La fine del pensiero unico neoliberista
di Sbancor*
Passata l’orgia retorica sul decennale dell’attacco alle Twin Towers, riproponiamo la storica analisi con la quale il nostro compagno e amico Sbancor, nell’agosto 2001, prevedeva l’imminente inizio di una recessione di lunga durata, e lo scoppio di una guerra nell’area asiatico-turanica dove si intersecano le vie del petrolio. Questo saggio dimostra, a dieci anni di distanza, due cose: che la guerra in Afghanistan era già pronta un mese prima dell’11 settembre, e sarebbe comunque scoppiata – la miccia era già srotolata: serviva solo un cerino per accenderla; e che la recessione che oggi chiamiamo crisi dell’economia globale era già in atto nell’estate del 2001, anche se per almeno 8 anni solo in pochi – e Sbancor era tra questi – lo hanno detto e scritto.
Il saggio fu postato sul sito “Rekombinant”, il cui archivio è stato in seguito craccato e distrutto, rendendo questa analisi di fatto irreperibile. Segnaliamo tuttavia che sul n. 86 di “La Contraddizione”, chiuso il 03.09.2001, furono pubblicati degli appunti tratti da questo testo. Questa (ri)pubblicazione, a cura della redazione di Carmilla, vuole rendere omaggio alla lucida intelligenza di un nostro fraterno amico nel mogliore dei modi: invitando i lettori a pensare non solo a Sbancor, ma soprattutto come Sbancor. [ Da: Carmilla]
1. …E allora capisci che la recessione deve ancora venire. E che sarà dura.
«Ormai alla ripresa dietro l’angolo non ci crede più nessuno in America. E molti hanno paura di guardare anche cosa ci sia dietro l’angolo: hanno paura di trovarci il Giappone e la “trappola della liquidità” (liquidity trap)». Così un mio amico, analista di una banca d’affari internazionale, commentava l’ultimo dei tagli operati dal FOMC (Federal Open Market Commitee). Tralascio per decenza i “***** you european shits” di cui il discorso era infarcito. Ormai anche i migliori analisti americani parlano come Al Pacino in “Scarface”.
Nonostante sette tagli del denaro consecutivi, infatti, le notizie che provengono dagli “States” continuano a segnare brutto tempo. Non solo: vengono rivisti anche i dati dell’anno precedente: come dire il miracolo economico americano e i favolosi incrementi di produttività erano meno forti di quanto si pensasse. Ormai anche i giornali, e non solo l'”Economist”, che l’aveva sempre detto, incominciano a parlare della
“bolla delle dot.com”. Insomma la
“new economy” sembra finita prima ancora di iniziare. E l’economia torna ad essere
“the dismal science”, la scienza triste evocata da Carlyle. Di più: quando anche i più collaudati strumenti di politica monetaria non funzionano, quando anche le manovre sui tassi sembrano non aver effetto sull’economia, ecco riapparire il fantasma della crisi, nella sua versione più inconcepibile per il pensiero economico: la
liquidity trap, la trappola della liquidità. Tecnicamente può essere rappresentata così: anche a costo del denaro “zero” o addirittura negativo nessuno è più disposto ad investire. I risparmiatori/investitori attribuiscono al semplice possesso di denaro un “premio di liquidità” cosi alto che fa giudicare ogni investimento, ma anche ogni acquisto come troppo “incerto” per essere perseguito. È ciò che da anni sta avvenendo all’economia giapponese: i prezzi scendono (deflazione) ma anche i consumi scendono.
A tassi di interesse zero e a liquidità praticamente illimitata il PIL è cresciuto nel primo trimestre del 2001 solo dello 0,1% e per la chiusura del semestre si prevede un PIL negativo. Questa preferenza per la liquidità non è solamente un fatto economico. Essa segna il limite di un pensiero economico – di più: di un “common sentiment”. Quel sentire comune che fa di noi, adepti della comunità finanziaria, esseri sostanzialmente indistinguibili dai nostri gessati, dalle scarpe Church, scrupolosamente nere e dai gemelli d’oro. Che ci fa sentire in ogni luogo del mondo a casa nostra, perché i nostri pantaloni sono sostenuti da identiche bretelle blu (o nere) a bottoni.
Quando scatta la liquidity trap è come se le bretelle cedessero contemporaneamente e in tutto il mondo e tutti noi ci trovassimo improvvisamente in mutande. Come capirete, in simile imbarazzante situazione diventa impossibile non cedere alla tentazione di misurare le rispettive virilità. Fare i conti con la realtà in certi casi può avere effetti devastanti!
Scrive J.M. Keynes: «In pratica, si è tacitamente convenuto, di regola, di ricorrere sostanzialmente ad una convenzione. […] L’essenza di questa convenzione sta nel supporre che lo stato di cose esistente continuerà indefinitamente […]. Il metodo convenzionale di calcolo sarà compatibile con un grado notevole di continuità e stabilità dei nostri affari fino a quando possiamo confidare che la convinzione sarà mantenuta […]. Una procedura del genere di questa testé descritta – ne sono certo – è quella che ha fornito la base per lo sviluppo dei nostri principali mercati di investimento. Ma non vi è da sorprendersi che una convenzione, tanto arbitraria se si considerano le cose da un punto di vista assoluto, abbia i suoi punti deboli. E’ questa precarietà che costituisce una non piccola parte del nostro problema» (J.M. Keynes: Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, UTET Torino 1971, pp. 292-93).
