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CONTRO L’EURO

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In risposta a chi crede che l’Unione monetaria sia un contr’altare allo strapotere americano
di Claudio Martini*
«La cosiddetta ”italietta”, in realtà, è un grande paese, potenzialmente ricchissimo, è l’unica trincea possibile da cui i lavoratori italiani possono difendere se stessi e il proprio futuro. Per fare questo però devono scrollarsi di dosso il soffocante fardello dell’euro e della UE; e prima ancora, liberarsi dell’idea che il sistema sia riformabile dall’interno. Non è così. Chiunque conosca l’impianto giuridico dell’Unione sa che è praticamente impossibile modificarne l’assetto istituzionale per via democratica. Chiunque proponga una via diversa dall’uscita dal progetto europeo propone di fatto l’immobilismo». 
Ho letto con grande interesse l’intervento di Daniela Salvini «Una parola a favore dell’euro». Esso mi dà la possibilità di sviluppare una replica esaustiva e pertinente, tanto che credo che una critica serrata dell’articolo in questione possa costituire la base di una critica generale del progetto europeo. L’articolo, infatti, è un tale concentrato di errori, pregiudizi, luoghi comuni e fuochi fatui, diffusi in particolar modo a sinistra, che una sua efficace confutazione consentirebbe di minare alla base l’impalcatura di menzogne che ancora tiene prigioniera tante persone. Muse, ispiratemi.

Partiamo con una citazione del testo di Salvini.
L’euro, oggi, malgrado le vicissitudini della crisi mondiale e quelle legate alla situazione europea, mantiene una certa forza all’interno dei paesi dell’eurozona e più in generale nell’ambito internazionale. Le ragioni sono molto complesse e richiederebbero un discorso a sé. Accennerei però a quello che mi sembra il più influente. Essere moneta di riserva: la Cina, ad esempio, ma non solo, l’acquista e la tiene in alternativa al dollaro. Mantenere forte questa moneta potrebbe essere 
utile a svincolare l’Europa dal destino e dalla volontà dell’Impero.”

Qui ci troviamo di fronte ad uno dei miti più longevi e resistenti a qualsiasi evidenza degli ultimi anni. L’Europa in quanto contro-potere degli USA, e l’euro quale contropotere del dollaro.

Ora, l’euro non esiste da ieri. Esso è entrato in corso come moneta scritturale il 1 gennaio 1999, come contante nel 2002. è passato abbastanza tempo per stilare un pur sommario bilancio. Nel corso del primo decennio di questo secolo l’euro non ha fatto altro che apprezzarsi su un dollaro trascinato in basso da una politica di bassissimi tassi di interesse e da una bilancia commerciale in deficit cronico. Dato che la moneta cinese, il Renminbi, segue la quotazione del dollaro attraverso un meccanismo di pegging, ciò ha avuto come conseguenza una decisa affermazione delle merci cinesi sul mercato americano, a scapito dei più costosi prodotti europei. Questo ha peraltro permesso a Washington di legare alle sue sorti l’economia di Pechino, dato che le immense riserve di dollari accumulate dall’export cinese sono state re-investite in titoli di stato Usa, in modo da stabilizzarne l’economia e favorirne i consumi. 

L’euro forte tra monete piuttosto deboli (sterlina aparte) ha rappresentanto una vera palla la piede per le economie dell’eurozona, in particolare per chi vive soprattutto di esportazioni e turismo: in primo luogo l’Italia, dunque. Questo fenomeno ha riguardato solo parzialmente la Germania, che è sì un paese che campa di esportazioni industriali,

