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EGITTO: LA RIVOLUZIONE IMBRIGLIATA

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Il 18 febbraio un’altra giornata di lotta in tutto il paese.

Il diavolo fa le pentole, ma si dimentica di fare i coperchi

di Moreno Pasquinelli 

Sergio Romano, su Il Corriere della Sera di oggi, commentando la presa del potere in Egitto da parte del Consiglio Supremo delle Forze Armate sottolinea come sia «… curioso che tutti i governi democratici abbiano accolto il golpe militare con soddisfazione e perché il presidente americano, in particolare, abbia visto negli avvenimenti “lo spirito di Martin Luther King”». In verità il sostegno occidentale al golpe non è né curioso né misterioso. Solo la Giunta militare, visto il crollo del regime politico mubakariano, poteva porre un argine alla crisi rivoluzionaria, e solo essa poteva, agli occhi degli USA, di Israele e delle satrapie arabe, assicurare il rispetto delle alleanze e dei trattati sottoscritti dopo Camp David (1979).

Primissimo atto del Consiglio Supremo delle Forze Armate è stato infatti il «Quarto comunicato», nel quale si dichiara che il nuovo Egitto «rispetterà tutti i trattati internazionale e regionali». Pronte le felicitazioni di Netanyahu, che ha definito il Trattato firmato da Sadat «una pietra miliare per la pace e la stabilità in Medio oriente».

A capo della Giunta militare non c’è un ufficiale qualunque, bensì M. Hussein Tantawi, Ministro della difesa di Mubarak. Dietro a lui c’è il Capo di stato maggiore Sami Enan, forgiato dal Pentagono e che, guarda caso, si trovava negli USA quando è scoppiata la rivolta.

D’altra parte i militari, mentre non hanno fatto cenno all’abolizione della trentennale Legge di emergenza, mentre si sono tenuti alla larga dall’indicare le scadenze per la devoluzione del potere e per le elezioni, hanno lasciato al posto di Primo ministro Ahmed Shafik, proprio quello scelto da Mubarak.

Un fatto è chiaro: se l’Esercito non ha accettato di sparare sulla folla ciò non è dipeso dal fatto che i generali si sono schierati con la rivoluzione, ma dal fatto che la rivoluzione, avendo aperto delle crepe nell’Esercito stesso, ha impedito al Comando supremo di schiacciarla.

I media, compresa al-Jazeera (stazione che ha avuto un ruolo assolutamente decisivo nel dare voce alla sollevazione popolare) hanno insistito sul fatto che la folla di Piazza Tahrir avrebbe esultato all’annuncio che i militari avevano preso in mano le redini del paese. Le cose sono un po’ più complesse. L’euforia per la dimissioni di Mubarak non va confusa con l’appoggio al golpe militare.

Non tutti hanno ubbidito ai generali tornandosene a casa. Piazza Tahrir è ancora presidiata da migliaia di persone che non si fidano affatto, ed a ragione, dei militari. «Non accetteremo che la rivoluzione ci venga scippata», dichiarano. Per questo hanno creato un «Consiglio di Fiduciari», espressione del coordinamento delle forze più avanzate della sollevazione, non solo per monitorare le mosse dei militari, ma per tenere in piedi la mobilitazione e, se necessario, indire nuove manifestazioni. 


Per venerdì prossimo, 18 febbraio, è stata infatti indetta un’altra giornata di lotta in tutto il paese.

Il Movimento 6 aprile, Kifaya, la Fratellanza Musulmana, e una decina di movimenti d’opposizione che sono stati protagonisti della rivolta non si sono limitati a coordinarsi in modo stabile nel «Consiglio dei Fiduciari». Essi hanno dato vita a quello che di fatto è un «Antiparlamento», al «Parlamento di Piazza Talaat Harb», dove esso si riunisce in seduta permanente.

C’è un’ala moderata, tra cui anziani leader della Fratellanza, notabili del vecchio Wafd e del Ghad, uomini riferibili ad el-Baradei, Amr Moussa, Ahmed Zewal o Ayman Nour, che premono per la smobilitazione in quanto puntano a candidarsi alle prossime presidenziali o, comunque, per un compromesso coi militari, assicurando loro una certa sostanziale continuità col regime di Mubarak. Ahmed Maher ad esempio, il leader riconosciuto del Movimento del 6 Aprile, pur sostenendo che occorre restare in Piazza Tahrir, propone la fomazione di un «Consiglio di presidenza» composto da un militare e da quattro civili che guidi la transizione, non verso una Assemblea Costituente, ma verso le elezioni presidenziali “affinché l’Egitto sia restituito ai suoi cittadini” —stramba idea quella che si possa tenere assieme il vecchio presidenzialismo  riverniciato con la sovranità popolare.

Ma quest’ala moderata deve fare i conti con le tendenze radicali che la rivoluzione democratica ha portato in auge, Kifaya appunto, gran parte del Movimento del 6 Aprile, buona parte dei giovani della Fratellanza.

E’ presto per dire se questo fronte delle opposizioni resterà unito o se subirà una spaccatura. Se fino alla cacciata del despota l’unità era fuori discussione, adesso che si tratta di disegnare e costruire il nuovo Egitto, la musica cambia. Non sarà facile tenere assieme partiti e forze sociali che chiedono una svolta di 180 gradi e lo smantellamento degli apparati del vecchio regime, che rappresentano l’anelito all’emancipazione della maggioranza dei poveri, con coloro che vogliono limitarsi a modifiche parziali della Costituzione e in ultima istanza rappresentano gli interessi di una borghesia che tolto di mezzo Mubarak, pensa ora di poter fare finalmente e meglio i suoi affari, dunque mantenendo l’Egitto nella sfera d’influenza americana.

Si apre dunque una nuova fase politica in Egitto, che non si chiuderà tanto presto. Le enormi energie sociali e politiche messesi in moto non saranno addomesticate tanto facilmente, né dai militari né da coloro i quali, pur avendo partecipato alla sollevazione, vogliono incalanarla sul binario morto di un negoziato con la Giunta militare. Staremo a vedere se il contropotere popolare sorto dal basso, nei quartieri, nei villaggi, nei luoghi di lavoro e nelle università, si dissolverà, o se riuscirà a saldarsi con il processo, oggi solo agli inizi, di costituzione di veri e propri partiti politici rivoluzionari.

Le correnti che per convenzione semantica chiamiamo “moderate” hanno ovviamente un grande vantaggio. Esse godono, oltre che dell’avallo dei generali, delle simpatie e degli appoggi della Casa Bianca la quale, proprio in virtù dei suoi legami sia con l’Esercito che con alcuni partiti dell’opposizione, dopo aver dato il semaforo verde alla cacciata del Raìs, ritiene di potere eterodirigere la cosiddetta transizione.

Chissà che anche questa volta non si dimostri che il diavolo, fatta la pentola, abbia dimenticato di fare anche il coperchio.

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