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TORNARE ALLA LIRA E CANCELLARE IL DEBITO. IN RISPOSTA ALLE CRITICHE DI ULTRASINISTRA

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La madre dei dottrinari è sempre gravida


di Moreno Pasquinelli


Sapevamo che il Manifesto con cui abbiamo convocato l’assemblea del 22 e 23 ottobre «Fuori dal debito! Fuori dall’euro!» avrebbe ricevuto aspre critiche. Sapevamo che il fuoco ci sarebbe venuto anzitutto da parte delle consorterie o delle elite politiche dominanti, a tutto decise pur di obbligare il popolo a venerare l’euro e a rispettarne i suoi Comandamenti. 

Se ci fate caso, seguendo i dibattiti sui giornali e sulle tivù, l’uscita dall’euro è il convitato di pietra. L’uscita dall’euro, con parallela disintegrazione dell’Unione europea, aleggia come uno spettro, è brandita come uno spauracchio terrificante, è presentata come la fine del mondo, il crollo della civiltà europea, la discesa negli inferi. I sacerdoti del pensiero unico euro-monetarista non si limitano infatti a difendere sacralità dell’euro e officiarne il culto: tutti coloro che rifiutano di offrirsi in sacrificio al Moloch sono satanizzati, condannati come eretici, disfattisti, retrogradi, nazionalisti. L’Assemblea di Chianciano Terme renderà loro pan per focaccia.


Ci aspettavamo che saremmo stati colpiti anche da fuoco amico, di essere attaccati sul fianco sinistro, da gruppi, correnti e intellettuali a vario titolo “rivoluzionari” e “marxisti” che ci avrebbero scagliato l’anatema del tradimento e dell’apostasia. Di simili attacchi ne circolano già alcuni. Il più velenoso, e la cui radicalità a pari solo al primitivismo politico, ce lo ha portato Michele Nobile, con un prolisso saggetto dal titolo «Tornare alla lira e cancellare il debito? Quando si vuole gestire meglio della propria borghesia e si finisce invece nel più ingenuo nazionalsciovinismo».


Il titolo, come si vede, è programmatico. L’accusa di quelle inesorabili: invece di preparare la rivoluzione socialista non solo ci candideremmo a gestire il capitalismo, illudendoci di farlo meglio dell’italica borghesia (la qual cosa, per dire il vero, non chiederebbe una gran fatica); noi saremmo precipitati addirittura nel “nazionalsciovinismo”.


In verità Nobile pretende di prendere due piccioni con una fava. Non attacca solo il Manifesto di Chianciano, ma pure l’Assemblea del primo ottobre e l’Appello «Noi il debito non lo paghiamo». Nobile ci riconosce una maggiore coerenza, visto che vediamo il nesso indissolubile tra cancellazione del debito e uscita dall’euro, ma non è affatto per captatio benevolentiae, anzi! Proprio perché più conseguenti, siamo per questo peggiori di Cremaschi, del Pcl, della Rete dei comunisti, dei sindacati di base, di Sinistra Critica, ecc.


La critica del Nobile si sviluppa su due piani, uno economico e l’altro squisitamente politico teorico. Sul piano economico, in punto di dottrina —ruolo e funzione della moneta, del credito, delle banche, debito pubblico, ecc.— il Nobile sfodera una serie di corbellerie teoriche da bocciatura secca al primo esame di economia politica. Avremo modo di tornarci su —magari Michele Nobile vorrà venire a Chianciano a discuterne con noi. Qui voglio soffermarmi sulle obiezioni squisitamente politiche, che fanno perno appunto su un assioma: cancellare il debito e tornare alla sovranità monetaria, sarebbero misure deleterie per il lavoratori, vantaggiose invece per la borghesia. Detto altrimenti sarebbero due misure di politica economica riformiste per non dire reazionarie.


