altri possano farlo e la Fiat non si accontenta di un generico impegno: dato che investe molte risorse sui sindacati complici esige risultati. Questo è forse il punto più qualificante dell‘accordo per comprendere (ed anche un poco compatire i meccanici di Cisl e Uil ) quanto sia dura vivere nella caserma dell‘amore. Alla fine dell’art. 1 infatti si prevede che tutti i benefici sindacali saranno tolti alle organizzazioni sindacali non solo per proprie eventuali iniziative (la cui genericità delle ipotesi vietate è già tale da tenerle sotto permanente ricatto) ma anche se non riusciranno (con ogni mezzo, è da supporsi) ad impedire “comportamenti individuali e/o collettivi dei lavoratori idonei a violare in tutto o in parte e in misura significativa le clausole del presente accordo…. inficiando lo spirito che lo anima“.

Comprendete lo straordinario investimento libidico che ciascun dipendente Fiat potrebbe inserire in ogni piccolo sabotaggio, ribellione, depotenziamento individuale e collettivo dell‘organizzazione del lavoro? In palio non ci sarà infatti solo opporsi al comando d’impresa, in palio ci sarebbero i tanti soldi e privilegi in più che la Fiat dà ai sindacati firmatari proprio e solo per consentirgli di svolgere l’unico compito per essi previsto dall’accordo: tenere con ogni mezzo la disciplina al posto del datore.

Chiarito ciò si passa allora all’elenco delle prerogative sindacali (artt. da 2 a 6 del sistema di relazioni sindacali) ed esso va letto al contrario: e cioè non ponendo l’attenzione su quali prerogative abbiano i firmatari (del tutto ovvie e obbligatorie per legge da un quarantennio) ma invece su cosa non possono fare le organizzazioni sindacali che non hanno firmato, quand’anche (come la Fiom) fossero quelle maggiormente rappresentative. Ebbene la Fiom non può (art.1) costituire una propria rappresentanza sindacale aziendale, non può (art. 2) godere di alcun permesso sindacale per i suoi dirigenti, non può (art.3) indire assemblee, non può (art. 7) ricevere i contributi sindacali dei propri iscritti tramite trattenuta in busta paga, non può (art. 5) utilizzare la saletta sindacale per la propria attività di incontro con i lavoratori, non può (art. 4) affiggere propri comunicati in bacheca e non può neppure effettuare “attività di proselitismo nei confronti dei lavoratori ai loro indirizzi di posta elettronica aziendale o cellulari aziendali” , semplicemente deve cessare di esistere. Ebbene tutto ciò ha finalmente suscitato lo sdegno di una rilevante porzione dei commentatori e ha portato il nodo della rappresentanza sulle prime pagine dei giornali. Ma si tratta davvero di una novità? Da dove nasce questo diffuso senso di familiarità? Nasce dal fatto che quanto sta per accadere alla Fiom è la situazione in cui le organizzazioni del sindacalismo di base si trovano da un quindicennio in tutte le aziende (e sono una maggioranza in continua crescita) ove silenziosamente tutti i sindacati firmatari del protocollo del 1993 – e quindi anche la CGIL – hanno deciso di non procedere ad elezione delle RSU. Il contenuto davvero innovativo dato da Marchionne è di aver finalmente detto che “il re è nudo”, lasciando così in bella vista le pubenda della Cgil (e, quindi, della stessa Fiom), della Confindustria (scivolata dal ruolo dell‘alfiere della modernizzazione a quello di ostacolo alla stessa), dei ragionevoli-moderati-riformisti a cui Marchionne ha mangiato le loro rassicuranti fette di salame sugli occhi, e rendendo evidente la cultura politica e il collante unico che oramai tiene in piedi Cisl e Uil ovverosia la propria avvenuta trasformazione in imprese erogatrici di servizi sussidiati costituite in un cartello all’interno di un mercato oligopolistico, materia più da Antitrust (a cui consiglio di rivolgersi) che non da studiosi del diritto sindacale di cui davvero non v’è più traccia. Ed è apprezzabile in Marchionne il fatto che – essendo anche egli un “re” – nel far ciò ha comunque pagato il prezzo di rimanere pure lui nudo nella sua davvero mediocrissima isteria antioperaia. Per concludere si vuole allora evidenziare un ultimo passo del nuovo “sistema di relazioni sindacali” ovverosia che da un lato (si veda “appendice tecnica”) l’azienda “potrà effettuare controlli” a distanza del sistema informatico anche da remoto “su base individuale a seguito dell’accertamento di abusi” (ad esempio, l’invio di materiale sindacale in rete) mentre (si veda art. 3) agli operai sarà vietato effettuare nelle assemblee “riprese”, non potranno essere introdotti e utilizzati per le assemblee “materiali audiovisivi” se non previa autorizzazione aziendale e comunque “non sono consentite proiezioni di canali in diretta o comunque registrati da canali televisivi” . Ed allora ricapitoliamo: il vecchio dell’accordo è la mediocre battaglia di potere sui corpi dei subordinati (destinata naturalmente a soccombere e a riproporsi come tutte le precedenti), il nuovo è la misura del tutto esplicita di questo attacco che passa attraverso la cancellazione della democrazia e della libera comunicazione e informazione con il fattivo e mai così esplicito contributo di soggetti che cercano la valorizzazione del proprio agire nella fuga dalla competizione installandosi abusivamente nei monopoli naturali o artificiali. Vi ricorda qualcosa? Benvenuti nella “Fabbrica Italia”, ed è veramente un’ingiustizia che il referendum sia limitato solo ai dipendenti Fiat, dato che è di tutti noi che la “favola narra“.

*Forum Diritti/Lavoro 

dell’Ufficio Legale Nazionale USB

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