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NORVEGIA/ATTENTATO: LE FONTI CULTURALI DEL «CRISTIANISTA» Anders Behrin Breivik

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ARMAGEDDON

(ultima parte)

Gli apocalittici reazionari e l’idea della salvezza attraverso lo sterminio dei musulmani e dei comunisti

di Miguel Martinez*

«In cambio gli evangelici offrono un appoggio incondizionato alle forme più estreme di sionismo. Inoltre, essi, in genere così pronti a minacciare l’inferno per chiunque non si converta, rinunciano, in maniera sempre più esplicita, a promuovere la propria fede presso gli ebrei, da molti ritenuti “già salvati” per diritto di sangue. Il tutto in nome di un’invenzione tipicamente americana, i presunti “valori giudeocristiani”»
Abbiamo solo potuto dare uno sguardo al voluminoso memoriale dell’attentatore di Oslo (1500 pagine!). Sarà materia di studio per specialisti e analisti di intelligence. Dovrebbe esserlo per chiunque non creda che Anders Behrin Breivik debba essere liquidato come un “pazzo”. C’è da chiedersi semmai se egli abbia potuto fare tutto da solo (?), e se il suo ponderoso memoriale sia tutta farina del suo sacco. Pubblicando questo arguto studio di Miguel Martinez sul carattere del “cristianismo fondamentalista” e sul “cristiano-sionismo” avevamo visto giusto. Chi pensava che certe forme di fanatismo religioso cristiano fossero un’esclusiva degli Stati Uniti si sbagliava. E sarebbe errato pensare che l’attentatore sia una nazista, un fascista o un antisemita. Per niente! Nessun riferimento né alla superiorità razziale ariana, nessun odio per la democrazia o per gli ebrei. L’odio si rivolge a due soli bersagli: l’Islam e il marxismo.





IL FONDAMENTALISMO AMERICANO 
E LA QUESTIONE ISRAELO-PALESTINESE 

Negli ultimi anni, gli Stati Uniti sono stati il teatro di una forte campagna per stanare i critici dal mondo accademico e cambiare i curriculum in senso “patriottico”. Una campagna condotta con i classici sistemi delle lobby, denunciando sistematicamente i docenti ritenuti inaffidabili e facendo pressioni sugli alumni, gli ex-alunni che sono spesso tra i principali finanziatori delle università private, mentre il governo organizza apertamente programmi di reclutamento di collaboratori di “sicurezza” nei campus.

Recentemente, David Horowitz, un rumoroso e aggressivo ex-sessantottino, una specie di Ferrara all’americana, ha lanciato l’idea di imporre per legge una forma particolare delle “quote”, razziali e non, con cui i progressisti assicurano l’integrazione delle minoranze nel sistema capitalistico. Horowitz – aiutato da un finanziamento di 3,5 milioni di dollari da parte della Bradley Foundation – promuove, infatti, l’introduzione di quote di political diversity. Per poter godere di finanziamenti statali, il corpo docente di ogni università dovrebbe includere un numero di estremisti di destra pari al numero di progressisti.

Agli inizi di aprile di quest’anno, quattro deputati del partito repubblicano, che detiene attualmente la maggioranza nelle due camere del parlamento degli Stati Uniti, si sono incontrati per studiare il modo di trasformare le idee di Horowitz in legge. [1] Tra i partecipanti, Rick Santorum, il primo a essere riuscito a introdurre una legge che apre il varco all’insegnamento del creazionismo nelle scuole. [2]

Alla riunione ha partecipato anche Louis Goldstein, un sottosegretario del governo Bush; ma anche i vertici di quattro delle principali organizzazioni ebraiche statunitensi, l’Anti-Defamation League (ADL) della B’nai B’rith, la Zionist Organization of America, la Hillel Foundation e l’American Jewish Committee. Infatti, la proposta di legge include il ritiro automatico dei finanziamenti statali anche in caso di espressione di opinioni critiche verso Israele, da parte del corpo docente, ma anche degli studenti.

Israele pone un paradosso a chiunque cerchi di capirne il ruolo.

Da una parte, è un piccolo paese del Vicino Oriente, senza particolari risorse economiche, dove è in corso uno dei tanti conflitti etnici dell’area. Assieme alla Giordania e al Kuwait, è un alleato degli Stati Uniti.

