Lei è stato l’architetto, insieme a Franco Cassano, di un libro collettivo di oltre 650 pagine intitolato L’alternativa mediterranea (1). Citando Peregrine Horden e Nicholas Purcell – che nella loro opera monumentale The Corrupting Sea. A Study of Mediterranean History (2000) scrivono: «l’unità e la coerenza dell’area mediterranea sono indiscutibili» – aggiungete: «”Unità” non significa uniformità culturale o monoteismo», ma al contrario «pluriverso». Nel corso della storia, dalle guerre di Atene contro Sparta o dal grande scisma d’Oriente alla divisione attuale dei paesi arabi, passando per le avventure coloniali francesi e britanniche, non è che il Mediterraneo sia sempre stato profondamente diviso? Aldilà dei conflitti di cui il Mediterraneo è stato testimone, secondo Lei, cosa crea questa unità mediterranea, sia a livello storico e geografico che a livello spirituale, ambientale o simbolico?
Danilo Zolo
Come è noto, un contributo di grande rilievo al dibattito sulla questione mediterranea, e quindi sull’unità del Mediterraneo, è stato offerto da Fernand Braudel. Ed è appunto al suo pensiero storiografico che si ispira il libro che Franco Cassano ed io abbiamo recentemente curato per l’Editore Feltrinelli. Mentre Henry Pirenne aveva elaborato lo schema della cesura dell’unità mediterranea a causa della conquista araba del Medio Oriente e dell’Africa del Nord, Braudel ha valorizzato il pluralismo delle fonti culturali che hanno dato vita alla civiltà mediterranea.
È un fatto incontestabile che la tradizione greca e quella latina hanno interagito con la cultura ebraica e con il mondo arabo-islamico grazie, fra l’altro, alla feconda mediazione degli ebrei spagnoli e dei moriscos, rifugiati in massa nel Maghreb nel corso del Cinquecento. Contro gli stereotipi dell’egemonia greco-latina, dell’orientalismo e del razzismo coloniale, Braudel e la “scuola algerina” hanno rivalutato la cultura araba: il suo immaginario artistico, la grande tradizione speculativa, medica e matematica. Come Peregrine Horden e Nicholas Purcell hanno più recentemente sostenuto nella scia della lezione di Braudel, c’è un elemento che dal punto di vista storico-ecologico unifica il Mediterraneo e lo distingue da ogni altra area geografica: è la rara coesistenza fra un ambiente naturale nel quale le comunicazioni umane si sono agevolmente sviluppate lungo le sponde marine e una topografia costituita da nuclei sociali di ridotte dimensioni, dislocati e frammentati lungo le coste e nelle isole. La singolarità orografica, il clima temperato e una vegetazione particolare – la vite, l’ulivo, gli agrumi – hanno fatto del Mediterraneo uno spazio ecologico che per millenni ha favorito, lungo tutte le sue sponde, la formazione e la stabilizzazione di strutture abitative, di colture rurali e di sistemi commerciali spazialmente dislocati e frammentati, ma nello stesso tempo in stretta comunicazione fra loro. L’intensità delle relazioni comunicative, dei travasi culturali, dei rapporti commerciali, degli incroci demografici e degli scambi più diversi, inclusi i conflitti, le guerre, le crociate e le scorrerie piratesche, hanno contribuito a forgiare una solida koiné culturale e civile. Lo sviluppo della cultura europea, a cominciare dalla eccezionale esperienza di Al-Andalus, si è intrecciata con la tradizione coranica. Queste radici comuni non sono state divelte neppure dai più aspri antagonismi e hanno prodotto frutti ricchissimi. Basti pensare che l’area mediterranea vanta la più grande concentrazione artistica del mondo. L’unità e la grandezza del Mediterraneo – questa è una delle tesi centrali del nostro libro su L’alternativa mediterranea- sta nella longevità del suo ‘pluriverso’ culturale che a rigore si è articolato non entro ‘un mare’, ma entro un ‘complesso di mari’. E si è trattato, come ha scritto Braudel, di mari “ingombri di isole, tagliati da penisole, circondati da coste frastagliate […] la cui vita si è mescolata alla terra e non è separabile dal mondo terrestre che l’avvolge”. In questo senso il Mediterraneo ha preservato la sua unità in quanto ‘mare fra le terre’, resistendo alla sfida proveniente dai grandi spazi oceanici e continentali scoperti dai navigatori spagnoli e portoghesi. Si potrebbe dire, attualizzando, che le ‘civiltà mediterranee’ sono sopravissute resistendo all”atlantismo’ americano.
