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LIBIA

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INSURREZIONE DELLE MASSE CONTRO IL COSIDDETTO «REGIME DELLE MASSE»

di Campo Antimperialista

L’onda lunga delle rivoluzioni democratiche in Tunisia ed Egitto, dopo aver toccato l’Algeria, lo Yemen, Bahrein, Gibuti e ieri anche il Marocco, sommerge ora la Libia. La sommossa scoppiata nell’indomita Bengasi il 16 febbraio, travolge dal 20 febbraio, anche la capitale Tripoli, considerata la roccaforte del regime di Gheddafi.

Nel frattempo vaste province del paese erano in fiamme. Non solo città come Bengasi, Derna e Beida, ma intere province, sono cadute in mano agli insorti. Nella stessa Tripoli, secondo notizie dell’ultim’ora, diversi edifici governativi sono stati dati alle fiamme, sparatorie sono in corso in pieno centro oltre che nelle periferie.

Il regime ha risposto con mano pesantissima, ricorrendo addirittura (almeno stando a fonti arabe di informazione come al-Jazeera) a raid aeri e bombardamenti. Il conto dei morti, a causa del blackout informativo, è per difetto stimato in alcune centinaia. Migliaia i feriti. Sempre secondo le stesse fonti (confermate dalle testimonianze dei primi cittadini occidentali rimpatriati in fretta e furia) sia la Polizia che l’esercito (fatto scendere in campo già il 17 febbraioo “giornata della collera”) avrebbero subito ammutinamenti. Alcuni reparti sarebbero addirittura passati con gli insorti. Infine, diverse personalità di spicco del regime, hanno disertato il fronte di Gheddafi, denunciando la sua furia sanguinaria.

Che la rivolta sia diventata in pochi giorni una vera e propria insurrezione non deve stupire: ciò è dipeso dalla estrema durezza con cui il regime ha risposto ai rivoltosi: nessun cedimento, nessuna apertura. Gheddafi e i suoi pretoriani si sono scagliati con determinazione luciferina contro i manifestanti, addirittura utilizzando ascari reclutati tra la teppaglia e mercenari africani. Si fa in queste ore un gran parlare della fuga di Gheddafi e quindi dello squagliamento del regime e dello Stato. C’è da dubitarne. Riteniamo invece probabile che la Libia stia precipitando in una guerra civile, una guerra che non finirà in pochi giorni e il cui esito verrà dunque a dipendere, a differenza della Tunisia e dell’Egitto, da quale dei due fronti contrapposti risulterà vincitore sul campo.

Se la miseria e la fame sono stati i propellenti delle rivolte in Tunisia ed Egitto, così non sembra si possa dire per la Libia, dove le condizioni di vita, grazie ad una politica di distribuzione della ricchezza più attenta, per quanto corruttiva, erano e sono ampiamente più dignitose (fatta eccezione per gli immigrati africani, che invece subiscono una forte discriminazione sociale).

Una rivolta democratica contro la tirannia quindi? Una sommossa di massa contro una classe dominante arraffona e corrotta? Una sollevazione tribale dei clan marginalizzati contro quelli dominanti? Una ribellione islamista-sanusiyta? Una lotta tra apparti dello stesso regime gheddafista? Un moto monarchico di nostaligici del vecchio re Idris? O addirittura, visto il ruolo di sfondamento avuto dalla Cirenaica, una guerra di secessione che allude alla fine della Libia come Stato-nazione unitario?

Non siamo in possesso di sufficienti informazioni per dare un giudizio oculato e netto. Pare che dentro la tempesta ci siano tutti quanti questi elementi, in dosi, appunto, che noi non possiamo stabilire.