ma di prodotti destinati soprattutto ai consumatori europei. Il mercato unico e la valuta comune favoriscono le imprese tedesche, e l’ovvio risultato è stato, in questi anni, un deciso allargarsi dei deficit commerciali dei paesi mediterranei (Grecia in testa) a tutto vantaggio di quelli mitteleuropei (come l’Austria, e persino la Polonia).
Ciononostante la crisi di competitività derivata dall’eccessivo valore della valuta unica, unita ai nefasti effetti di una politica monetaria, da parte BCE, perennemente restrittiva, non ha risparmiato neppure i lavoratori tedeschi, che si sono visti negare per anni, insieme ai loro colleghi europei, qualsiasi aumento dei salari reali. Ecco come l’Europa è riuscita a mantenersi sui mercati internazionali: con la moderazione salariale. In Italia, ovviamente, più che altrove.
L’impossiblità, sancita di fatto dai Trattati europei, di politiche redistribuitive e di sviluppo di ispirazione keynesiana, il dilagare di privatizzazioni e deregulation, i diffusi tagli ai vari welfare della zona euro hanno avuto come conseguenza una depressione delle varie domande aggregate; a questo dato alcuni paesi, come la Spagna, hanno pensato di far fronte sviluppando in maniera abnorme il mercato dei crediti e il settore immobiliare, trainati da una impressionante crescita dell’indebitamente privato, modello Subprime. La monarchia iberica era, fino a qualche anno fa, il fiore all’occhiello del progetto europeo: giovane, dinamica, liberale. S’è visto come è andata a finire. Insomma, si può concludere con un suggerimento dell’economista Emiliano Brancaccio:

«Il grande limite dell’Europa, rispetto agli USA, risiede principalmente nella moneta. Gli Stati Uniti, forti della posizione di dominio monetario internazionale garantita dal dollaro, hanno per lungo tempo governato endogenamente lo sviluppo nazionale e mondiale. L’Europa invece si è mossa al traino, in una posizione che sul piano macroeconomico è stata quasi sempre subordinata agli USA. La stessa moneta unica non è nata con il proposito di diventare una moneta internazionale realmente alternativa al dollaro, ma sembra piuttosto essersi proposta quale baluardo della stabilità monetaria, una sorta di rifugio per il capitale ogni volta che il dollaro fosse stato soggetto a crisi e fluttuazioni eccessive. Fino ad oggi, dunque, le autorità europee non hanno quasi mai messo seriamente in discussione il primato macroeconomico e monetario americano».
In generale, chiunque ritenga che ci debba essere una alternativa valutaria allo strapotere del dollaro (unico vero “signoraggio” esistente nel mondo) dovrebbe riflettere su un fatto: le basi dell’egemonia finanziaria americana non sono di natura economica, bensì politica, o megliomilitare. Il dollaro non è la moneta di riserva globale in quanto l’industria Usa è fiorente o le loro banche puntuali nei pagamenti, ma in quanto la Us Navy dispone di undici (11) super-portaerei a propulsione nucleare da oltre 140000 tonnellate di stazza, mentre il resto del mondo può mobilitarne soltanto due (2). E’  il potere militare che fonda quello economico, e non viceversa. 
Il petrolio non si scambierebbe soltanto in dollari se gli Usa non occupassero militarmente il Medio Oriente. In questo quadro, pensare che l’egemonia del dollaro possa essere scalfita da una elefantiaca buro-organizzazione quale l’Unione Europea, che non ha una volontà comune se non quando si tratta di servire Washington, e non sa fare altro che deprimere la propria economia imponendo al Portogallo lo stesso tasso di cambio del Lussemburgo è semplicemente ridicolo.

Meglio sarebbe che ci fosse una platea di stati europei indipendenti e sovrani, alla De Gaulle, che decidessero di liberarsi dell’opprimente tutela NATO e di rompere le uova nel paniere geopolitico di Washington tutelando, volta per volta, i loro interessi. E se questo dovesse degenerare in una rivalità intra-europea, pazienza; almeno si dividerebbe il fronte imperialista, e non assisteremmo a quella patetica riedizone della Santa Alleanza che oggi bombarda Tripoli, e ieri Belgrado.

Riprendiamo il discorso della Salvini.