Alain de Benoist
Nel suo libro L’occidentalisation du monde Serge Latouche, che ha contribuito anche al vostro volume, utilizza la parola «deculturazione» per descrivere il momento in cui il contatto tra culture «non si manifesta attraverso uno scambio equilibrato ma piuttosto attraverso un flusso massiccio a senso unico: la cultura che riceve è invasa, minacciata nella sua propria essenza e può essere considerata vittima di una vera e propria aggressione». Nel passato, l’espansione coloniale rappresentò un «flusso massiccio a senso unico», ma oggi è piuttosto il contrario. Sono le vecchie potenze coloniali che vivono con il sentimento di essere “invase” e «minacciate nella loro essenza». L’immigrazione massiccia con la quale gli Europei oggi si confrontano ha creato le condizioni possibili per la moltiplicazione veloce nei paesi occidentali di libri che puntano il dito non soltanto contro l’islamismo radicale ma anche contro l’Islam tout court. L’Europa si è rinchiusa in una posizione difensiva, avvertendo il mondo musulmano come una minaccia su tutti i fronti, sia interno che esterno. Un atteggiamento del genere non aiuta ovviamente alla realizzazione del parternariato euro-mediterraneo che voi vorreste vedere realizzato. Come analizza questa situazione? Come è possibile uscire dallo schema dello ‘scontro di civiltà’ e ricreare le condizioni propizie ad uno «scambio equilibrato»?
Danilo Zolo
Non direi in alcun modo che oggi assistiamo ad una inversione del fenomeno coloniale. Nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento le armate europee hanno invaso e occupato il resto del mondo e in particolare i paesi africani e arabo-islamici, facendo strage di centinaia di migliaia di persone innocenti, distruggendo le strutture politiche ed economiche dei paesi aggrediti, e devastandone le culture e le tradizioni. Oggi – si sostiene – sarebbero le vecchie potenze coloniali ad essere investite da imponenti flussi migratori che l’Europa inevitabilmente percepisce come una invasione coloniale in direzione inversa. Si tratta, a mio parere, di due fenomeni completamente diversi. Oggi il fenomeno coloniale è solo formalmente esaurito. In realtà, in particolare dopo il collasso dell’impero sovietico e l’emersione dello strapotere degli Stati Uniti d’America e dei suoi più stretti alleati europei, assistiamo a forme di neo-colonialismo particolarmente aggressivo che investono in particolare i paesi arabo-islamici. E questo accade nel contesto dei processi di globalizzazione che in larga parte coincidono con il progetto occidentale di egemonia globale sul piano economico, politico e militare. Lo Stato di Israele è l’architrave di questo colonialismo perdurante che occupa militarmente e domina un’area cruciale del Medio Oriente arabo-islamico. Nel frattempo sono i processi di globalizzazione economica guidati dalle massime potenze economiche del pianeta a produrre, con le crescenti sperequazioni economico-sociali che generano su scala planetaria, le grandi migrazioni verso Occidente. In questo senso il Mare mediterraneo, nelle condizioni in cui oggi si trova, è per un verso uno spazio neo-coloniale a disposizione delle grandi potenze occidentali per controllare militarmente l’intera area mediorientale, mesopotamica e centro-asiatica. Per un altro verso il Mediterraneo viene usato dall’Europa come barriera per contenere drasticamente i flussi migratori provenienti in larga parte dai paesi arabo-islamici della sponda sud-est. L’Occidente intero nega se stesso nel suo delirio di onnipotenza e fomenta il fenomeno del terrorismo islamico, mentre l’Europa percepisce i migranti – di cui peraltro ha un estremo bisogno – come “diversi”, come nemici invasori, come quasi-terroristi. La sola risposta possibile a questo collasso è un’Europa meno occidentale e più “europea”, meno asservita agli interessi degli Stati Uniti, pronta a un dialogo paritario con il mondo islamico, capace di impostare la questione israelo-palestinese come un problema mediterraneo, attenta e partecipe alle imponenti novità che stanno investendo l’Asia orientale, a cominciare dal colosso cinese.
Alain de Benoist
A partire dagli anni Settanta, la «questione mediterranea» è stata affrontata nei paesi europei soprattutto dal punto di vista dell’«integrazione regionale». In particolare ci si ricorderà della creazione di un Forum mediterraneo nel 1988, di una sessione della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione nel Mediterraneo nel 1990 e della prima Conferenza Euro-Mediterranea nel novembre 1995 a Barcellona. Qual è il bilancio di queste iniziative? E cosa pensa del progetto di un’«Unione per il Mediterraneo» sostenuta e voluta da Nicolas Sarkozy?