Mi sia concesso segnalare subito l’analogia, concettuale e finanche terminologica, tra la sua invettiva e quelle dei sacerdoti dell’euro o dei templari dell’Unione europea. Sentiamo:

«Bisogna però riconoscere che non è una bella cosa vedere personalità di provenienza marxista o comunque «di sinistra» che propongono passi indietro di tipo autarchico e nazionalistico, facendosi così scavalcare sul piano ideologico dalla stessa borghesia che si dice di voler combattere. Sul carattere fallimentare di queste posizioni retrograde e antistoriche ci sono stati dei precedenti con lo stalinismo e ognuno ha potuto vedere come è andata a finire. Tornare a proporre soluzioni nazionalistiche nel 2011 mi sembra una prova di testardaggine molto poco politica e comunque da respingere con decisione». 

Parole che sembrano uscite di bocca a Giuliano Ferrara, a Nichi Vendola, a Prodi o a Trichet. Medesima la demagogia da quattro soldi sull’autarchia e il nazionalismo. Identica la tiritera per cui se si è contro questa bestialità che è l’Unione europea fondata sull’euro e i Trattati di Maastricht si sarebbe, per proprietà transitiva, “antistorici”, e “retrogradi”. 


Qui siamo in presenza (come nel caso del pensiero di Antonio Negri e dei teorici del “lavoro cognitivivo”  e del “biopotere”) di una indecente soggezione verso il pensiero unico globalista-imperialista, quello per cui ogni difesa della sovranità nazionale —che è l’involucro formale, non dimentichiamolo, entro cui si è data la sovranità popolare— sarebbe passatismo, far girare indietro la ruota della storia. Qui siamo caduti mani e piedi nella trappola ideologica della borghesia per cui ogni suo atto, per quanto indesiderato, sarebbe non solo irreversibile, ma avrebbe, suo malgrado, una destinazione funzionale progressista. Non scomodiamo Hegel e la sua visione rettilinea della storia perché il grande filosofo tedesco almeno ammetteva retrocessi e barbarie, pur inscrivendoli in un disegno provvidenziale dello Spirito del mondo.


Che tipo di “marxista” siano il Nobile, egli ce lo spiega subito dopo:

«La politica rivoluzionaria non può prendere posizione per una delle parti negli affari e nei regolamenti di conti tra padroni e tra Stati capitalistici, se non a prezzo di rinunciare al principio basilare dell’autonomia a fronte del nemico di classe: per questo non può rivendicare il non-pagamento del debito contratto proprio da quel «nemico». Ma non può neanche prescindere dall’utilizzare ogni occasione – dapprima in forma di propaganda e appena possibile come obiettivo immediato per cui lottare – per sostenere una prospettiva storica superiore a quella borghese. È per questo che l’idea del ritorno alla lira appare nettamente in contrasto anche con la prospettiva (al momento solo utopica o propagandistica) della costruzione di una comunità socialista continentale che abbia in comune la moneta e molto altro, superando lo statalismo nazionale».

Il teorema è la più classica delle fuffe lasciateci in eredità dall’ultrasinistra dottrinaria: il movimento rivoluzionario non deve impicciarsi delle grandi questioni politiche ed economiche che sconvolgono le società borghesi, tanto più nel caso ci sia una disputa tra le classi dominanti. Il movimento rivoluzionario deve attenersi ad un “principio basilare” “l’autonomia a fronte del nemico di classe”. Questa inestimabile perla di saggezza “marxista” si riduce a questo: i rivoluzionari debbono farsi i cazzi loro: se il sistema capitalistico è in crisi è affare dei borghesi, che se la sbroglino loro. 


Bene! Bravo, Sette più!