Dall’altra, Israele è l’unica potenza nucleare del Vicino Oriente. Gode del sostegno incondizionato del più grande impero che il mondo abbia mai conosciuto, oltre all’appoggio sostanziale di tutti i suoi vassalli. Non solo: si trova in al centro di tutte le fantasie attuali sul presunto ‘scontro di civiltà’ tra Oriente e Occidente; è quindi il simbolo stesso della guerra che gli Stati Uniti stanno conducendo su scala planetaria.

Facile cercare la spiegazione di questo paradosso in teorie irrazionali. Queste in genere ricadono in due categorie: lo stato ebraico è potente perché gli ebrei dominano il mondo; oppure, lo stato ebraico è potente perché gli ebrei sono il popolo eletto di Dio.

Per credere alla prima, occorre essere paranoici; per credere alla seconda, occorre avere fede nei peggiori brani dell’Antico Testamento. In entrambi i casi, occorre postulare astoricamente un’entità eternamente uguale a se stessa, il “popolo ebraico”, diverso per natura da ogni altro. Un’offesa sia alla razionalità che alle più elementari concezioni di uguaglianza umana.

Possono esserci spiegazioni più terrene al paradosso. A questo riguardo, è essere utile guardare Israele da un’altra prospettiva: quella degli Stati Uniti. È lì che hanno la loro vera sede le maggiori organizzazioni sioniste ed è lì che prospera il fenomeno del Christian Zionism o cristianosionismo.

Le lobby e il corporate state 
Gli Stati Uniti sono una coalizione di innumerevoli imprese, in feroce concorrenza tra di loro. Queste imprese tendono a raggrupparsi in lobby, cioè in organizzazioni efficienti, costituite da manager ben pagati, avvocati spietati, esperti delle comunicazioni e tecnici in grado di decidere delle sorti elettorali dei politici e della concessione o meno della pubblicità ai media. Il compito principale di queste superimprese consiste nel manipolare per i propri scopi il corporate state – il gigantesco apparato imperiale costituito dagli impieghi pubblici, dalla ricerca tecnologica e dall’esercito.[3]

Le lobby sono economiche, industriali, religiose ed etniche, e tendono a scambiarsi favori tra di loro piuttosto che combattersi: il sistema americano, che ammette la massima libertà teorica di espressione, non concepisce una vera opposizione interna.

Così la lobby dei neri riesce a ottenere posti statali per i suoi protetti e vari riconoscimenti simbolici di political correctness. In cambio, evita accuratamente di prendere di petto le autentiche lobby bianche, quelle del grande capitale, che sono la vera causa della terribile discriminazione razziale di cui sono vittime le nere. Insieme, le lobby nere e quelle del grande capitale collaborano per soffocare i tentativi, più patetici che pericolosi, di creare lobby di bianchi “leghisti”, poveri e rancorosi.

Le lobby etniche sono sorte per coalizzare individui arrivati nel nuovo continente, uniti da qualche vago elemento comune, e per salvaguardare i loro interessi in un mondo privo di tutele sociali, spesso in parallelo con le organizzazioni religiose degli stessi immigrati. Il rifiuto da parte di tutte queste lobby di mettere in discussione il capitalismo le ha trasformate in macchine di potere, interessate in primis alla propria sopravvivenza.

La principale lobby etnica oggi è quella ebraica, riunita in una sorta di lobby delle lobby, denominata Conference of Presidents of Major Jewish American Organisations (Conferenza dei presidenti delle principali organizzazioni ebraiche americane), diretta attualmente da Mortimer Zuckerman, un imprenditore che controlla gran parte del mercato immobiliare di Boston, San Francisco, New York e Washington e che ha recentemente acquistato il quotidiano US News and World Report.

Il termine “lobby ebraica” viene spesso adoperato in Italia, in senso ironico, per indicare un immaginario ente cospirativo, che mirerebbe al dominio del mondo. Chiaramente non si tratta di questo. Si tratta semplicemente di un insieme di imprese, alcune delle quali pongono l’accento sul termine “sionismo”, altre sul termine “ebraismo”, dirette in genere da grandi imprenditori statunitensi. Imprenditori che non mancano di utilizzare queste organizzazioni anche per promuovere i propri interessi privati. Le organizzazioni possono anche essere in concorrenza tra di loro; ma, come tutte le altre lobby, sanno che la loro sopravvivenza dipende dal grado di spirito collettivo che riescono a infondere tra una fetta della popolazione.

