LA SINISTRA E LA CRISI
Encefalogramma piatto
di Leonardo Mazzei*
Eravamo considerati «catastrofisti» ed invece la realtà sta correndo perfino più veloce di quanto prevedevamo. Solo un mese fa la manovra economica veniva ancora pensata come un lascito per il futuro, più che come una necessità del presente. Oggi, invece, il governo deve solo guardare all’immediato, ai corsi azionari ed alla quotidiana altalena dello spread dei Btp decennali.
Un mese fa il paragone con la Grecia sembrava una bestemmia, o perlomeno un’esagerazione. Ora siamo all’intervento della Bce, che ha iniziato ad acquistare i Btp sul mercato secondario. Siamo cioè all’inizio del «salvataggio», non dell’Italia – ovviamente – bensì delle banche esposte verso il debito pubblico del Belpaese.
La figuretta di Berlusconi in Parlamento, corretto dal Berlusconi della conferenza stampa di due giorni dopo che annuncia l’ipotetico pareggio di bilancio al 2013, mostra lo sbando totale della classe dirigente del Paese. Uno sbando non solo italiano – si pensi alla situazione in cui si trova Obama – ma che in Italia è reso più grave dall’asservimento totale, di maggioranza e di «opposizione», alle esigenze delle oligarchie finanziarie.
In queste ore ci si è «accorti» che l’Italia è un paese «commissariato» dall’Europa (sarebbe più esatto dire dalla Germania). Qualcuno – le più ridicole «opposizioni» del mondo – ritiene che commissariato sia solo il governo. Non è così. Certo, i centri del potere finanziario internazionale non ritengono Berlusconi affidabile. Preferirebbero un governo con il Pd, meglio ancora un governo travestito da «tecnico» che possa portare a fondo il massacro sociale in atto. Ma anche se un simile governo dovesse nascere, e più la crisi si aggraverà e più aumenteranno le probabilità che prenda vita, non per questo l’Italia smetterebbe di essere un Paese commissariato, una nazione a sovranità zero.
Del resto non si capisce di cosa si lamenti il centrosinistra. I suoi dirigenti hanno invocato l’Europa e l’Europa ha imposto i suoi diktat. Hanno chiesto l’accelerazione della manovra, ed eccoli serviti. Il massimo del consociativismo è stato raggiunto giovedì scorso, quando il governo ha incontrato le cosiddette «parti sociali», nell’occasione un indistinto cartello composto da Confindustria, Cgil-Cisl-Uil, Abi (Associazione bancaria italiana), le Coop più altre organizzazioni di categoria.
Cosa hanno chiesto i consociati per bocca della Marcegaglia? E’ presto detto: 1) l’introduzione del pareggio di bilancio come obbligo costituzionale, 2) un piano di privatizzazioni e liberalizzazioni, 3) sbloccare con misure eccezionali le opere pubbliche, 4) la riforma della pubblica amministrazione, 5) anticipare la riduzione dei costi della politica. Tutte queste proposte, salvo l’ultima, che ha però un impatto in ogni caso assai modesto, coincidono quasi alla lettera con quelle del governo. In più, le «parti sociali» si sono impegnate a «modernizzare le relazioni sindacali», cioè ad accelerare l’opera di demolizione del contratto nazionale.
L’insieme di queste misure, che non determinerà in nessun caso l’agognata ripresa, disegna invece una linea iper-liberista ancora più aggressiva di quella del governo. L’asse Marcegaglia-Camusso è la sponda decisiva per il dopo-Berlusconi desiderato dall’UE e dalle banche, anche se nell’immediato ha finito per dare fiato proprio ad un esecutivo ormai alla respirazione artificiale.
Piddini e dipietristi chiedono ora al governo di rendere noto cosa ha chiesto la Bce, e dietro di essa l’asse Berlino-Parigi, in cambio dell’intervento sui Btp. Gli ha chiesto le stesse cose imposte a Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo: di accelerare la manovra, di accrescere i tagli, di avviare un processo di privatizzazioni a prezzi stracciati. Il duo Berlusconi-Tremonti ha risposto signorsì, esattamente come avrebbe fatto un ipotetico duo Bersani-Monti, o, se si preferisce, Bersani-Casini.
A questo signorsì ha fatto immediatamente seguito la ricerca di altri soldi da rastrellare al più presto. Su questo punto, ci sia consentita una breve digressione. A luglio, quando molti parlavano di manovra da 79 miliardi, abbiamo chiarito (vedi Raschiando il fondo) come invece essa fosse (a regime) di 47,9 miliardi. Siccome questo è anche un paese di cialtroni, abbiamo risentito l’inesistente cifra di 79 miliardi direttamente dalle labbra del presidente del consiglio durante la sua sbrodolata in parlamento del 3 agosto, così come l’abbiamo letta in un editoriale del Corriere della Sera, di un De Bortoli che la considerava – neanche a dirlo – «insufficiente», pur avendo sbagliato il calcolo di ben 31 miliardi!