Va bene che di “marxismi” in circolazione ce ne sono diversi, ma questo tipo qui puzza di ultrasinistrismo dottrinario della più bell’acqua. Un sostrato di massimalismo parolaio e sindacalismo soreliano, ammantato di bordighismo. C’è dietro l’idea metafisica, idealistica, per cui la classe dei salariati, avendo interessi antagonistici al capitale, deve assumere un atteggiamento indifferentista o disfattista rispetto a tutte le vicende politiche che esulino dai “puri” rapporti tra capitale e lavoro. Note sono, ad esempio, le posizioni di certi dottrinari per cui, essendo le rivendicazioni democratiche di natura borghese, occorre infischiarsene se il sistema secerne un qualche fascismo che liquida i diritti e gli spazi di democrazia. Per non parlare del rifiuto di certi ultrasinistri di difendere le lotte di liberazione nazionale, condannate come lotte inter-capitalistiche a favore della sola prospettiva per cui valga la pena battersi: la comunità socialista mondiale. Questi dottrinari, al fondo, mutuano, da certo anarchismo, il rifiuto della lotta politica tout court, osannando di converso la lotta sindacale, ovvero ogni porcheria minimalistica in virtù del suo essere “autenticamente operaia”.


Una visione metafisica e irreale del proletariato, come se esso fosse un’entità sovrastorica, una comunità a sé stante e non invece una parte integrante della società borghese, contaminata e pregna di ideologia borghese. Come se ogni  proletariato, dal momento che in potenza è portatore del socialismo, fosse non solo unilinearmente condannato a questa missione, come fosse socialismo in atto. Da questo teorema metafisico discende il vero e proprio feticismo della lotta sindacale, che per Nobile è nobile, appunto, anche quando si esprime nelle forme più elementari e prepolitiche. Tutto il contrario di quello che ebbe a dire Lenin, per il quale “il sindacalismo è una forma di coscienza borghese in seno al proletariato”.


Ascoltiamo infatti, attentamente, quanto afferma il Nostro:

«Quando lottano contro l’«austerità», i lavoratori affermano la propria autonomia come classe a fronte dello Stato capitalistico e dei padroni, nazionali ed esteri. Così facendo, infatti, essi si oppongono a un ulteriore tributo effettuato dallo Stato e destinato a finire nelle borse dei capitalisti e al circuito finanziario internazionale.
Se invece si rivendica che lo Stato «cancelli» i propri debiti, allora non si fa altro che attuare una versione «in grande» della logica per cui i lavoratori avrebbero interesse a difendere la «loro» impresa contro la concorrenza di altre imprese capitalistiche e dai creditori della stessa. Quel che un onesto sindacalista e l’istinto di classe trovano inaccettabile sul piano microeconomico aziendale, sembra invece essere diventato improvvisamente accettabile sul piano macroeconomico del debito statale: si crede di difendere gli interessi dei lavoratori, ma in realtà si «difende» lo Stato capitalistico dai suoi creditori. Il fatto è che la crisi economica è la crisi dei capitalisti privati e dello Stato capitalistico, entità socio-politiche del tutto separate dal mondo del lavoro fisico e mentale. Ragion per cui come i salariati non hanno alcun interesse a sacrificare la propria autonomia sindacale e politica per mettere il naso nella competizione intrapadronale, allo stesso modo essi non hanno alcun interesse a intrufolarsi nelle beghe tra governi, banche internazionali, istituzioni europee, Fondo monetario ecc. Rivendicare la «cancellazione» del debito, però, è proprio questo, con l’aggiunta di un pericoloso sentimento sciovinistico e nazionalistico.
L’autonomia di classe a fronte del «proprio» Stato e della propria borghesia è condizione per la solidarietà internazionale tra lavoratori. Inversamente, dalla difesa del «proprio» Stato capitalistico dai creditori esteri consegue che i creditori esteri dovranno «rifarsi» con i «loro» lavoratori, ovviamente con l’aiuto dei loro rispettivi Stati capitalistici: alla faccia dell’internazionalismo proletario di antica memoria…».

In poche righe molte cazzate. Spiccano tuttavia due vere e proprie perle teoriche: l’osanna all’istinto di classe e all’onesto sindacalista, da una parte, e la seconda, quella per cui «… la crisi economica è la crisi dei capitalisti privati e dello Stato capitalistico, entità socio-politiche del tutto separate dal mondo del lavoro fisico e mentale».