Perché Israele? 
In quanto individui, gli ebrei americani oggi sono ben integrati; circa metà di loro finisce per sposare partner non ebrei, contravvenendo così a una legge religiosa e comunitaria fondamentale. Le organizzazioni che pretendono di rappresentare gli ebrei fanno quindi leva su due elementi più psicologici che reali: la presunta esistenza di una eterna tendenza da parte dei non ebrei all’antisemitismo; e la difesa di Israele.

Proprio per questo, mentre gli ebrei stessi tendono a cercare una soluzione al conflitto israelo-palestinese, [4] le organizzazioni sono per la maggior parte schierate a favore di tutto ciò che la impedisce: quindi appoggiano gli insediamenti nei Territori Occupati e la più feroce repressione nei confronti dei nativi palestinesi. Come ebbe a dire Abraham Foxman, direttore della potente Anti-Defamation League, mentre premiava il padrone della Fininvest: “ci piace il presidente Bush, ci piace Sharon, ci piace Berlusconi”. [5]

La maniera in cui Sharon ha deliberatamente provocato la seconda Intifada e la sua decisione di far eseguire “omicidi mirati” ogni volta che i gruppi palestinesi accettano una tregua non è certamente nel migliore interesse del comune cittadino di Haifa. A lungo termine, lo scopo è di rendere impossibile la vita ai nativi palestinesi, fino a determinare la loro emigrazione. Ma questa strategia della tensione è gradita anche alle lobby americane, che vogliono che Israele sia sempre al centro delle preoccupazioni dei cittadini statunitensi di origine ebraica.

L’interesse per Israele ha più risvolti: oltre a permettere una perenne mobilitazione di buona parte della comunità ebraica statunitense a sostegno delle lobby stesse, gli imprenditori che le dirigono possono influire in maniera sempre più diretta nella società israeliana, prendendone in mano le imprese, determinando il successo o la sconfitta di uomini politici e impadronendosi dei media: lo smantellamento dello stato sociale in Israele procede di pari passo con l’americanizzazione del paese. Infine, gli interessi, della lobby ebraica si sposano perfettamente con quelli dell’industria militare e del suo enorme indotto – si pensi che circa un quarto del PIL degli Stati Uniti finisce in spese militari. Gli enormi aiuti militari a Israele, e in genere il clima di tensione che la situazione israelo-palestinese genera, sono in perdita per l’americano medio, ma forniscono sterminati guadagni a un vasto giro di interessi.

Non si tratta di onnipotenza: l’AIPAC, la lobby ufficiale filoisraeliana, è considerata solo la seconda per importanza negli Stati Uniti, dopo quella che pudicamente si chiama “dei pensionati”: si tratta in realtà di un’organizzazione che si occupa degli investimenti dei fondi pensione. Ma quello che conta è il potere relativo delle lobby, che diventa assoluto rispetto a un obiettivo specifico, nell’assenza totale di lobby contrarie.

Lobby ebraica e destra religiosa 
Da alcuni anni, le grandi organizzazioni sioniste collaborano strettamente con la destra religiosa. Un’alleanza sorprendente, se si pensa che gli ebrei statunitensi sono stati storicamente laici e che, fino alla seconda guerra mondiale, occupavano una nicchia molto inferiore a quella dei WASP, gli “anglosassoni bianchi e protestanti”, nel sistema castale statunitense.

L’alleanza nasce quindi ai vertici, tra le organizzazioni stesse, e risale ai tempi di Reagan, anche se si è ufficializzata solo dopo l’11 settembre.

Da parte delle organizzazioni evangeliche, l’alleanza si basa su un doppio pilastro: da una parte interessi concreti, dall’altra il grandioso immaginario del Dispensationalism.