Nell’articolo citato, segnalavamo che con una manovra di circa 48 miliardi non sarebbe comunque stato possibile conseguire il pareggio di bilancio, dato che per arrivarvi sarebbero stati necessari circa 65 miliardi. Avevamo così ragione che il diktat europeo – evidentemente a Berlino e Francoforte i conti li sanno fare – ha imposto non solo l’anticipo della manovra, ma anche il suo potenziamento con ulteriori 17 miliardi. Diciassette più quarantotto fa appunto sessantacinque…
Ecco allora che dopo il massacro sociale della manovra di luglio il governo già lavora a quello di agosto. E di cosa si parla in particolare? Di pensioni. Della possibilità di accelerare i 65 anni per le donne, di abolire del tutto quelle di anzianità, in subordine di bloccarle per un certo periodo, di passare al sistema contributivo per tutti, di tagliare quelle di reversibilità, e chi più ne ha più ne metta.
Del resto, un sistema impazzito, che non sa minimamente analizzare le ragioni di fondo del proprio collasso, altro non può fare che colpire a ripetizione le classi popolari. Fino a quando potranno tirare la corda non lo sappiamo, ma per ora la strada scelta dal blocco dominante è sempre la stessa.
Queste manovre in sequenza non ricordano appunto la Grecia? E se in Grecia, in una fase di «ripresina» internazionale, esse hanno portato ad una recessione profonda e prolungata, cosa accadrà in Italia in un quadro di imminente recessione generalizzata?
La domanda è puramente retorica. Il pendolo della crisi, originatasi nella finanza (2008), spostatasi nel campo della produzione (2009), ritornata prepotentemente in quello finanziario con l’esplosione dei debiti sovrani, si appresta ora a scaricarsi di nuovo sul sistema produttivo.
I nodi stanno dunque venendo tutti al pettine. La crisi dei debiti pubblici spinge a politiche profondamente recessive, la recessione impedisce una vera fuoriuscita dall’emergenza del debito. Nel frattempo la crisi americana si dirige verso il suo punto critico, mentre l’Europa ha ormai cinque paesi – eccoli finalmente i PIIGS al gran completo! – a rischio default.
In Europa la situazione è resa più grave dal fatto che la classe dirigente non sa come uscire dal pasticcio creato dall’Unione e dall’euro. Molti capiscono che l’una e l’altro salteranno, ma nessuno ha il coraggio di dirlo. In Italia, la classe politica più corrotta, inetta e servizievole del continente, non ha la più pallida idea del da farsi. Normale, dunque, che si dedichi alle uniche cose che sa fare: colpire lavoratori e pensionati e rubacchiare qua e là.
La sinistra, poi, appare ancora più smarrita. Alla critica al governo non segue uno straccio di proposta. Noi diciamo, azzeramento del debito ed uscita dall’euro. Non si è d’accordo? Bene, si dica allora, per esempio, un no all’attacco alle pensioni ed un sì alla patrimoniale; ad una controriforma del fisco si contrapponga almeno una proposta alternativa; si dica cosa si pensa delle privatizzazioni. A qualcuno risulta qualcosa di tutto ciò? No, l’elettroencefalogramma è piatto.
Questo atteggiamento non è solo del Pd. Quello è il partito più confindustriale ed europeista d’Italia, dunque nessuno stupore, ma gli altri? Peggio che andar di notte. Oggi abbiamo letto, ad esempio, che Vendola convoca una manifestazione per il 1° ottobre. Con quali obiettivi? Dopo una serie di frasi letterarie sulla crisi, arriva l’unica proposta: un nuovo referendum, questa volta contro il porcellum! Quasi da non credere.
I tempi stringono anche per questo, per l’assenza di una proposta e di una soggettività politica che sappia raccogliere il malessere che va montando. Del resto, che la vecchia sinistra sia ormai un ferrovecchio ci viene confermato da più parti. In questi giorni ci è capitato di leggere (il Manifesto del 6 agosto) perfino una filippica di Immanuel Wallerstein a favore dell’Unione Europea, difesa come una barriera in grado di garantirci il «meno peggio».
Di fronte allo sfascio di un sistema, che come hanno detto gli Indignados spagnoli, «non funziona più», molti si ritraggono dall’idea della lotta, per non dire da quella della rivoluzione, ripiegando su un «meno peggio» che non è più nemmeno riformistico. Eppure è proprio questo il momento di osare. Solo una potente sollevazione di massa potrà dare un futuro diverso al paese. Solo così le classi lavoratrici potranno difendersi, solo così le oligarchie finanziarie potranno essere isolate e battute da un largo blocco popolare. Solo così l’intera classe dirigente che ha condotto al disastro potrà essere davvero cacciata.
Abbiamo spiegato tante volte le ragioni per cui siamo per l’uscita dall’euro e per l’azzeramento del debito. Continueremo a farlo. Per intanto si rifletta su dove sta portando la linea opposta, quella del sì all’Europa. E la si smetta di pensare che sia solo colpa del solito Berlusconi.
Tutti i nodi stanno venendo al pettine: economici, finanziari, sociali e politici. Avviene in Italia ed un po’ in tutta Europa, avviene negli Stati Uniti. Se non è il crollo del capitalismo è però il fallimento della sua forma ultra-liberista a guida e dominanza finanziaria. Non è questo il momento di costruire l’alternativa? E se non ora, quando?