Danilo Zolo
Il “processo di Barcellona”, che ha concluso una lunga serie in iniziative prodromiche, è stata una strategia europea molto ambiziosa, che per la prima volta ha tentato di avviare una cooperazione di largo respiro fra le due sponde del Mediterraneo. L’accordo riguardava il progetto di un ‘partenariato globale’ di lungo periodo, che fra l’altro intendeva attribuire particolare rilievo alle ‘società civili’ e alla dimensione culturale. Sono trascorsi oltre dieci anni dalla Dichiarazione di Barcellona, un arco di tempo sufficiente per tentare una valutazione dei risultati ottenuti. Per quanto riguarda il tema della pace e della sicurezza, due vicende hanno segnato l’area euromediterranea nell’ultimo decennio del Novecento e nel primo lustro del Duemila: la prima riguarda il fallimento di ogni progetto di riscatto del popolo palestinese dalla spietata occupazione militare israeliana. La seconda vicenda riguarda la crescente pressione strategica che gli Stati Uniti, direttamente o attraverso la NATO, hanno esercitato nei confronti dell’area euromediterranea, in particolare nei Balcani. Queste due vicende mostrano come il ‘processo di Barcellona’ non abbia impedito che il Mediterraneo e il Medio Oriente divenissero, congiuntamente, l’epicentro di un conflitto mondiale: da una parte le potenze ‘atlantiche’, incluso Israele, e dall’altra i paesi da esse considerati ostili, perché in contrasto con gli ‘interessi vitali’ e le strategie egemoniche dell’Occidente o perché ritenuti terroristici o complici del terrorismo. Anche il partenariato economico-finanziario varato a Barcellona non ha realizzato i risultati che prometteva con la seducente formula della ‘prosperità condivisa’: non ha ridotto lo squilibrio esistente fra le due sponde del Mediterraneo e non ha garantito stabilità e sicurezza. Il Mediterraneo era caratterizzato al momento del lancio del ‘processo di Barcellona’ da un altissimo livello di disomogeneità socio-economica. Questa situazione non solo non è cambiata, ma si è aggravata. In particolare il protezionismo praticato dall’Europa a tutela degli agricoltori europei ha contribuito all’ulteriore impoverimento dei paesi arabi. Mentre è stata liberata la circolazione dei manufatti, per i prodotti agricoli è stato mantenuto un regime di ‘regionalismo bilaterale’ che consente l’applicazione di quote e restrizioni all’importazione di questi beni nei paesi europei. E questo ha inibito lo sviluppo del mercato proprio in un settore nel quale i paesi mediterranei economicamente meno avanzati avrebbero potuto fruire di un vantaggio comparato. Per tradursi in una effettiva esperienza di integrazione economica – con i corollari politici auspicati – il processo di Barcellona avrebbe dovuto intensificare la tensione politica e culturale verso una cooperazione realmente multilaterale. E questo avrebbe dovuto comportare, soprattutto per iniziativa dei paesi euromediterranei come la Spagna, la Francia e l’Italia, un reale trasferimento di risorse, incluse le risorse umane, culturali, scientifiche e tecnologiche, che ponesse in secondo piano i temi della sicurezza, del controllo dei flussi migratori, dello smercio dei prodotti industriali e della protezione dei mercati agricoli.
Quanto al progetto dell’«Union méditerranéenne», recentemente lanciato da Nicolas Sarkozy, risulta difficile darne una precisa valutazione poiché è arduo coglierne le motivazioni e le finalità. Si tratta probabilmente di una confusa ed estemporanea idea neo-coloniale diretta a restituire alla Francia una funzione di controllo del Mediterraneo occidentale, tale da irrobustire il ruolo francese all’interno dell’Unione europea, in competizione soprattutto con la Germania.
Alain de Benoist
La dilatazione globale della potenza marittima fa sì che il Mediterraneo sia diventato, in parte, un mare americano, e allo stesso tempo una delle zone più instabili e pericolose del mondo. Samir Amin ha scritto che il Mediterraneo oggi rappresenta la principale zona di influenza di un’Alleanza atlantica che non è più diretta contro la minaccia sovietica, ma contro il Sud. In qualità di autore di numerosi lavori sul diritto internazionale e sul suo sviluppo, come giudica questa presenza americana nel Mediterraneo? Una «dottrina Monroe» per questa zona del mondo é ancora possibile?
