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UN NUOVO FEUDALESIMO IN NOME DELLA MODERNITÀ

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FIAT Mirafiori: l’accordo e l’inganno

di Guido Viale*


A tutti i “modernizzatori” che hanno salutato il referendum di Mirafiori come l’ingresso delle relazioni industriali italiane nella “modernità” va ricordato che la Modernità, o “Età moderna”, è iniziata nel 1492 con la scoperta dell’America. A quel tempo, nella Modernità, l’Italia delle Signorie ci era già entrata. Nei secoli successivi ha avuto alti e bassi (attualmente sta sicuramente attraversando un “basso”); ma se il 14 gennaio 2011 dovesse diventare una data storica, starebbe a segnare non l’entrata ma l’uscita del paese dalla Modernità: per ripiombare (secondo alcuni) in un nuovo medioevo; oppure, per instaurare una forma nuova di “feudalesimo aziendale”. Perché?

Non mi soffermo sulla limitazione del diritto di sciopero – accordata dal nuovo contratto – che ogni lavoratore dovrà poi sottoscrivere individualmente; né sulla abolizione della rappresentanza elettiva a favore di una gestione dei contenziosi affidata ai sindacati firmatari (trasformati così in “missi dominici”: ovvero, agenti del padrone); temi già ampiamente trattati da altri. Ma che cosa succederà “in produzione”?

Gli operai verranno messi in cassa integrazione, prima ordinaria, poi straordinaria, motivata da un “evento improvviso e imprevisto” (così il contratto; che però prevede “l’imprevisto” con assoluta certezza) e finanziata con fondi Inps attinti dalla “gestione speciale” dei lavoratori precari (che in questo modo verranno scorticati delle loro già irrisorie pensioni) e da contributi statali aggiuntivi (alla faccia della rinuncia della Fiat agli aiuti di Stato!). Nel frattempo – ma si tratta di oltre un anno – i lavoratori verranno convocati uno a uno per la firma del contratto individuale per vincolarli indissolubilmente ai termini dell’accordo. E per essere selezionati. Molti verranno scartati per una ragione o un’altra. E’ quello che Fiat sta già facendo con gli operai della Zastava, nonostante i generosi aiuti della Bei e del Governo Serbo. Marchionne sa bene che maestranze con un’età media di 48 anni (nel 2012), per il 30 per cento composte da donne, e per un altro 30 per cento certificate RCL (ridotte capacità lavorative) non possono reggere i ritmi di lavoro previsti dall’accordo. Poi verrà costituita la NewCo – sembra che si chiamerà Mirafiori Plant – ristrutturando gli impianti con fondi Chrysler e Fiat (il famoso miliardo: ma chi sa quanto sarà poi effettivamente speso?). A febbraio 2012, se tutto “va bene”, comincerà la produzione. Di che cosa?

Di suv (che modernità!) con marchio Chrysler e Alfa, assemblati su pianali e con motori prodotti negli USA, e poi rispediti negli USA per essere venduti. Mercato permettendo: anche con nuovi motori, i suv restano pur sempre i veicoli più energivori, quelli che avevano mandato a picco la produzione dei tre big di Detroit nel 2008; e il petrolio sta risalendo verso i cento dollari al barile! Ma che senso ha questo andarivieni tra Italia e USA, quando persino lo stabilimento di Termini Imerese era stato giudicato improduttivo perché troppo lontano dai fornitori di componenti? Il senso è che tra le condizioni poste da Obama per consentire la scalata di Marchionne alla Chrysler c’è quella di esportare dagli USA, e fuori dall’ambito Nafta (Canada e Messico) prodotti per almeno 1,5 miliardi di dollari. Dunque, pianali e motori trasferiti da Detroit a Torino (cioè da Chrysler a Fiat Plant: si tratta di due società differenti anche se controllate dallo stesso management) dovranno concorrere nella misura maggiore possibile al raggiungimento dell’obiettivo. Ovvio che questa “esportazione” di componenti verrà sovrafatturata (lo ha già prospettato anche Massimo Mucchetti), mentre i margini di Mirafiori verranno ridotti all’osso (o erosi completamente per giustificare successivi ridimensionamenti o la chiusura dello stabilimento); con tanti saluti per coloro che dalla produzione di nuovi modelli “a più alto valore aggiunto” – cioè più grandi, più complicati, più lussuosi, più spreconi, per soli ricchi – si aspettano la rimessa in sesto del Gruppo. Ma quale Gruppo?

L’accordo di Mirafiori, dopo quello di Pomigliano, dopo la dismissione di Termini Imerese, dopo lo “spin-off di Fiat Industrial – la separazione dall’auto di Cnh (trattori e movimento terra), e Iveco (camion), i settori più redditizi rimasti in mano agli Agnelli – e in attesa di nuovi accordi anche per gli stabilimenti di Cassino e Termoli (Melfi, cioè Sata, sta già per conto suo), prelude alla dissoluzione di Fiat Group. Intanto va notato che: a) Mirafiori – “nocciolo storico” del gruppo – non produrrà più macchine Fiat e diventerà una “fabbrica cacciavite” che lavora per altri; b) lo stabilimento di Pomigliano eredita le produzioni e l’organizzazione della fabbrica polacca di Tychy, che – occorre ricordarlo – è di Fiat ma lavora anche per Ford e che, in attesa di chiarimenti, lavorerà sempre di più per altri; c) Magneti Marelli è in vendita; d) Maserati, Alfa, Lancia e Ferrari sono oggi, con l’eccezione dell’ultima, soprattutto “marchi”: che possono essere venduti come “marchi senza fabbrica” – come si prospetta ogni tanto per Alfa – così come Tychy e Mirafiori sono o possono diventare “fabbriche senza marchio”. E’ la globalizzazione, bellezza! E poi?

