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SINDACALISMO E CRISI SISTEMICA

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Marchionne e Elkann


Bertone di Grugliasco

insegnamenti generali di una sconfitta annunciata

di Moreno Pasquinelli

L’ex stabilimento Bertone (ora denominato OAG, Officine Automobilistiche Grugliasco), poco più di mille e cento dipendenti da sei anni in Cig, venne acquisito dalla Fiat nell’estate del 2009, dopo anni di stato comatoso di gestione commissariale. Ovviamente la FIAT fece un affare, il tutto sotto gli auspici del governo Berlusconi e dell’allora Ministro Scajola il quale, dichiarò: «La cessione a Fiat consente di garantire il futuro di uno stabilimento storico dell’industria piemontese. Il piano prevede, infatti, il riassorbimento dei 1.137 dipendenti, che verranno gradualmente reinseriti nelle loro mansioni, e l’integrazione con la Chrysler per la produzione in Italia di alcuni modelli della Casa americana». (La Stampa, 5 agosto 2009)
I sindacati, FIOM compresa, non batterono ciglio, credettero al “piano FIAT” del “compagno Marchionne”. Il “piano”, come dimostrano le ultime vicende, era ovviamente una bufala: ora la FIAT non parla più di produrre modelli Crysler, bensì di sfornare 50mila vetture della nuova Maserati, per un investimento pari a circa 500 milioni di euro. Il tutto alla condizione che gli operai accettino le medesime condizioni capestro imposte negli altri stabilimenti del gruppo FIAT, ovvero un contratto sui generis in barba a quello nazionale dei metalmeccanici. Altrimenti niente investimento, chiusra delle officine e tutti a casa. 
La Camusso (Pd) e Landini (Sel)
Il 2 e 3 aprile si svolgerà nello stabilimento di Grugliasco un referendum per decidere se capitolare o no all’ultimatum di Marchionne. La FIOM, che ha la maggioranza nella RSU e che ha respinto il ricatto FIAT, ha preso una posizione esilarante: nessuna indicazione di voto, libertà di coscienza.
Immaginiamo che davanti a questa decisione ponziopilatesca, ci sarà chi griderà alla scandalo: “traditori della classe operaia!”. Non è la prima volta che contestiamo questa categoria aleatoria del “tradimento”, e nient’affatto per giustificare certo sindacalismo. Chi non si voglia fermare alla superficie del problema dovrebbe piuttosto chiedersi se anche la vicenda Bertone non mostri un fenomeno ben più profondo, cioè che nell’attuale crisi storico-sistemica del capitalismo occidentale il sindacalismo tradizionale sia destinato a mutare pelle, diventando  un pilastro di un modello neocorporativo e imperialista. Nel giugno dell’anno scorso, in merito alla vicenda di Pomigliano, parlammo di “fascistizzazione soffice del sindacato”. (1)
«Certo, è vero! —ci diranno i paladini del “sindacalismo di base”—, per questo occorre una sindacato di classe». Il fatto è che a nostro modo di vedere la crisi sistemica chiama in causa, non questo o quel diritto acquisito, ma se dalla crisi si debba uscire accettando la completa dittatura del capitale sul lavoro o se invece non occorra fuoriuscire dal capitalismo. Se questa è l’alternativa il sindacalismo, sotto qualsiasi veste, ha ben poco da dire. Esso deve in tutti e due i casi mutare necessariamente di segno e funzione: sia che si faccia organo diretto del comando e della dittatura del capitale sul lavoro, sia che diventi strumento di lotta antisistemica. In tutti e due i casi il sindacalismo diventa un soggetto politico, è obbligato a trascendere la sua natura contrattualistica e tradeunionistica. 
Il caso della Bertone non chiama forse in causa il tanto strombazzato progetto Fabbrica Italia proposto dalla FIAT nella primavera scorsa? E quel piano, oltre a contemplare una visione assolutistica dei rapporti capitale-lavoro, non prefigura forse un preciso modello sociale di riferimento per il futuro del paese?
Si può forse giocare minimalisticamente di rimessa davanti ad un simile progetto? Non chiede esso per caso, al fronte anticapitalistico, un piano alternativo? Un opposto modo di concepire crescita, sviluppo, qualità della vita e del lavoro? Se le principali confederazioni sindacali, pur tra contrasti forti tra di loro, hanno accettato il paradigma marchionnista, la sua idea di crescita e di uscita dalla crisi, il sindacalismo di base ha opposto un tradeunionismo radicale, neanche l’ombra di un programma di fase complessivo che indichi le misure essenziali per salvare il paese che vive di lavoro e dunque una possibile fuoriuscita dal capitalismo.