Danilo Zolo
L’atlantismo contemporaneo, figlio legittimo di una strategia imperiale, segna una crescente subordinazione politica e militare dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti, al cui ombrello nucleare e satellitare gli europei continuano a delegare la propria sicurezza anche dopo la scomparsa del pericolo sovietico. Superato il bipolarismo, la NATO si è convertita in un apparato bellico di portata globale ed è stata utilizzata dagli Stati Uniti per tre finalità strategiche: anzitutto per accerchiare la Russia, arruolando nelle proprie fila un numero crescente di paesi dell’Est europeo da agganciare al baluardo atlantico della Turchia. In secondo luogo, la NATO è stata usata per coinvolgere l’Europa nelle ‘guerre umanitarie’ nei Balcani e in Afghanistan, in modo da scoraggiare i suoi timidi tentativi di dotarsi di una struttura militare autonoma. Last but not least, la NATO ha consentito agli Stati Uniti di tenere sotto il proprio presidio politico e militare l’area mediterranea, escludendone l’Europa. A quest’ultimo obiettivo obbedisce in particolare il disegno strategico intitolato Broader Middle East and North Africa Initiative (BMNA), varato dall’amministrazione Bush nel giugno 2004 e subito accolto dalla NATO. A favore della “modernizzazione” del mondo islamico e in nome dei “valori universali della dignità umana, della democrazia, dello sviluppo economico e della giustizia sociale” gli Stati Uniti intendono porre sotto il proprio controllo l’intera area che va dalla Mauritania e dal Marocco – dove hanno interessi petroliferi e già dispongono di numerose basi militari – all’Afghanistan e al Pakistan, passando per il Medio Oriente e i paesi del Golfo persico. Israele è pensato come l’architrave di questa strategia ‘atlantica’ e anti-mediterranea, mentre la questione palestinese resta del tutto emarginata. Com’è naturale, la pressione politica nei confronti del mondo arabo viene accompagnata da iniziative economiche, che si sommano agli ingenti finanziamenti di cui godono da tempo paesi arabi ‘moderati’ come l’Egitto e la Giordania. Per questo fine è stato avviato, in parallelo a quello del Broader Middle East, un altro progetto, il Middle East Partnership Initiative (MEPI, che prevede finanziamenti per 40 milioni di dollari destinati alle associazioni e ai mezzi di comunicazione di massa, chiamati pudicamente “organi di diplomazia pubblica”, favorevoli agli Stati Uniti.. È dunque il caso di chiedersi in che senso, in nome di quali valori e di quali interessi comuni l’Europa può continuare a far parte dell’Occidente e non debba invece puntare su una sua crescente autonomia, su una sua nuova centralità geopolitica come “grande spazio” (Großraum), ispirandosi, come ha suggerito Schmitt, alla concezione originaria della “dottrina Monroe”. Si tratterebbe di un’Europa radicata nella sua millenaria cultura, nelle sua radici mediterranee, nella sua capacità di un approccio non fondamentalista ai problemi del dialogo fra le civiltà e della pace mondiale. Non è chiaro perché l’atlantismo dovrebbe essere il destino irreversibile dell’Europa e del Mediterraneo.
Alain de Benoist
A partire dalla seconda guerra mondiale, le relazioni tra Europa e mondo arabo si sono inscritte nella logica della potenza strategica degli Stati Uniti. Sembra che gli Europei abbiano lasciato agli Americani la gestione del conflitto israelo-palestinese. Poiché la stabilità del mondo mediterraneo dipende fondamentalmente dalla risoluzione di questo conflitto, a Suo parere quale soluzione è possibile? Uno «Stato palestinese» come lo vorrebbe la comunità internazionale ma di cui Israele non vuole ovviamente sentire parlare? Uno Stato unico per ambedue i popoli come suggeriva Martin Buber che però Israele vuole ancora meno?
Danilo Zolo
Una condizione essenziale per il recupero dell’unità del Mediterraneo e per la pacificazione del Medio Oriente (e del mondo) è senza dubbio la soluzione della questione palestinese. E questa soluzione ha a sua volta come condizione il superamento della ideologia sionista. L’intera vicenda dell’invasione ebraica della Palestina e della autoproclamazione dello Stato di Israele ruota attorno ad una operazione ideologica che si è incarnata in una strategia politica di lungo periodo: la negazione dell’esistenza del popolo palestinese e quindi la piena disponibilità delle sue terre all’occupazione da parte di Israele. La negazione dell’esistenza di un popolo nella terra dove si intendeva installare lo Stato ebraico è lo stigma coloniale che caratterizza sin dalle sue origini il movimento sionista: un movimento del resto strettamente legato alle potenze coloniali europee e da esse sostenuto in varie forme. Dopo aver a lungo progettato di costituire in Argentina, in Sudafrica o a Cipro la sede dello Stato ebraico, la scelta del movimento sionista cadde sulla Palestina non solo e non tanto per ragioni religiose, quanto perché si sosteneva, assieme a Israel Zangwill, che la Palestina era “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Ed è in nome di questa logica coloniale che nel 1948 iniziò l’esodo forzato di grandi masse di palestinesi – non meno di settecentomila – anche grazie al terrorismo