Poi la crisi è tutt’altro che superata; le finanze di tre quarti dei paesi dell’UE sono a rischio. I consumi ristagnano. Il mercato europeo dell’auto (a differenza di quelli USA e asiatico) non dà segni di ripresa. A livello mondiale la capacità produttiva è di cento milioni di veicoli all’anno mentre la domanda è stata di sessanta milioni (sarà forse di settanta quest’anno). C’è ormai un eccesso di capacità non solo in Europa e negli Usa, ma anche in Giappone, Cina e Corea, i cui produttori sono quindi pronti a scalare la classifica delle vendite in Europa. Qualcuno si è chiesto quali sono i “vantaggi competitivi” con cui Marchionne conta di vendere ogni anno in Europa un milione in più di vetture fabbricate in Italia? Cioè di portare via almeno un milione di vendite annuali a Volkswagen, senza perdere colpi di fronte a Daimler e Kia-Yundai, in piena ascesa, o a Reanult-Nissan e Toyota, molto più solide, per non parlare dello sbarco prossimo venturo in Europa dei produttori cinesi?

Alcuni oggi si chiedono che chance può avere una competitività ottenuta strizzando ancora di più gli operai, il cui costo (così Marchionne) incide per non più del 7 per cento sul prezzo finale del veicolo. Molti meno si sono chiesti che senso ha paragonare i 100 o gli 80 veicoli annui per addetto prodotti da Fiat in Polonia o in Brasile con i 30 degli stabilimenti italiani. A parte la differente complessità dei modelli e il differente confine tra fornitura esterna e fasi internalizzate, come si fa a paragonare la “produttività” di fabbriche che lavorano a pieno ritmo con quella di impianti dove le giornate di cassa integrazione sono più di quelle lavorate? Sono confronti senza senso. La verità è che se Marchionne vuole vendere, o affittare, o dare in uso ad altri i suoi impianti, ciascuno dei quali farà capo a una diversa società, il valore aggiunto di una manodopera messa alle corde è molto maggiore di quello degli impianti dello stabilimento che li impiega. Ma le due cose sono indisgiungibili. E’ questo il “feudalesimo aziendale” a cui ci sta portando l’accordo di Mirafiori; quello che fa degli operai i nuovi “servi della gleba” dell’impresa globalizzata.

Marchionne e i suoi azionisti, se riescono a portare a termine la scalata a Chrysler possono anche permettersi di mandare a fondo i lavoratori della Fiat, dopo averli legati con un accordo capestro ai loro rispettivi stabilimenti. Ne ricaveranno un aumento degli utili e delle stock option. Ma il paese, tutti coloro che vivono del proprio lavoro – e anche molti di quelli che vivono del lavoro altrui, sfruttandolo o anche solo dipendendone – non possono farlo. Però, il futuro degli impianti, del knowhow e del lavoro che oggi fanno ancora capo a Fiat o al suo indotto non riposa più, e non può più riposare, sull’industria dell’auto. I settori che hanno un avvenire sono altri: quelli che conducono verso la sostenibilità: energie rinnovabili, efficienza energetica, ecoedilizia, riassetto del territorio, mobilità flessibile, oltre che agricoltura e alimentazione biologiche. Il tutto – tendenzialmente – a rifiuti e a chilometri zero.

Ma la conversione ecologica dell’apparato produttivo e dei nostri consumi ha ancora bisogno, e avrà ancora bisogno per un tempo per ora indefinibile, di industria, di economie di scala, di grandi flussi di materiali, di grandi impianti (tutte cose che sono il contrario dei chilometri zero) e di lavoratori impegnati, seppure in maniera più creativa e intelligente, su di essi. Sono temi ineludibili. Ma chi può mai lavorare a una prospettiva del genere?

Gli accordi capestro della Fiat avvicinano quello che un tempo era l’esercito dei lavoratori “garantiti” – cioè sfruttati a tempo indeterminato – alla condizione di un sempre più diffuso precariato. Mentre i temi e i modi in cui è andata crescendo la lotta contro la distruzione di scuola, università, ricerca e cultura fa di quel movimento, composto da precari attuali (ricercatori e studenti che lavorano per mantenersi agli studi) e da futuri precari (milioni di giovani a cui “è stato rubato il futuro”), il segmento più organizzato dell’oceano del precariato italiano.

La domanda di saperi che non servano solo, o non servano affatto, a costruire operatori, tecnici, insegnanti e ricercatori asserviti a datori di lavoro estemporanei o a imprese ed enti fantasma, dove nessuno avrà mai la sicurezza di un reddito né la possibilità di realizzare le proprie potenzialità, non traduce solo il rigetto della riforma Gelmini e la critica pratica delle forme e dei modi in cui la trasmissione dei saperi viene organizzata e finanziata. Esprime soprattutto la rivendicazione – che può farsi proposta, pratica attiva, percorso di realizzazione – di una riforma della ricerca e dei saperi che investa i contenuti della conoscenza, le sue le finalità, la frantumazione dei saperi in tanti ambiti disciplinari privati di qualsiasi consapevolezza.

Per questo il tema centrale di ogni possibile riforma della scuola, dell’università, dei saperi, della cultura dovrebbe essere la conversione ecologica: una prospettiva che richiede l’integrazione di conoscenze sociali, tecniche, giuridiche, economiche, storiche con pratiche fondate sul confronto e sulla lotta, ma anche sulla capacità di fare proposta e di promuovere organizzazione. Pratiche che possono trovare punti di riferimento e di applicazione concreti nelle lotte dei precari, dei lavoratori delle fabbriche in crisi, dell’opposizione esplicita o soffocata (come i “Sì” di Mirafiori) all’avvento del nuovo feudalesimo aziendale


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