“L’inflazione non è un fenomeno neutrale perché sposta le ricchezze da alcune categorie di soggetti ad altre, in modo selvaggio. Ha conseguenze fortemente negative per tutto il sistema economico, ma aggrava la posizione di taluni, i percettori di redditi fissi in primis, quella dei piccoli risparmiatori, quella degli investitori che vengono scoraggiati, e altri ancora. Dunque, viene danneggiata la grande massa dei cittadini, i ceti subalterni in particolare. I percettori di redditi variabili, e tra questi metterei anche i rentiers, che possono scegliere fra una 
gamma infinita di prodotti, sul mercato finanziario, sono maggiormente in grado, per gli aumenti 

subiti, di scaricare sui prezzi, che “fanno” loro stessi, l’aggravio dei costi. A volte addirittura li 

anticipano, diventando essi stessi causa di ulteriore inflazione, con ripetuti effetti a catena.”


Di fronte questo minaccioso sventolamento dello spauracchio-inflazione, non resta che dare la parola a un autore particolarmente osteggiato da Salvini, ossia Paolo Barnard.

«Naturalmente i teorici del neoliberismo, che già dalla fine degli anni ’60 bombardavano il mondo economico internazionale con la falsa idea che gli Stati a moneta sovrana

spendono come i cittadini, cioè che s’indebitano come i cittadini, che è del tutto falsa come ho 
spiegato nei capitoli precedenti. Da qui il terrore del Debito pubblico come problema di Stato. Ma furono Milton Friedman e i suoi Chicago Boys a mettere il sigillo dell’autorevolezza a questo assurdo concetto, quando sostennero che la Phillip’s Curve era sbagliata. Spiego: essa è una teoria monetaria che sostiene che se la disoccupazione cala, aumenta anche l’inflazione, perché più persone ricevono uno stipendio, spendono di più e questo aumenta la quantità di denaro circolante. Se il denaro aumenta e non aumentano parallelamente anche i prodotti sul mercato, allora si ha inflazione . Questo può succedere, ma è dimostrato che non fa danni, poiché anche se i prezzi salgono un poco, il beneficio per la collettività di avere meno disoccupati è assai superiore.

Friedman dichiarò invece che nella Phillip’s Curve il calo della disoccupazione non avrebbe solo 
portato a un aumento proporzionale dell’inflazione, ma avrebbe proprio scatenato una spirale 

d’inflazione esponenziale fuori controllo. Un disastro, terrificante,  figlio del ‘terribile’ Debito pubblico 

anch’esso.

Questo fantasma fittizio, poi ampiamente smentito, come si diceva fece presa nell’immaginario 
dell’ortodossia economica del mondo che conta, politici asserviti inclusi naturalmente. Insomma, il 

dogma divenne che abbassare la disoccupazione ci faceva male, quando nella realtà avrebbe fatto 

male solo alle elites rapaci del Vero Potere, e salvato invece milioni di cittadini degni».

Capito a chi conviene il terrorismo sull’inflazione? Ma andiamo avanti.
«L’economia reale italiana non potrebbe rimanere indifferente ad un cambio che muta sempre a suo svantaggio perché il paese è da sempre caratterizzato da grande povertà di materie prime che si procura all’estero».
Come ho già scritto, il predominio degli Usa non ha ragioni economiche, ma militari. Silla diceva: “chi ha la spada ha anche la borsa”. La politica prevale sempre sull’economia. Ecco perché, a mio parere, la questione monetaria si intreccia con quella della nostra collocazione internazionale.

È un fatto che una moneta svalutata pone lo stato che la emette in una posizione di debolezza nel mercato delle materie prime. Tuttavia, le grandi potenze non si procurano le materie prime soltanto con gli strumenti propri del banchiere e dell’economista, ma anche con una intervento diretto dei propri servizi di sicurezza, interferendo con la politica interna degli stati detentori delle risorse. Si chiama imperialismo: con le armi della politica le grandi potenze creano condizioni economiche favorevoli. Ora, io non propongo di mettere in campo metodi orribli come le infiltrazioni di servizi segreti o le invasioni militari per accaparrarci le materie prime, ma sostengo che relazioni politiche privilegiate con i principali paesi esportatori di idrocarburi e non solo, come il Sudan, L’Iran, la

Russia o il Venezuela ci permetterebbero di aggirare gli svantaggi di una moneta debole. 
Per farlo occorre una decisa svolta nella nostra politica estera, dato che, per pura coincidenza, quei paesi si trovano perennemente nel mirino NATO e media dei paesi occidentali fanno a gara a chi ne demonizza in maniera più creativa le guide politiche. Un cambiamento della nostra collocazione internazionale, che rompa il tetragono schieramento occidentalista in favore dei paesi emergenti e ostili all’imperialismo ci darebbe accesso ad un canale di favore per le materie prime di cui il nostro apparato industriale abbisogna.