Due potenti lobby uniscono le forze e cessa la tradizionale opposizione ebraica alla commistione tra religione e stato. Qui gioca un ruolo importante anche un altro fenomeno tipicamente americano: la svolta verso il fondamentalismo ha toccato profondamente anche le istituzioni religiose ebraiche e non solo cristiane, per cui sono interessate a condividere, piuttosto che frenare, i privilegi altrui. Allo stesso tempo, le organizzazioni ebraiche garantiscono l’assoluzione per l’accusa sempre in agguato per movimenti di destra, quella di antisemitismo.

In cambio gli evangelici offrono un appoggio incondizionato alle forme più estreme di sionismo. Inoltre, essi, in genere così pronti a minacciare l’inferno per chiunque non si converta, rinunciano, in maniera sempre più esplicita, a promuovere la propria fede presso gli ebrei, da molti ritenuti “già salvati” per diritto di sangue. Il tutto in nome di un’invenzione tipicamente americana, i presunti “valori giudeocristiani”. [6]

Il pilastro ideologico che giustifica la convergenza tra le lobby è costituito, invece, dal Dispensationalism, una peculiare lettura della Bibbia che sostiene che Dio avrebbe diviso la storia in varie epoche o “dispensazioni”: non avrebbe mai smesso di considerare gli ebrei il suo unico popolo eletto, motivo stesso della creazione; ma li avrebbe puniti per duemila anni per aver respinto Gesù. Oggi, dicono i dispensazionisti, il favore di Dio è ritornato sugli ebrei, come dimostrerebbe la creazione dello Stato d’Israele, primo segno della redenzione del mondo. Dopo inenarrabili stragi, che culmineranno nel grande massacro di Armageddon, gli ebrei riconosceranno Gesù e – assieme ai cristiani evangelici – governeranno il mondo da Gerusalemme per mille anni, schiacciando con “verghe di ferro” chiunque osi ribellarsi al divino regime. In attesa della gloriosa strage, il primo dovere dei cristiani è sostenere a tutti i costi il governo d’Israele e l’esproprio dei nativi palestinesi, identificati con vari popoli malvagi di cui parla l’Antico Testamento.

È interessante notare che l’ossessione dispensazionista per la creazione di uno stato ebraico in Terra Santa nasce molti decenni prima del sionismo. Mentre il “ritorno nella terra dove scorrono fiumi di latte e miele” era, per quasi tutti gli ebrei del mondo, una metafora per il ritorno dell’anima a Dio, i dispensazionisti già sognavano futuri Sharon. Nel 1840, Nelson Darby, dispensazionista inglese, scriveva:

“La prima cosa, quindi, che farà il Signore sarà di purificare la Sua terra (la terra che appartiene agli ebrei) dai Tiri, dai Filistei, dai Sidoni – in breve da tutti i malvagi – dal Nilo all’Eufrate.” [7]

“Siamo come una religione” 
Il dispensazionismo è diventato un fenomeno di massa per un motivo apparentemente banale: è stato un dispensazionista a scrivere le note esplicative nella versione della Bibbia più diffusa tra i fondamentalisti. Ma si è diffuso perché risponde alle esigenze fondamentali dell’immaginario americano. Nel dicembre del 2001, l’allora sindaco di New York, Rudy Giuliani, concluse il proprio mandato con un discorso nella chiesa dedicata a San Paolo.

“Tutto quello che conta è che dovete abbracciare l’America e capirne gli ideali e il senso. Abraham Lincoln era solito dire che la prova del vostro americanismo è… quanto credete all’America. Perché siamo come una religione, in realtà. Una religione laica”. [8]

Il Popolo Eletto, con la propria fede nell’americanismo, scopre il Nuovo Mondo come gli israeliti scoprirono la Terra Promessa; estirpa le erbacce e gli indigeni come Giosuè alla conquista di Canaan. Con echi straordinari nel vissuto quotidiano di un popolo composto da individui in incessante movimento, eternamente precari e migranti, “povere cavallette che vanno saltellando di ramo in ramoscello in questa valle di lacrime”, come scriveva tre secoli e mezzo fa Roger Williams.

Il senatore dell’Oklahoma, James Inhofe, il 4 marzo del 2002, in un discorso al Senato degli Stati Uniti elencò sette motivi per cui Israele doveva tenersi per sempre i Territori Occupati. “Il più importante” è quello biblico: il senatore si chiede, non è forse

“detto nella Bibbia che Abramo prese la sua tenda e si stabilì nella pianura di Mamre e lì costruì un altare al cospetto del Signore? Hebron è in Cisgiordania ed è proprio lì che Dio apparve ad Abramo e gli disse: ‘Io ti dono questa terra” – la Cisgiordania, appunto”.