praticato da organizzazioni sioniste radicali come la Banda Stern e l’Irgun Zwai Leumi, celebre per aver raso al suolo il villaggio di Deir Yassin e sterminato i suoi 300 abitanti. Ma la ‘liberazione’ dei territori palestinesi – chiamata dagli israeliani ‘guerra di indipendenza’ – fu opera soprattutto dell’esercito israeliano, l’Haganah, per volontà dei suoi generali e dei leader sionisti che intendevano espandere i confini dello Stato ben oltre quelli indicati dalle Nazioni Unite. Nel 1949, alla fine della guerra arabo-israeliana, Israele occupava infatti non il 56% dei territori della Palestina mandataria, ma oltre il 78%. Questo accertamento storico – che dissolve i miti e gli stereotipi del nazionalismo sionista e presenta in nuova luce l’intera vicenda dei rifugiati palestinesi – è il clamoroso risultato delle indagini storiografiche compiute da un folto gruppo di ‘nuovi storici’ israeliani che hanno potuto disporre, a partire dalla fine degli anni settanta, dei documenti degli Archivi di Stato. Ha preso così avvio in Israele, attorno alle università di Beer Sheva e di Haifa, una vera e propria scuola storiografica – ma anche archeologica, antropologica e sociologica – che critica il sionismo e propone una rilancio ‘post-sionista’ della politica di Israele. Gli esponenti ‘revisionisti’ più noti sono Avi Shlaim, Simha Flapan, Beny Morris, Tom Segev e soprattutto Ilan Pappe, che si è spinto sino a parlare di “pulizia etnica del 1948”. Secondo Pappe la ‘pulizia etnica’ è stata varata dal governo israeliano, guidato da Ben-Gurion, nel marzo del 1948, con un piano preciso e articolato, il Piano Dalet, di “de-arabizzazione della Palestina”. E da allora, egli sostiene, l’epurazione non si è più fermata. La situazione attuale vede ormai l’intero popolo palestinese disperso, oppresso, umiliato, ridotto in povertà e fatto oggetto di una violenza spietata che Israele ritiene proporzionata agli attentati terroristici che ha subito nel corso della prima e della seconda Intifada. Se già alla fine del 1948 Israele occupava il 78% della Palestina mandataria, oggi, dopo la Guerra dei 6 giorni, la occupa al 100%, avendo invaso i territori rimasti ai palestinesi e avendo annesso anche Gerusalemme. L’epurazione etnica è stata via via accompagnata dalla espropriazione delle terre, dalla demolizione di migliaia di case palestinesi, dalla cancellazione di interi villaggi, dall’intrusione di imponenti strutture urbane nell’area di Gerusalemme araba e di Nazaret, dall’abbattimento di centinaia di migliaia di olivi e di alberi da frutta. Ma è soprattutto la vicenda degli insediamenti coloniali nei territori occupati a fornire la prova del buon fondamento dell’interpretazione ‘colonialista’ del sionismo proposta da Edward Said. Come spiegare altrimenti il fatto che, dopo aver conquistato il 78% del territorio della Palestina storica, dopo aver annesso Gerusalemme est ed avervi insediato non meno di 180 mila cittadini ebrei, lo Stato di Israele si è impegnato in una progressiva colonizzazione anche di quell’esiguo 22% rimasto ai palestinesi, e già sotto occupazione militare? Come è noto, a partire dal 1968, per iniziativa dei governi sia laburisti che di destra, Israele ha confiscato circa il 52% del territorio della Cisgiordania e vi ha insediato oltre 200 colonie, mentre nella popolatissima e poverissima striscia di Gaza ha confiscato il 32% del territorio, istallandovi circa 30 colonie. Dopo lo sgombero unilaterale della striscia di Gaza, voluto nel 2005 da Sharon, oggi non meno di 400 mila coloni risiedono nei territori occupati della West Bank. Vivono in residenze blindate, collegate fra loro e con il territorio dello Stato israeliano attraverso una rete di strade (le famigerate by-pass routes), interdette ai palestinesi, che segmentano e lacerano i territori occupati. Per tacere delle centinaia di checkpoints, della depredazione delle risorse idriche, della carcerazione o uccisione ‘mirata’ di leader politici, del milione e mezzo di persone che a Gaza vivono in condizioni disperate, come ha provato, con una analisi agghiacciante, Sara Roy. E a tutto questo, per volontà di Sharon, si è aggiunta la ‘barriera di sicurezza’ che ha rinchiuso le comunità palestinesi della Cisgiordania in prigioni a cielo aperto. A questo punto, come tentare di risolvere la ‘questione della Palestina’? Come riportare la pace fra Israele e il popolo palestinese e, più in generale, fra arabi ed ebrei? Ciò che si può sostenere con sicurezza, assieme a Martin Buber, Edward Said e Ilan Pappe e all’intera scuola dei ‘nuovi storici’ israeliani, è che il peccato originale dello Stato di Israele è il suo carattere sionista. Il sionismo, grazie al sostegno militare ed economico – tre miliardi di dollari all’anno – degli Stati Uniti e all’omertà dell’Europa, ha fatto dello Stato di Israele una sorta di ‘cuneo atlantico’ nel cuore del Mediterraneo, ha lacerato la continuità umana, politica e culturale della sua sponda orientale, ha cancellato l’identità di un popolo mediterraneo, trasformandolo in una massa di rifugiati, di epurati e di oppressi. Per questo la ‘questione della Palestina’ è una questione mediterranea e la soluzione non può essere cercata