C’è da mettersi le mani nei capelli. C’è la crisi sistemica? Il paese è alle porte del crollo? Chi se ne frega! Tanto peggio tanto meglio… Gli operai dovrebbero limitarsi a farsi fantomatici  fatti loro, aggrappandosi ai loro specifici interessi corporativi, giammai opponendo un programma politico per un’uscita rivoluzionaria dalla crisi, giammai sfidando la borghesia candidandosi a prendere in mano le redini del governo del paese. 


Non passa per la testa, a questi puerili dottrinari, che i proletari non vivono in un mondo parallelo a quello borghese, che essi, se non compiono un salto politico, non sono che parte variabile del capitale, per quanto si agitino sul piano sindacalistico. Che essi saranno i primi ad essere travolti dalla crisi sistemica. Che il sindacalismo è agli antipodi del pensiero di Carlo Marx per il quale, il proletariato, poteva diventare una classe rivoluzionaria solo dal momento che accettava di assolvere una missione non particolaristica ma universalistica, diventando classe generale —e per fare questo, è sempre Marx che parla, esso avrebbe dovuto sbarazzarsi del sindacalismo e diventare soggetto politico, candidarsi a divenire forza  dirigente della nazione.


Il pregiudizio anti-politico del Nobile è palese, per non dire pacchiano. Non solo è lo sporco delle unghie rispetto alla tradizione teorica e pratica dei comunisti, quale che sia stata la loro parrocchia, sta venti spanne sotto alla stessa sinistra anticapitalista italiana, sindacalismo di base compreso, i quali, pur nelle loro settarie articolazioni, non si sono mai sognati di sprofondare nel sindacalismo d’accatto, limitandosi a dire no alle misure di singole aziende, del governo nazionale o dei suoi addentellati locali. Gli operai FIAT di contro a Marchionne, gli insegnanti e studenti di fronte alla controriforma Gelmini, i cittadini di Napoli davanti al dramma della spazzatura, gli abitanti di un comune davanti allo smantellamento dei servizi sanitari e sociali, o milioni di cittadini davanti alla privatizzazione dell’acqua pubblica e alla difesa dei beni comuni: in tutti questi casi non ci si è limitati a dire no, si è opposto misure alternative, più o meno radicali, ma sempre rispondendo con soluzioni alternative. 


Nobile e quelli come lui, sicuramente sosterranno che si tratta di “riformismo”, diranno che loro quel che rimproverano a noi per quanto attiene a debito pubblico e sovranità monetaria: che vogliono «gestire il capitalismo meglio della borghesia». Lenin ebbe a dire a suo tempo a dottrinari della medesima specie che «… ciò che distingue i rivoluzionari dai riformisti, non è che i primi rifiutano le riforme, ma il modo di combattere per ottenerle». 


Per dire, insomma, che posizioni come quelle di Nobile, per quanto rivestite di “estremismo”, confessano il loro carattere grossolano e volgare. Di qui il carattere capzioso e puerile delle loro critiche. L’attuale movimento anticapitalista italiano non brilla certo per acume strategico, ma farebbe un pauroso salto all’indietro se adottasse certi punti di vista impolitici o prepolitici.


Quale dovrebbe essere quindi la prassi della classe sedicente antagonista? Il Nobile ce lo spiega ricorrendo ad un esempio storico. Quello della Comune? Quello bolscevico? Quello maoista? Macché! Quello dei lavoratori statunitensi durante la crisi degli anni trenta i quali