Da qui, egli trae la conclusione che permette di invocare Dio per giustificare espropri, stragi e guerre: “Questa non è una battaglia politica ma un confronto in cui si decide se la parola di Dio è vera o no”.

Come tutti i movimenti negli Stati Uniti, il cristianosionismo è estremamente pratico. Centinaia di migliaia di americani vengono mobilitati per contribuire finanziariamente alla creazione di insediamenti nei Territori Occupati o per pagare il trasferimento in Israele di ebrei russi; oppure per tempestare di messaggi e telefonate ogni deputato minimamente tentennante affinché sostenga la politica di Sharon, o per manifestare davanti alle università che ospitano oratori palestinesi. Molti evangelici si offrono come volontari, svolgendo mansioni nelle retrovie dell’esercito israeliano, in modo da liberare i soldati perché possano combattere contro i nativi palestinesi.

Ma non vanno sottovalutate anche le attività a carattere simbolico: decine di migliaia di chiese vengono coinvolte in momenti di intensa preghiera per Israele, che suscitano entusiasmo e partecipazione. Mentre un ruolo primario viene svolto dal turismo religioso. Non va dimenticato infatti che il turismo è oggi la prima industria del mondo. Ogni giorno arrivano in Israele innumerevoli gruppi di turisti americani, sotto la guida del loro pastore, per vedere dal vivo il “piano di Dio che si realizza”. Turisti debitamente indottrinati da guide autorizzate dallo Stato d’Israele, pronti a raccontare a casa e agli amici il viaggio, terreno e mistico insieme, della loro vita.

Non è detto che tutti questi turisti siano degli sprovveduti. Possiamo infatti concludere con le parole che Hillary Clinton mette sul proprio sito web, ricordando che questa spietata carrierista tanto apprezzata da certa sinistra italiana ha qualche possibilità di diventare la prima donna presidente del suo paese:

“Nel nostro primo viaggio in Israele nel 1982, siamo andati con il pastore di Bill. Mio marito mi ha spesso raccontato di ciò che gli disse il suo pastore: non doveva mai tradire Israele, altrimenti Dio non lo avrebbe mai perdonato. Io mi sono sempre ricordata di queste parole e ho cercato di applicarle.”


Note:

[1] Elementary and Secondary Education Bill, H.R. 1, P. L. 107-110, 8.01.02.

[2] Ne parla, con approvazione, il quotidiano New York Sun del 15.04.03

[3] E’ utile a questo riguardo la lettura delle considerazioni di Gianfranco La Grassa sui “soggetti del conflitto strategico” (“Note per uscire dall’impasse teorica”, Rosso XXI, n. 16, settembre 2003).

[4] La soluzione ricercata è in genere quella, profondamente ingiusta e razzista, dei “due stati per due popoli”. Comunque il desiderio di porre fine al conflitto esiste, e la maggior parte dei non numerosi sostenitori della tesi dello stato unico e democratico sono ebrei americani.

[5] Eric J. Greenberg, “Berlusconi Mum on Mussolini Flop”, The Jewish Weekly, 26.09.03. Significativamente, il premio venne concesso in presenza di Harvey Weinstein, proprietario della Miramax Films.

[6] E’ realmente esistita una cultura giudeo-islamica; ma le convergenze tra giudaismo e cristianesimo, dopo i primissimi secoli, sono state rare e marginali, traducendosi soprattutto in forme di pietà popolare ebraica che imitavano il culto cristiano dei santi o della Madonna. Il termine Judeo-Christian si riferisce invece sostanzialmente a una forma di patriottismo religioso americano.

[4] Darby, Hopes of the Church, cit. in Paul Boyer, When Time Shall Be No More: Prophecy Belief in Modern American Culture, Cambridge, MS, Harvard University Press, 1992, p. 200.

[6] George Monbiot, “America is a religion. US leaders now see themselves as priests of a divine mission to rid the world of its demons”, The Guardian, 29.07.03.



* Fonte: Questo articolo venne pubblicato nel n.34 della rivista PRAXIS, settembre 2003

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