se non nella direzione del ‘post-sionismo’. E questo non può che significare, anzitutto, come auspicava Martin Buber, l’abbandono del carattere etnocratico dello Stato israeliano, la sua piena secolarizzazione e democratizzazione. E comporta, ancora con Buber, l’abbandono dell’idea dei ‘due Stati per due popoli’, quello ebraico e quello islamico, l’uno giustapposto all’altro. L’idea che oggi sia ancora possibile la formazione di uno Stato palestinese è patetica illusione o crudele impostura, nonostante il suo grande valore simbolico, le giuste aspettative della maggioranza dei palestinesi e il suo pieno fondamento nel diritto internazionale. Gli effetti della discriminazione etnica sono ormai irreversibili: mai uno Stato palestinese degno del nome sorgerà sulle rovine di Gaza e della Cisgiordania. La sola prospettiva, altamente problematica ma senza alternative, è quella di uno Stato israelo-palestinese ‘post-sionista’, laico ed egualitario, che riconosca eguali diritti a tutti i suoi cittadini.
Alain de Benoist
In libri recenti, Târiq al-Bishrî e Hamadi Redissi dimostrano benissimo come il contatto con l’Occidente abbia prodotto nel mondo islamico un vero «trauma della modernità» (sadmat al-hadatha). Fino alla metà degli anni 1960, le elite arabe e del Vicino-Oriente avevano scommesso tutto sulla modernità forzata. L’impresa è fallita e il fondamentalismo l’ha sostituita. Allo stesso tempo, vediamo chiaramente che la critica alla modernità da parte dei fondamentalisti contiene una fascinazione per essa che non si osa esprimere apertamente. Sapendo che la «modernizzazione» è l’adozione simultanea della società di mercato, dell’ideologia dei diritti umani, dell’individualismo occidentale, della democrazia liberale e dello «Stato di diritto», come vede i rapporti del Sud con la modernità? Cosa pensa dell’atteggiamento di quelli che, giudicando la modernizzazione una necessità, sostengono che il modello occidentale debba essere esportato nel mondo arabo-musulmano?
Danilo Zolo
Ci sono autori che identificano tout court i processi di globalizzazione con la diffusione della modernità occidentale. Fra questi ci sono filosofi e sociologi europei, come Jürgen Habermas, Ralf Dahrendorf, Antony Giddens, Ulrich Beck, per i quali il problema cruciale del nostro tempo non è quello del dialogo e del reciproco rispetto fra le diverse civiltà e culture del pianeta. Il problema principale è l’unificazione del mondo attorno ai valori dell’Occidente, assunti come universali o come universalizzabili. Ciò che si trova oltre il cerchio della modernità occidentale è arretratezza economica, oscurantismo, fanatismo, oppressione. In opposizione a questo punto di vista, per quanto riguarda un possibile dialogo fra l’Europa e la cultura islamica, centrale è il tema del rapporto fra Islam e modernità. Va sottolineato anzitutto che questo rapporto ha tormentato il mondo arabo-islamico sin dagli inizi dell’Ottocento, a partire dalla vittoriosa spedizione di Napoleone Bonaparte in Egitto. La dolorosa esperienza della ‘scoperta dell’altro’ come potente e come vincitore si è ripetuta più volte nel corso dell’era coloniale fra Ottocento e Novecento e ancor di più nella seconda metà del secolo scorso, a causa delle ‘umiliazioni’ che l’Occidente, direttamente o tramite lo Stato israeliano, ha inflitto al mondo arabo: anzitutto la sconfitta subita nel 1949 da parte delle armate israeliane e, nel 1967, la completa occupazione dei territori palestinesi a conclusione della Guerra dei sei giorni; poi è intervenuto il trauma della guerra del Golfo del 1991 – una sconfitta che Fatema Mernissi ha posto in particolare rilievo -, e infine l’aggressione anglo-americana contro l’Iraq del marzo 2003. Come hanno sostenuto Târiq al-Bishrî e Hamadi Redissi, il ‘trauma della modernità’ è una lesione che continua a ‘destrutturare’ e a lacerare il mondo islamico. È quella che Samir Kassir, prima di essere assassinato, aveva chiamato ‘la sindrome delmalheur arabe’, l’infelicità degli arabi. Le aggressioni coloniali e postcoloniali che i paesi arabi hanno subito, assieme all’oppressione politica ed economica che ne è seguita, hanno introdotto una profonda ‘divisione’ entro la maggior parte delle istituzioni intellettuali, educative, politiche ed economiche del mondo arabo. L’assoluta superiorità degli invasori, in materia di scienza, tecnica, organizzazione politica e normazione giuridica, ha costretto gli arabi a imparare dai loro nemici e a seguirne le regole. Ciò li ha posti in una situazione paradossale: resistere con tutti i mezzi alle potenze coloniali e nello stesso tempo imitarle per tentare di dare efficacia alla resistenza e di sconfiggerle. Questo ha aperto una profonda frattura nei valori di riferimento della società islamica, divisa fra la fedeltà alla tradizione coranica, da una parte, e la necessità, dall’altra, di ‘apprendere dai nemici’, allontanandosi da quella tradizione. La frattura ha generato una sorta di schizofrenia che non riguarda soltanto i rapporti sociali all’interno del mondo arabo-islamico, ma che molto spesso colpisce anche le coscienze individuali, tese fra due possibili modelli di esperienza fra loro in larga misura incompatibili.