Tanto per stare al punto. Oramai è chiaro che non abbiamo più la FIAT, bensì Chrysler-Fiat. Che entro breve la testa e il cuore del gruppo torinese saranno a Detroit. Chi può credere che Marchionne ed Elkann manterranno la promessa di investire 20 miliardi di euro in Italia (a tanto ammonterebbe il costo del misteriosofico progetto Fabbrica Italia)? E se il progetto evaporerà, perché Chrysler-Fiat troveranno altri lidi ove investire (o forse disinvestire!) per restare a galla in un mercato automobilistico in strutturale crisi si sovrapproduzione, come dovranno rispondere i lavoratori se non chiedendo la nazionalizzazione della FIAT contestualmente ad un diverso piano di sviluppo?
La FIAT è una multinazionale, un pezzo di una holding finanziaria quotata in più borse e che raccimola utili più dai giochetti nel mercato finanziario che dalla produzione vera e propria e per la quale il settore auto è solo un particolare — e l’Italia un elemento del tutto secondario della propria strategia industriale. Solo nell’acquisizione annunciata il 21 aprile di un altro 16% di Chrysler il Lingotto ha sborsato 1,27 miliardi di dollari, ovvero più del doppio del promesso investimento alla Bertone. Del resto Marchionne punta al controllo pieno dell’azienda americana la quale, non dimentichiamolo, escluso il mercato, ha un debito coi governi americano e canadese di 7 miliardi di dollari che vanno rimborsati entro l’anno. 
Nessuno ha alzato un dito contro questa mossa che rappresenta un mutamento qualititativo per la FIAT e di rimbalzo per l’intero paese. Nessuno, nemmeno la FIOM, che si sta suicidando attestandosi sulla trincea della difesa del contratto nazionale. La foresta brucia e ci si barrica nella capanna di legno che ne sta al centro. Di un piano generale per il lavoro, di un programma nazionale d’emergenza, neanche l’ombra, tanto meno alla base dello scioperetto generale del 6 maggio.
Nella crisi generale e sistemica o si resiste in vista del contrattacco o tutto sarà perduto. O si combatte sulla base di un programma globale alternativo per aggredire la crisi oppure, se ci si limita a difendere sindacalisticamente questo o quel diritto, entro poco tempo, li avremo ceduti tutti.
Tanto per dare una dimensione al problema di cui parliamo. Tutti si inginocchiano davanti alla promessa FIAT di un investimento (Fabbrica Italia) di 2o miliardi di euro. Può apparire una cifra enorme, e lo è, ma è solo un ventesimo del debito pubblico italiano! Ed è una cifra minore dei 27 miliardi di titoli di stato (BoT e CTz)  che il governo cercherà di vendere all’asta della prossima settimana. 27 miliardi che serviranno a galleggiare sull’abisso, a pagare gli interessi sul debito che vanno inesorabilmente maturando —tra i cui titolari ci sono banche e gruppi industriali come FIAT che utilizzano il ricavato per disinvestire in Italia e investire all’estero.
Insomma: nessuna vertenza sindacale importante, nemmeno una di media dimensioni come quella alla Bertone, può essere vinta attestandosi sul minimalismo contrattualistico. Vuol forse dire che non si deve ingaggiare battaglia? certo che no. Solo che chi va in battaglia senza vedere che c’è una guerra, senza pretendere di volerla vincere, è destinato ad una sconfitta dietro l’altra. I lavoratori, lasciati alla sbando, senza una prospettiva generale, non avranno altra scelta che capitolare al padrone, pena essere gettati sul lastrico (o sperare di tirare a campare in Cig). Difendere i diritti dei lavoratori senza dire che data la crisi sistemica è l’economia e il modello sociale che vanno cambiati (dando risposte sul debito pubblico, sul ruolo e la proprietà delle banche, sulla sovranità monetaria, sulla collocazione geopolitica dell’Italia, sul quale Repubbblica dovrà sostituire la moribonda seconda) è come voler proteggersi dall’uragano portandosi appresso l’ombrello. E non pianga quindi, chi segue questa strada suicida, se grandi masse domani si affideranno a qualche populistico e reazionario salvatore della Patria.
Note

(1) «La FIOM, per aver tenuto una posizione di rifiuto, è adesso sottoposta ad un fuoco di fila di accuse, alle quali fanno da sponda settori del PD e della stessa CGIL (vedi le dichiarazioni di Epifani). Ma cos’altro poteva fare la FIOM? Essa aveva in buona sostanza accettato l’impianto di fondo neo-schiavistico del documento FIAT, accettandone gli obbietivi di fondo. Chiedeva una modifica del documento per rimuovere alcune clausole che implicano null’altro che la fine del sindacalismo, la sua sussunzione competa all’azienda, la sua definitiva e formale trasformazione in un organismo aziendale di controllo della forza lavoro. Una fascistizzazione soffice della burocrazia sindacale». (Se questi son “riformisti”)

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