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LIBIA: PROSEGUE IL DIBATTITO (4)

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Dalla guerra per clan alla pulizia etnica?

«L’abbraccio mortale dell’imperialismo»



di L.U.P.O. (Lotta di Unita Proletaria di Osimo)


riceviamo e pubblichiamo

A differenza della maggior parte delle analisi che evocano una sorta di rinascimento dei popoli del Maghreb, del Nord Africa e del Medio Oriente scandito dalle rivolte di questi mesi, rivolte che vengono semplicisticamente, ma più spesso strumentalmente, accomunate ad un medesimo anelito di  democrazia ovviamente intesa all’occidentale, riteniamo che, al di là di comprensibili fattori emulativi, in paesi e popoli uniti da storia, lingua comune, religione, formazioni socio-economiche spesso simili, siano sostanzialmente diverse le cause politiche e materiali (strutturali) delle sollevazioni in corso.





Alle ragioni economiche ed all’aumento intollerabile delle povertà che hanno colpito i paesi più legati alle economie in crisi dell’Europa si sono aggiunte le rivendicazioni di libertà e democrazia nei confronti di regimi oppressivi anche quando questi erano caratterizzati da multipartitismo parlamentare; si sono aggiunti i conflitti di natura etnico tribale e religiosa che hanno finito per prevalere laddove le condizioni economiche erano più favorevoli, come in Libia e nei paesi del Golfo, movimenti che hanno riguardato sia paesi legati storicamente all’occidente, sia quelli scesi di recente ad alleanze o patti con l’imperialismo, come la stessa Libia o lo Yemen, ma niente esclude che nuove ondate, ben più consistenti di quelle fomentate dalle vecchie classi privilegiate in Iran – per fare un esempio – possano travolgere anche regimi contrari all’ordine americano-sionista; intanto si vanno estendendo anche nella stessa Arabia Saudita e nelle altre monarchie di attribuita origine più o meno “profetica”.

Anche gli attori sociali ed istituzionali sono diversi, seppur un grande ruolo lo hanno svolto ovunque i nuovi mezzi di comunicazione, innanzitutto internet ed il protagonismo delle masse giovanili; certamente se l’utilizzo di internet risulta innocuo, se non funzionale al potere, in sistemi complessi ed elastici come i nostri, basati su un controllo sociale talmente atomistico da indurre consenso e produzione di modelli comportamentali compatibili, non così è in sistemi rigidi, con un livello di autoritarismo meno raffinato ed ormai avulso dalle condizioni socio-economiche, condizioni spinte, pur nelle aumentate disuguaglianze materiali, ad una accelerazione dei fattori globalizzanti sul piano delle conoscenze e della comunicazione, rispetto alle quali si registra uno scarto nelle relative forme del potere politico. In sistemi dove fino a poco tempo fa diventava intollerabile anche un volantino di contestazione possiamo figurarci l’impatto dei nuovi mezzi forniti dalla rete.

La struttura sociale profonda in diversi di questi paesi è spesso attraversata da linee di divisione tribale e clanica che finiscono per riprodursi sulle gerarchie del potere – compreso l’esercito – e sul controllo dell’economia; le rivalità tribali, oltre alle divisioni di carattere etnico-razziale hanno sovente storicamente determinato l’adesione alle varie correnti dell’Islam (in particolare la divisione tra sciiti e sunniti) od alle confessioni cristiane. Tra gli attori istituzionali molto diverso è stato finora il ruolo dell’esercito – di repressione o di neutralità quando non di tiepida  simpatia per alcune istanze delle proteste – e queste differenze si spiegano con la storia dei singoli paesi, formatisi dai tracciati delle potenze coloniali, ma alcuni con una tradizione storica e composizione sociale precedente più omogenea, con le rispettive lotte anticoloniali e per l’indipendenza che hanno visto a volte nell’esercito un fattore progressista.