Di sicuro si tratta di una insurrezione popolare, di massa, che non si può liquidare, come fa il regime, come «manovra di potenze straniere», in combutta con «gruppi islamici terroristi» (il regime si riferisce alla confraternita della Sanusiyya, i cui leader, da sempre ostili a Gheddafi, sono esuli al Londra). Che un ruolo lo giochino, anzitutto in Cirenaica, gli islamisti locali, non c’è dubbio. Della loro forza e influenza si sapeva, visto che il regime non è riuscito a nascondere di aver attuato contro di loro una dura politica di repressione. Ma l’islam sanusiyta, che trovò in Cirenaica la sua roccaforte, non fu affatto intergralista o rigorista, come ad esempio il salafismo, e per quanto ortodosso è distante dal dogmatismo delle principali scuole giuridiche ufficiali, e dunque neanche confondibile con la Fratellanza musulmana di al-Banna. Del resto, per comprendere l’influenza di questa confraternità in Cirenaica (ma anche in Tripoliotania e nel Fezzan) è sufficiente ricordare il ruolo politico decisivo che i sanusiyti ebbero nella indomita lotta di liberazione dall’imperialismo fascista italiano, visto che tutti i capi politici e militari della Resistenza anticolonialista erano appunto seguaci della confraternita, e tra questi l’eroe nazionale Omar al-Mukhtar, impiccato dai fascisti nel 1931. Che proprio al-Mukhtar sia il vessillo della sollevazione in Cirenaica la dice lunga su quale sia l’ideologia egemone in questa regione e quale sistema politico possa venir fuori dopo questa rivolta e quindi perché le stesse diplomazie occidentali paventano il rischio che possa determinarsi una scissione su linee geografiche, religiose e tribali.

Se dunque le rivolte in Tunisia e in Egitto hanno visto gli islamisti giocare un ruolo di complemento e a fare fronte con le forze politiche e sociali più genuinamente democratiche, in Libia le cose stanno diversamente. In assenza di quella che i liberali chiamano «società civile» è il tessuto sociale tradizionale, tribale e islamico, mai davvero spazzato via dal regime gheddafista, a venire a galla.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando il regime libico si atteggiava ad antimperialista, da quando sosteneva con coraggio la lotta di liberazione palestinese e araba, da quando si opponeva agli Stati Uniti ed era quindi alleato dell’URSS. La svolta avvenne lentamente, dopo che gli Stati Uniti di Reagan bombardarono il paese nel 1986, e l’embargo decretato dall’ONU nel 1992.

Da allora il regime vira verso Occidente, sia in politica estera che interna. Sul piano della politica estera la Libia rompe i suoi legami con i paesi arabi antimperialisti, in Africa, dopo aver scandalosamente sostenuto tiranni come Idi Amin e Bokassa negozia coi francesi e in combutta con gli americani infastidisce il governo sudanese sostenendo la guerriglia darfuriana. Dopo il 2001 Gheddafi accetta di entrare a far parte nella crociata anti-terrorista e nel 2006 ristabilisce i rapporti diplomatici con gli Stati Uniti.

Sul piano della politica interna questa svolta significava riallacciare relazioni commerciali forti con l’Occidente, Italia in primis. Il petrolio, e i dollari, ricominciarono a riaffluire in quantità enormi nel paese. Vero è che il regime ha distribuito questa ricchezza in modo assai ampio —da qui il sostegno di ha goduto e ancora gode in ampi strati della popolazione e quindi il rischio che l’insurrezione dia la stura ad una guerra civile sanguinosa—, ma la principale fetta della torta è finita nella disponibilità dei notabili di regime, anzitutto quelli vicini o legati al clan Gheddafi, in quelli della nascente borghesia libica, che ha anche approfittato della politica di privatizzazioni, e di una ramificata burocrazia politica, amministrativa, poliziesca e militare.

In questo contesto la protesta rabbiosa contro la corruzione e la posizione dominante del clan Gheddafi e della pletora di notabili ai suoi piedi, è senza dubbio una forma di lotta di classe, per quanto questa non utilizzi una simbologia socialista —pregiudicata dallo stesso richiamo al socialismo del regime. La rivolta è dunque anche l’espressione dell’anelito alla liberazione degli oppressi, poiché il regime libico è l’involucro politico e statuale della classe capitalistica dominante, per quanto spuria e mafiosa essa possa essere. E che la Jamahiriyya indichi il «regime delle masse», essa è un sistema al di sopra e contro le masse, e di certo non ha nulla di socialista, dal momento che gli stessi dispositivi di democrazia diretta contenuti nel «libretto verde» si sono dimostrati, prima velleità e fanfaronate, poi uno spregevole inganno.

Occorre dunque sostenere la insurrezione di massa in Libia, e quindi condannare, non solo il regime che risponde col terrore, ma le stesse potenzsìe imperialistiche, Italia anzitutto, che per anni hanno sostenuto e armato il regime e che oggi tremanoo all’idea che esso crolli, brandiscono il “pericolo” islamista, e quindi avanzano la proposta di una “riconciliazione”, formula pelosa per dire che stanno ancora sostenendo, dietro le quinte, il loro tiranno.

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