«…lottavano forse per la fuoriuscita dal sistema monetario internazionale e l’abbandono dell’odiata catena aurea? La risposta è un secco no. Quello era «affare» dei padroni. Nel popolo dei poveri, chi poteva si organizzava per sopravvivere in reti di reciproco aiuto materiale. Gli operai scioperavano e a volte occupavano le fabbriche; si scontravano con la polizia, le guardie private e la milizia; si opponevano ai licenziamenti, rivendicavano aumenti salariali e chiedevano nuovi posti di lavoro, che durante il new deal vennero effettivamente creati direttamente dallo Stat. Mentre le amministrazioni roosveltiane cercavano a tentoni di stabilizzare l’economia capitalistica, i lavoratori nordamericani utilizzavano le normative come meglio potevano, forzandone l’applicazione, ma non si ponevano loro il compito di salvare il sistema o di riformare il sistema monetario internazionale. Quello era il compito di Franklin Delano Roosevelt e del suo staff. Salariati e disoccupati lottavano, invece, contro gli effetti sociali del sistema capitalistico, per i loro bisogni immediati, cercavano di darsi un’organizzazione autonoma di classe: e se alcune normative del new deal favorirono l’organizzazione sindacale in un quadro procedurale «neocorporativo», gli scioperi e le occupazioni di fabbriche maggiori avvennero senza o contro la volontà dei sindacati. Quanto più si radicalizzavano tanto meno i lavoratori si ponevano la questione di inventare loro una politica economica: con una coscienza di classe sviluppata comprendevano che per attuare una politica economica occorre avere in mano le leve del governo, del potere».

Quante sciocchezze in poche righe! E’ sintomatico — non a caso, ancora una volta, in compagni di Toni Negri— questo prendere a modello la lotta sindacale degli operai americani dopo la grande crisi del 1929. I lavoratori americani non solo furono sonoramente sconfitti, non riuscirono mai a dare vita ad un partito operaio indipendente, né opporre al New Deal roosweltiano un piano anticapitalistico di contrattacco. Essi restarono sempre truppe cammellate di una delle due frazioni delle classi dominanti, i democratici per la precisione. Mai un esempio fu più infelice. 


Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino. Ad un certo punto del suo libello il Nobile scopre la sue carte false. Sentiamo: 

«Ma se invece si vuole essere antagonisti a entrambe le frazioni politiche già esistenti dell’imperialismo italiano, sia di centrosinistra sia di centrodestra … allora chi si vuole che governi la «cancellazione» e la «fuoriuscita» e gestisca una nuova politica economica e sociale? Chi ha la presunzione di candidarsi al governo, non in un futuro indeterminato, ma nell’orizzonte temporale della crisi in corso, allo scopo di tornare alla lira e cancellare il debito? Sembra incredibile che mentre la stragrande maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici italiane subisce i costi e i contraccolpi dellla crisi pressoché inerme (cioè non riuscendo a difendere nulla delle proprie conquiste passate, in salari, sanità, previdenza e occupazione), ci sia qualcuno così ingenuo da rivendicare una linea economica alternativa (ma al di là del ritorno alla lira, non si sa bene quale) e addirittura un qualche genere di governo «alternativo» …. Se si usasse un minimo di fraseologia vetero-anticapitalistica, questo velleitarismo verrebbe a identificarsi con la rivendicazione della… rivoluzione».

Senza avvedersene il Nostro ha sfiorato il nocciolo del problema. Qual’è questo nocciolo? Che l’annullamento del debito (che può essere diversamente declinato), contestualmente  alla riconquista della sovranità monetaria e alla nazionalizzazione del sistema bancario e dei settori strategici dell’economia nazionale, significa null’altro che porre il problema del potere, di chi governa il paese. E significa porlo in modo rivoluzionario: poiché solo una generale sollevazione di popolo (nella quale avranno un ruolo decisivo i salariati e i giovani precari) che cacci dal potere tutti i comitati d’affari (partiti) delle oligarchie finanziarie europee, potrà davvero sancire la cancellazione del debito pubblico e sganciarsi dall’euro.


Al Nobiel “sembra incredibile” che mentre le masse popolari pigliano tante mazzate, “ci sia qualcuno così ingenuo da rivendicare una line aecdonomica alternativa e un governo alternativo”.