In Libia stiamo assistendo a qualcosa di ancora inedito, al di là dei racconti contradditori e paradossali dei media, ossia alla divisione dell’esercito, preesistente lo scoppio della rivolta, con lo scontro tra le sue componenti ammutinate e lealiste, sostenute ed integrate dalle popolazioni, sostanzialmente in base alle succitate linee tribali. Delle oltre 100 tribù e sottotribù che compongono il mosaico libico si distinguono per rivalità storiche con i Quaddhafa, a cui appartiene il colonnello Geddhafi, i Warfalla ad ovest  di Tripoli e gli Zawayya ad est, nella Cirenaica, regione che è rimasta sempre ostile alla rivoluzione verde sin dai tempi del laicismo socialista, in nome di un irredentismo legato alla vecchia monarchia di re Idrish ed all’islamismo senussita di cui questa era espressione. Le antiche bandiere monarchiche sventolate dai “liberatori” – e copiosamente preparate in anticipo – ci possono far comprendere la portata democratica della loro sollevazione (e quanto bene si sposino con quelle dei nostrani falcemartellati intraviste nelle manifestazioni in Italia). La composizione dell’esercito rifletteva queste divisioni della società libica ed oggi determina le scelte di campo, con l’aviazione prevalentemente in mano ad ufficiali Quaddhafa e la fanteria con il suo armamento leggero e pesante passata a guidare gli insorti nei reparti delle  medesime appartenenze tribali ostili al governo. Se si può presumere che lo scoppio della rivolta non sia stato previsto né legato all’interferenza di interessi occidentali, tuttavia questi ultimi si sono prontamente manifestati nel fornirne una versione palesemente falsa degli avvenimenti in atto, cogliendo in essi l’opportunità di un intervento militare volto a dividere ed indebolire il paese per meglio disporre delle sue ingenti risorse energetiche e controllare un’area sensibile tra Africa e Medio Oriente. Già si paventano scenari di balcanizzazione del conflitto con la proposta di istituire una no-fly zone sul modello bosniaco ed iracheno, preludio ad un futuro intervento militare già messo in conto, con  l’invio delle navi da guerra americane al largo dei porti libici e la disponibilità del nostro governo, passato dai baciamano alla disponibilità di concedere le basi militari. Per giustificare l’aggressione l’apparato mediatico deve, come sempre, precedere e preparare quello militare: già si da l’allarme per le armi chimiche, come fu per Saddam; si denunciano atrocità spesso inesistenti ripassando il copione del Kosovo, come le immagini meste del cimitero di Tripoli, dove i rituali di tumulazione musulmani venivano fatti passare per fosse comuni; si denunciano i massacri sui civili quando questi “civili”, a differenza di Egitto e Tunisia, spesso sono in divisa o, anche in borghese, alla guida di tank  ed in possesso di mitragliatrici ed rpg; si denuncia l’uso di mercenari, in realtà pochi soldati ciadani, della forza pan-africana e quindi necessariamente legati al governo che tale forza ha promosso, esponendo in questo modo a rischio linciaggio le migliaia di lavoratori neri presenti nel paese; si annunciano inesistenti marce su Tripoli o fughe impensabili della leadership; si da per imminente la fine di un regime che ha contato fino a ieri consenso di massa in almeno metà del paese, ma anche se si arrivasse all’esauturazione di Gheddafi e della sua famiglia, certamente gli interessi e le alleanze tribali che questa rappresenta non scomparirebbero ed alimenterebbero una lunga e sanguinosa guerra civile. Siccome alle cancellerie occidentali, alla Nato ed in misura minore anche a Russia e Cina interessa  il petrolio, oltre all’influenza geo-strategica, proprio una lunga ed incerta guerra civile vogliono evitare e quindi studiano il modo di accelerare la caduta del regime, fino a ieri considerato un baluardo contro l’integralismo con il quale fare buoni affari, cercando di indirizzare la rivolta verso una rapida suddivisione del paese in docili protettorati. Tuttavia tale progetto, caldeggiato soprattutto da Usa e Inghilterra che vorrebbero invischiarci fino al collo Italia e Francia, può incontrare notevoli resistenze diplomatiche nel consiglio di sicurezza dell’ONU (soprattutto dalla Cina alla quale il colonnello ha dichiarato di voler  passare i contratti stipulati con l’Occidente ingrato) e si presenta di difficile attuazione, sia per l’ampio sforzo richiesto a paesi che già stanno perdendo la guerra in Afghanistan, sia perché senza  l’immediato interesse di una potenza regionale, come fu inizialmente l’Iran per l’Irak, l’intervento straniero potrebbe rafforzare il regime e – paradossalmente ma non tanto in popolazioni animate da profondo spirito anticoloniale, dalla resistenza di Omar al Mukhtar contro Graziani fino alla Jamahiryya – ricompattare l’identità nazionale, togliendo legittimità e proselitismo alla rivolta. Proprio di questo sono consapevoli i centri propulsori della sollevazione che, pur nella confusione dei ruoli e delle dichiarazioni del sedicente governo provvisorio di Bengasi, hanno finora respinto l’ipotesi di intervento straniero diretto, dicendosi tuttavia disponibili a bombardamenti sui lealisti che non partissero dal suolo libico, ossia si  dà disco verde per fare del nostro paese, dopo l’avventura fascista, nuovamente il protagonista della ricolonizzazione della Libia.