Ancora la Salvini:

«Lasciamo la moneta che c’è e cambiamo eventualmente il modo di usarla, sia nel microcosmo che nel macrocosmo. Cerchiamo di pensare a ridurne l’uso piuttosto, a cambiare la mentalità riguardo alle nostre priorità».

Che significato può avere questo passaggio? I vaghi accenni a situazioni che hanno a che fare con la nostra intimità più che con l’azione politica (“la nostra mentalità”), nonché i riferimenti meramente onirici (“microcosmo che nel macrocosmo.”) non lasciano adito a dubbi: la linea suggerita dall’autrice è quella dell’impotenza e dell’opportunismo. Ciò è confermato dal seguente svolgimento:

«Chiedo invece un’Europa più indipendente dall’Impero, meno liberista e svincolata dalle agenzie di 
rating americane, con regole severe che limitino la speculazione per uscire dal ricatto sui debiti 

sovrani, che potrebbero benissimo essere ristrutturati. Un’Europa con norme fiscali uniformi, che 

stabiliscano imposte progressive, imposte patrimoniali, che voglia regolare i propri debiti, pubblici 

e privati, con l’inaugurazione di stagioni austere un po’ per tutti, ma senza colpire in particolare i 

ceti meno abbienti. Immagino programmi per favorire l’occupazione, attuati cambiando i modi di 

produrre, in un quadro di produzione quantitativa globale minore, più essenziale, più utile alla 

comunità».

E io invece chiedo più felicità, più equilibrio, e soprattutto meno invidia.

A chi sono rivolte le preghiere dell’autrice? Quando chiede più indipendenza dall’America, si

rivolge a David Cameron piuttosto che agli sciovinisti Polacchi e Baltici? E quando si dice incline a un Europa meno liberista, a chi parla? Forse ai falchi neo-liberisti della Commisione Europea? E chi dovrebbe acconsentire a “norme fiscali uniformi”? Forse i contribuenti finlandesi e Olandesi, a cui si dovrebbe chiedere di accollarsi con le proprie tasse i debiti dei greci?

Questi propositi sono talmente sognanti irrealistici da risultare risibili. Una visione analisi così sballata, così estranea alla cruda evidenza, non può che avere un origine ideologica. Questa interpretazione è secondo me dimostrata dalle seguenti parole:

«Agli italiani, come agli spagnoli, che sembrano avviati alla lotta, o ai greci, converrebbe aprire un 
dialogo fra loro, contro gli stessi programmi imposti, le stesse proposte, le stesse speculazioni. Se si considera il suolo europeo come territorio nazionale e la popolazione europea come un insieme 

composito e diversificato, ma unico, si possono chiaramente individuare interessi comuni, o 

altrettanto, soggetti nemici comuni oppressori: le stesse banche, le stesse istituzioni, gli stessi centri 

di potere, gli stessi controlli».


“Se si considera”… appunto, SE. 
E perché mai si dovrebbe considerare l’insieme dei popoli europei come qualcosa di composito e diversificato, ma unico? Non esiste un popolo europeo. Punto. Non

esiste alcuna solidarietà europea: nessuno, in Europa, ha manifestato pubblicamente preoccupazione per la sorte dei “fratelli” greci. “Una d’arme di lingua, d’altare, di memoria di sangue di cor” cantava il Manzoni riprendendo la definizione di Vico di Nazione. 
Quale di questi elementi lega oggi il belga al rumeno, il cipriota all’irlandese? I popoli europei non solo non si amano, ma a malapena si sopportano. I popoli europei non hanno interessi comuni, ma egoismi e rivalità.  L’unico grande movimento che, nel 900, è riuscito a indebolire i vari sciovinismi etnici e nazionali è stato il comunismo. Caduto quello, sono subentrati il separatismo (Cecoslovacchia) e la guerra (Jugoslavia).