E bravo il nostro Nobile! Undici pagine di asinerie economiche, di contumelie contro il “nazionalsciovinismo”, per poi confessare, tra le righe, che cancellare il debito e uscire dall’euro, significa fare una rivoluzione e prendere il potere.


Questo è in effetti in ballo data la natura di questa crisi caro Nobile: che nessun diritto sostanziale delle masse popolari, né tantomeno della tua immaginaria “classe operaia pura”, potrà salvarsi senza una sollevazione rivoluzionaria, senza cacciare dal potere la rapace oligarchia dominante, senza la conquista del potere politico.


Alla fine tutto il pistolotto del Nobile si riduce a questa critica: che noi saremmo (attenzione all’aggettivo), «ingenui», a pensare che dati questi rapporti di forza sia possibile in tempi politici una svolta radicale di politica economica, imboccare la via della fuoriuscita dal capitalismo. Undici pagine di castronerie “ultrasinistre” per poi rivolgerci la più debole delle accuse riformistiche, quella del realista che bolla i rivoluzionari come “ingenui”, “visionari” e “utopisti”.


Che Dio ce ne scampi di questi marxisti. Con “marxisti” di tal fatta il capitale può dormire sonni tranquilli, saltellando da una crisi epocale all’altra per altri mille anni.

6 pensieri su “TORNARE ALLA LIRA E CANCELLARE IL DEBITO. IN RISPOSTA ALLE CRITICHE DI ULTRASINISTRA”

  1. mario dice:

    Possibile che l'unico genio sulla faccia della terra sia tu. Io penso che le cazzate le vada raccontando te, avessi letto una cosa che ha un senso in quello che scrivi.

  2. Anonimo dice:

    "La realtà è che i dati disponibili non danno ragione agli argomenti conservatori che vengono utilizzati per evitare l'opzione del default e che impongono austerità fiscale su queste economie. Le prove mostrano che i costi di un default, seppur significativi, sono temporanei ed evaporano velocemente. E' altresì chiaro che l'austerity impone su una nazione costi significativi che attraversano generazioni[…] queste nazioni dovrebbero dichiarare default e seguire una strategia di crescita a guida domestica espandendo i loro deficit di bilancio. Per fare questo è richiesta l'uscita dall' EMU (unione monetaria europea, nda), che è necessaria se vogliono riacquisire la capacità di portare avanti gli interessi dei loro cittadini. Il default è la via da seguire."Bill Mitchell, professor of economics, University of Newcastle, Australia.25 maggio 2011

  3. Claudio dice:

    Utopia rossa. L'utopia, letteralmente, non si trova in nessun luogo.E il cervello di Nobile?

  4. Anonimo dice:

    Chiunque abbia un minimo di onestà intelletuale e gli strumenti per comprendere l'analisi di Pasquinelli non può che concordare con quanto afferma. Sono, però, convinto che i vari "Nobile" siano in buona fede e vadano persuasi. Dobbiamo cercare il massimo dell'unità e iniziare la nostra "lunga marcia" cercando di coinvolgere tutti gli smarriti in buona fede. Ci vediamo al congresso. Spero che Nobile sia presente.

  5. roberto 59 dice:

    Condivido l'ultimo intervento, benché ritenga che argomenti così dottrinari, come quelli di Nobile, vadano"tralasciati" più che contrastati . Penso infatti, che sull'ottima proposta a convegno, non solo si debba provare ad allargare il campo sociale, ma, intanto, si rinnovi un po' la nostra cultura e il nostro linguaggio. Per esempio ritengo che il filone (pensiero e azione) della decrescita (alla quale aderisco) debba essere la base sulla quale pensare una nuova politica economica; vedo con piacere che Badiale fa parte del gruppo.

  6. Enzo Valls dice:

    Non mi risulta che sia stata pubblicata qui la risposta di Michele Nobile a Moreno Pasquinelli: Uscire dall’euro o entrare alla neuro? http://utopiarossa.blogspot.com/2011/10/uscire-dalleuro-o-entrare-alla-neuro-di.html

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