Alain de Benoist
Nel vostro libro, Franco Cassano accenna all’opposizione tra due tipi di uomini, che Arnold J. Toynbee descriveva come «Erodiani» e «Zeloti». Gli Erodiani sono quelli che prendono l’Altro come modello e che, sempiterni seguaci e collaboratori, si mettono dalla parte del più forte. Sarebbero oggi gli atlantisti e gli occidentofili. Gli Zeloti sono invece quelli che difendono la loro identità ma in un modo convulso e contratto. Sarebbero oggi i fondamentalisti musulmani. Si può spezzare questa dualità infernale? Sfuggire alla dicotomia «Jihad vs. McWorld»? L’Occidente è capace, secondo Lei, di combattere con efficacia il fondamentalismo islamico senza perdere il suo proprio fondamentalismo che riduce qualsiasi intreccio sociale alla logica di un mercato dove tutto nel mondo può essere acquistato?
Danilo Zolo
L’Occidente non può opporsi al fondamentalismo islamico senza prima rinunciare al suo fondamentalismo, che è, essenzialmente, il fondamentalismo del mercato, del profitto, della produzione e del consumo, sostenuto con la forza del potere militare e in dispregio del diritto internazionale. Se è così, la via della pace nel Mediterraneo e nel Medio Oriente passa per la capacità della ‘vecchia Europa’ di recuperare i suoi valori originari, a cominciare dalla riaffermazione del diritto e delle istituzioni internazionali e della necessità del dialogo e della cooperazione con le altre culture e civiltà, anzitutto con il mondo islamico e quello cinese-confuciano. E la pace internazionale dipende, almeno in parte, dalla capacità dell’Europa di svolgere una funzione di equilibrio strategico in un mondo che tenta di liberarsi dall’unilateralismo imperiale degli Stati Uniti e di darsi un assetto multipolare e policentrico. Si potrebbe sostenere che l’ordine mondiale dipenderà dalla capacità dell’Europa di essere ‘europea’ e cioè sempre meno atlantica e sempre meno occidentale: un’Europa orientata a svolgere un ruolo autonomo nel medio Oriente e nell’Oriente asiatico. L’emergere di grandi potenze regionali come l’India e la Cina rischia altrimenti di fare del Pacifico il nuovo epicentro egemonico del mondo, emarginando ancora una volta l’Europa, il Mediterraneo e i loro valori. La realizzazione di un mondo meno spietato e violento passa dunque, molto probabilmente, (anche) per una strategia euromediterranea che sia capace di fermare il progetto imperiale ‘oceanico’ e di aprire una breccia nella compattezza dello schieramento manicheo che oggi divide il mondo: da una parte alcune grandi potenze occidentali che si ritengono portatrici di valori assoluti e legittimate a usare la violenza per tutelarli e diffonderli, e, dall’altra parte, i paesi islamici dove le armate ‘cristiane’ possono impunemente fare strage di decine di migliaia di persone innocenti e decidere l’impiccagione dei nemici aggrediti e sconfitti. Nella sua attuale subordinazione atlantica l’Europa, dimentica delle sue radici mediterranee, subisce una grave amputazione, che è all’origine della sua incapacità autocritica, della sua debolezza identitaria, della sua impotenza come attore politico internazionale. L’Europa è costretta a pensarsi come ‘Vecchia Europa’, e cioè come una fase superata dello sviluppo storico che ha portato all’affermazione della civiltà occidentale. E in questa prospettiva, salvo la sua arretratezza politica e militare, l’Europa tende a identificarsi con gli Stati Uniti e a condividerne la peculiare concezione della modernità’, con al centro l’individualismo estremo, la pulsione acquisitiva, la competizione, l’efficienza produttiva e la crescita economica, con l’inevitabile corollario della devastazione dell’ambiente.