Sia chiaro che queste considerazioni non vogliono rappresentare l’apologia di Geddhafi e dell’involuzione del suo regime, né liquidare tutte le istanze presenti tra le forze ribelli come asservite alle mire imperialiste anzi… il rispolverato repertorio antimperialista del colonnello suona retorico e sin troppo scoperto il tentativo di accreditarsi ancora come bastione antiintegralista, liquidando le forze ribelli come asservite a Bin Laden; i suoi ingrati alleati se ne fregano del ruolo da lui avuto nella repressione dei moti islamici che ha sempre evitato alla Libia di diventare retrovia del Jihad globale e se ne fregano dalla svolta ad “u” che l’antico combattente anticolonialista, l’artefice del socialismo in salsa verde ha impresso alla politica estera libica.  Dopo la caduta del muro di Berlino il colonnello ha ritenuto opportuno avvicinarsi a quell’Occidente imperialista, prima fieramente combattuto, sin da quando si rese protagonista di una rivoluzione anticolonialista sull’onda del Nasserismo, una rivoluzione che nazionalizzò le risorse a cominciare dal petrolio, diede diritti alle donne e portò indiscutibilmente il paese a progresso economico e sociale rispetto al resto del Nord Africa. In politica estera, malgrado le relazioni privilegiate con l’Urss fu tra i promotori del movimento dei Non Allineati dando sostegno (più teorico che concreto) ai movimenti terzomondisti ed alla causa palestinese e pan-araba finchè, deluso dalle rivalità dei paesi e leader arabi spostò la sua attenzione sull’Africa, promuovendo l’Unione Africana. Il crollo dell’Urss e l’interventismo degli americani – che già tentarono di liquidarlo con Reagan ed i famosi bombardamenti sulla sua residenza, bombardamenti che spinsero Craxi a schierare i carabinieri a Sigonella, rischiando i conflitto armato con gli Usa – lo convinsero a miti consigli, fino a farsi carico dei risarcimenti per i familiari del mai provato attentato alla Lockerbie, ad intavolare rapporti di buon vicinato ed ancor migliori affari con l’Italia ed i governi di destra e sinistra succedutesi, (quegli stessi governi che ora fanno a gara a sconfessarlo), fino a cercare accordi con gli stessi americani, soprattutto dopo l’invasione dell’Iraq, probabilmente per paura di fare la stessa fine di Saddam, proponendosi come campione del laicismo, nemico dell’islam politico antioccidentale e garante di lucrosi affari per tutti.