Concludiamo con l’ultima citazione.

«Gli Stati nazionali sono già disgregati per l’opera delle multinazionali, le classi politiche e

dirigenziali di ognuno sono manipolati dall’esterno. Vale la pena ripristinare l’Italietta? Non è che 
può essere spazzata via dalla sera alla mattina con un po’ di uranio impoverito?”»

A chi parla di “italietta”, bisogna rispondere che sulla paura e sul diprezzo di sé nessuno è mai stato in grado di costruire qualcosa. L’illusione della fine degli stati-nazione, già ampiamente smentito dalle guerre di Bush, ha già condotto all’irrilevanza il movimento no-global. Quante volte ancora bisogna ripetere lo stesso errore? Il dissolvimento delle sovranità nazionali non è un innocente dato di fatto, ma un preciso progetto politico perseguito dalle elite finanziarie ed intellettuali europee. Le masse popolari hanno solo da perderci, in questo progetto.

L’”italietta”, in realtà è un grande paese, potenzialmente ricchissimo, è l’unica trincea possibile da cui i lavoratori italiani possono difendere se stessi e il proprio futuro. Per fare questo però devono scrollarsi di dosso il soffocante fardello dell’euro e della UE; e prima ancora, liberarsi dell’idea che il sistema sia riformabile dall’interno. Non è così. Chiunque conosca l’impianto giuridico dell’Unione sa che è praticamente impossibile modificarne l’assetto istituzionale per via democratica. Chiunque proponga una via diversa dall’uscita dal progetto europeo propone di fatto l’immobilismo.
Se le masse italiane riuscissero a imporre il ritiro del nostro paese dall’euro, non solo ci salveremmo dalle grinfie degli avvoltoi di Francoforte e Bruxelles, ma libereremmo L’Europa della dittatura del capitale franco-tedesco, sancendo una disastrosa sconfitta del mostro neo-liberista sorto sulle macerie del Muro di Berlino.


3 pensieri su “CONTRO L’EURO”

  1. Anonimo dice:

    Stati Uniti d'Europa?non mi sembrava una cattiva idea. Motivo? Perchè speravo che non fosse solo un unione monetaria ma che ci fosse un'integrazione nell'orientamento sociale. Che le donne italiane potessero chiedere il divorzio come in Germania se i mariti non facevano i lavori di casa. Che il divorzio fosse più celere. Che chi convive avesse i medesimi diritti di chi si sposa.Che l'Italia fosse un paese finalmente laico, e si avvicinasse ai costumi ai paesi nordici. Un sogno svanito, perchè non è successo niente di tutto questo.

  2. redazione dice:

    Il processo che in Europa ha visto la formazione degli "stati-nazione" è durato secoli. Quello degli Stati Uniti d'Europa può essere un punto d'arrivo, che a sua volta implica un processo di lungo periodo, e una serie di passaggi rivoluzionari. Sta di fatto che l'Europa non è una nazione, ma una costellazione di nazioni. Federare nazioni è un processo che vede al primo posto la POLITICA. I liberisti hanno voluto invece che lo starter fosse la moneta. Si dimostrerà un'illusione fallimentare, e dagli esiti distruttivi.

  3. Anonimo dice:

    Bisogna guardare in faccia alla realta' cosi' com'e'. L'Europa esiste solamente nella testa degli intellettuali. Ma cosa hanno in comune un finlandese con un irlandese? Un greco con un austriaco? Uno spagnolo con un danese? Bisogna partire dalla realta' e cioe' far si che sul lungo (lunghissimo ) periodo ci sia piu' armonizzazione fra i vari popoli d'Europa. Mai imporre dall'alto.

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