Alain de Benoist
Il vostro libro si chiama L’alternativa mediterranea. In che senso (e rispetto a cosa) il Mediterraneo costituisce un’alternativa nel mondo odierno? A quali condizioni essa si potrebbe realizzare?
Danilo Zolo
L’unità, l’originalità e la grandezza civile del ‘pluriverso’ mediterraneo sono un patrimonio storico e politico che oggi rischia di essere cancellato, sopraffatto com’è da strategie ‘oceaniche’ – universalistiche e ‘monoteistiche’ – che minacciano non solo la convivenza fra i popoli mediterranei, ma anche l’ordine e la pace internazionale. Per ‘alternativa mediterranea’ si può dunque intendere il tentativo di resistere, facendo leva su un recupero della tradizione e dei valori mediterranei, alla deriva universalistica e ‘monoteistica’ che viene dall’Occidente estremo – gli Stati Uniti d’America – e si abbatte con violenza sul vecchio mondo. L”alternativa’ è denunciare e contrastare il fondamentalismo neo-imperiale – aggressivo e bellicista – che si propone di recidere ogni rapporto fra le due rive del Mediterraneo, subordinando l’Europa allo spazio atlantico e sottoponendo il mondo arabo-islamico ad una crescente pressione politica, economica e militare. È il caso di aggiungere che l’idea di una ‘alternativa mediterranea’ che qui è stata tratteggiata si ispira alla scuola di Algeri e alla lezione braudeliana non solo per il rifiuto di ogni riferimento unilaterale e apologetico alla tradizione romana e cristiano-cattolica, ma anche per la diffidenza ‘realista’ verso una visione nostalgica o romantica del Mediterraneo. La mitologia dell’età dell’oro greco-romana finisce per applicare il paradigma ‘orientalista’ al Mediterraneo stesso, facendone un prezioso fossile della protostoria occidentale, senza prospettive se non quelle del piccolo cabotaggio turistico-commerciale. Predrag Matvejević non ha torto quando insiste nel denunciare il passatismo retrospettivo di molta letteratura mediterranea, che sembra riferirsi agli antichi splendori imperiali – o alla dolcezza del clima, o ai paesaggi pittoreschi – come alle sole possibili fonti della propria legittimazione intellettuale, e non ha energie per concepire un progetto innovativo. L”alternativa mediterranea’ che viene qui proposta vorrebbe valorizzare, piuttosto, la cultura del limes, dei molti Dei, delle molte lingue e delle molte civiltà, del ‘mare fra le terre’ estraneo alla dimensione monista, cosmopolitica e ‘umanitaria’ delle potenze oceaniche. Resta tuttavia una condizione essenziale perché il progetto di revisione e di rilancio della cooperazione mediterranea possa avere un minimo successo: è necessaria un’incisiva trasformazione del rapporto fra il processo di unificazione dell’Europa, la sua appartenenza all’emisfero occidentale e le sue radici mediterranee. Oggi l’Europa, nella percezione diffusa degli europei e non solo nella ideologia dei neocon statunitensi, è la periferia sud-orientale dello spazio atlantico, mentre il centro è saldamente ancorato alla Statua della libertà. L’Europa unita ha oggi una popolazione che è più del doppio di quella statunitense ed è quattro volte quella del Giappone. È la prima potenza commerciale del mondo e il suo Prodotto interno lordo è pari a un quarto del Prodotto interno lordo mondiale. Ma sul piano politico e militare l’Europa è inesistente: è semplicemente la frontiera che separa l’emisfero occidentale dall’oriente asiatico e dal mondo islamico. E l’Europa è sempre più in ritardo sul quadrante di una storia contemporanea che l’energia distruttiva e innovativa del ‘nuovo mondo’ americano ha spinto verso una mutazione continua. Ed è naturale che l’ideologia politica e militare dell”atlantismo’ continui a raccogliere forti consensi in Europa, soprattutto nell’area anglosassone e nell’Est europeo, che hanno avuto deboli interazioni con le culture fiorite sulle sponde del Mediterraneo, quella arabo-islamica in particolare.
*Fonte: Éléments, 129 (Été 2008), pp. 26-32. Traduzione delle domande dal francese all’italiano a cura di Benoît Challand.
Note
1. Danilo Zolo, Franco Cassano (a cura di),
L’alternativa mediterranea, Milano, Feltrinelli, 2007, 659 pagine.