Su tali affari e sugli accordi promossi dal governo Berlusconi c’è da rilevare che sono stati in continuità con quelli intrapresi dai governi di centro-sinistra e sono addirittura da iscrivere nella tradizione dei governi Andreotti e Craxi; al di là delle contingenze  rimangono opportuni su un versante strategico dal momento che è sempre preferibile avere più fonti di approvvigionamento energetico, viste le scosse mondiali amplificate dalla crisi e, al di là dei governi che passano, i popoli restano e le linee geostrategiche fondamentali sopravvivono al mutare degli stessi confini statali; rimane perciò impensabile che lo stato italiano, la cosiddetta porta del mediterraneo, non contempli relazioni, accordi commerciali e diplomatici con la Libia; questo anche in caso di un cambio al vertice o, come ci auguriamo, in un prossimo rapporto paritario tra stati indirizzati verso nuove forme di socialismo ma, per ora si prospetta l’intruppamento dell’Italia nel progetto neo-coloniale. Su questo versante si distingue il PD e gran parte dell’opposizione che pur di far dispetto a Berlusconi si dimentica allegramente di quando Geddhafi era il campione della sinistra, prestando voce alla più sguaiata ed inverosimile propaganda interventista, come ai tempi della Yugoslavia. Da questo scaricabarile possiamo ancora una volta rilevare quanto sbaglino quei leader che pensano di accordarsi con l’imperialismo da posizioni paritarie, dal momento che le potenze imperialiste contemplano, appena possono permetterselo, solamente l’esproprio ed il saccheggio delle risorse e la soppressione dell’indipendenza nazionale. Altri errori di politica interna sono sicuramente da imputare a Geddhafi; l’aver favorito il rientro delle multinazionali con politiche di privatizzazione che hanno lasciato ai clan familistici ampie fette di torta; l’essersi adattato alla struttura tribale minando una autentica formazione nazionale; aver tradotto presto il socialismo della prima Jamahiriyya con un regime paternalistico,  assistenzialista quanto autoritario dove i consigli popolari fungevano prevalentemente da cinghia di trasmissione di decisioni centralistiche e da controllori sociali; aver combattuto indiscriminatamente l’islamismo proprio quando molte forme dell’Islam politico, nei paesi del nord Africa, come nel mondo arabo, assumevano un ruolo antimperialista. Va tuttavia riconosciuto che tale regime garantiva ancora una ampia redistribuzione, con un reddito pro-capite 6 o 7 volte superiore ai paesi vicini, dato verificabile anche dall’attrazione di parecchia manodopera africana nel paese e dall’assenza di immigrati libici nei paesi europei, dal momento che i presenti erano e sono quasi tutti studenti, businessman od oppositori.
Cosa si prospetta ora. Per la Libia, se falliscono i tentativi di mediazione tra il governo ed i militari e tribù ribelli, si prospetta una guerra civile che avrà presumibilmente caratteri di pulizia etnica, dal momento che esistono enclaves sia nei territori a prevalenza della Sollevazione che nei territori lealisti e questo farà sicuramente incrementare il numero dei profughi civili, stretti nel mezzo, con conseguenze soprattutto per il nostro paese; inoltre tali sviluppi forniranno un comodo alibi per interventi armati targati Nato od Usa spacciati per ingerenza umanitaria. Tale guerra potrebbe avere come sbocco la divisione del paese mentre se si arrivasse ad accordi, molto improbabili visto il soffiare sul fuoco delle cancellerie occidentali, si potrebbe dar vita ad una struttura federale in grado di salvare l’unità e l’indipendenza del paese con una riformulazione delle quote di influenza tribale e la ridefinizione, maggiormente democratica, dei poteri istituzionali. Il fallimento delle trattative, allestite mentre le truppe governative stanno cercando di riconquistare le città “liberate” e lo stesso governo invia aiuti umanitari insieme ad aerei intenti a bombardare postazioni ribelli, aprirebbe le porte all’invasione straniera o comunque all’istituzione dell’embargo aereo, coadiuvato dall’invio di consiglieri militari ed armamenti ai ribelli. Cosa si prospetta invece per noi, quando tale escalation si concretizzasse. Sicuramente i pacifisti autentici e gli antimperialisti dovranno tornare a far sentire con forza la loro voce, dovremmo dar nuovo corso a quel movimento contro la guerra che si è arenato, complici le derive parlamentari che lo hanno strumentalizzato, dopo le grandi mobilitazioni contro l’invasione dell’Iraq. Le nostre terre non devono prestarsi  a basi di invasione o di ingerenza ed occorre far emergere chiare parole d’ordine per rivedere la politica di difesa del paese, per tornare al dettato dell’art. 11 della Costituzione, ritirando anche i soldati dall’Afghanistan, dove continuano a morire per una guerra persa, al solo scopo di evitare figuracce agli americani. Oltre ad impedire l’uso delle basi militari occorre mettere al centro dell’agenda politica di un sinistra di classe che voglia realmente rifondarsi (piuttosto che esibire falci e martello vicino a simboli monarchici), l’uscita dalla Nato e la piena sovranità nazionale sui territori presi in ostaggio dai militari Usa, i quali, come dimostrano anche i recenti ritrovamenti di Quirra, non si preoccupano neanche di contaminarli con materiali radioattivi. Dobbiamo sottrarre risorse alla guerra e pretendere che siano indirizzate a far fronte all’impoverimento del paese ed alla disoccupazione; ma dobbiamo anche sottrarle legittimità ideologica strappando i veli della disinformazione – come stanno facendo per ora pochi coraggiosi: Chavez, Fidel Castro, Ortega e prendere chiaramente le parti di quei libici, indipendentemente dal loro fronte attuale, che difenderanno il paese contro l’annunciata invasione imperialista.

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