2. La convenzione neoliberista.
La convenzione che, insieme alle nostre bretelle, oggi sta incominciando a cedere è il pensiero unico neo-liberista che ha dominato la fine del passato millennio e sta tentando, ancora, di estendere il suo dominio in questo
[clicca sull’immagine a sinistra per ingrandirla]. Pochi assiomi possono così riassumerla:
1. L’economia è la scienza che governa la società nel suo complesso: le altre scienze sono subordinate ad essa che ne decreta, attraverso il mercato, la loro efficacia. Università, centri di ricerca, sistemi sanitari, beni culturali, alimentazione, architettura, arte, cultura, religione e quant’altro sono soggetti alla “dura legge del mercato”. A dirigere queste attività vanno chiamati dei manager (dal latino manus agere).
2. Il mercato decreta il successo o l’insuccesso di ogni attività e della vita umana in generale. Questo successo è misurabile in beni mobili ed immobili.
3. Il mancato successo può essere attribuito solo a colpa soggettiva o malattia grave. Più spesso all’infingardaggine dei perdenti che vogliono, attraverso la spesa pubblica, minare la stabilità della moneta e dello Stato. Costoro vengono chiamati “comunisti”, qualunque sia il credo ideologico a cui si riferiscono.
4. Lo sviluppo dei servizi, così come la crescita del III° mondo vengono affidati all’iniziativa privata e alle forze del mercato. I paesi che non riescono a svilupparsi sono paesi sostanzialmente “illiberali” e gli aiuti vanno commisurati alle loro progressive liberalizzazioni e privatizzazione.
5. Il lavoro deve essere flessibile: solo avendo la libertà di licenziare si può ragionevolmente assumere qualcuno.
6. Le pensioni vanno investite sui mercati dei titoli di debito o di proprietà di imprese, in modo da legare il reddito futuro all’andamento attuale dell’economia e garantire un comportamento coerente degli occupati.
7. L’egoismo privato, l’avidità del singolo, è presupposto del bene collettivo. Chi pone limiti all’egoismo e all’avidità sta operando contro l’umano interesse. Comunista.
8. Il diritto internazionale si fonda su questi principi: chi non li rispetta può essere liberamente invaso o bombardato e infine tradotto di fronte a un Tribunale Internazionale. I patti eventualmente sottoscritti precedentemente con il “reo” (V. caso Noriega, Hussein, o Milosevic) possono essere tranquillamente dichiarati inesistenti.
9. Chi protesta contro il presente stato di cose è un “comunista”.
10. La legge del mercato abroga tutte le precedenti leggi.
Può sembrare incredibile, ma l’insieme corposo di questi principi dipende da alcune macrovariabili economiche. Nonostante schiere di economisti, giornalisti, presentatori televisivi, telegiornali e pubblicità abbiano cercato di convincerci che queste leggi facciano parte dell'”umano sentire” e in qualche caso della volontà divina, esse a loro volta dipendono da alcune insignificanti variabili quali:
1. Il valore del dollaro (oggi in discesa sull’Euro).
2. L’andamento del
Dow Jones e del
Nasdaq (diverse migliaia di punti persi in un anno).
3. L’andamento della bilancia commerciale degli Stati Uniti (-450 miliardi di dollari).
4. Il flusso netto di investimenti esteri diretti e di portafoglio negli States (oggi pari al 64% dei flussi netti di capitali).
Questo insieme di variabili definisce lo “stato di cose esistenti”: la Regola e la Convenzione. Se esse cambiano, il pensiero unico che ne deriva dovrà inevitabilmente recepire il cambiamento degli indicatori sottostanti. Attualmente tutte queste variabili hanno un segno meno davanti. Il che rende mooooolto nervosi gli uomini con le bretelle.
Oggi i grandi gestori internazionali del risparmio, le banche d’affari, i fondi comuni, i fondi pensione, le assicurazioni vivono un periodo d’incertezza e precarietà circa la Regola e la Convenzione. Questa incertezza aumenta il “premio di liquidità” quello strano differenziale fra un valore in denaro e l’equivalente in investimenti o beni che aumenta ogni volta che si teme che il prezzo pagato oggi sia superiore al prezzo a cui lo rivenderò domani. L’incubo peggiore, per coloro che vivono di rendite, è sicuramente la “svalorizzazione” del proprio capitale. Le venali aritmetiche borsistiche che assicurano all’1% della popolazione americana di governare l’economia, ma a molti altri di integrare un reddito o peggio pagare un debito, incominciano mostrare da troppo tempo un segno negativo. Nell’1% serpeggia malumore, nel resto si fa strada una vera e propria depressione. La Depressione aumenta l’incertezza, questa agisce sul premio di liquidità e la depressione prima o poi sarà disperazione.
3. Le crisi “regionali”.
La crisi del pensiero unico neoliberista è dunque la sua incapacità di produrre ricchezza finanziaria indefinita, di prolungare l’illusione che il denaro possa produrre altro denaro senza passare per la produzione. La più grande obiezione alla new economy è l’andamento del Dow Jones e di Wall Street. Non solo: sempre più evidente appare la sua incapacità a governare le crisi economiche “regionali”, dalla Turchia all’Argentina, al Far East.
Il caso Argentino è forse il più emblematico. Dopo svariati tentativi di tener sotto controllo un’inflazione che oscillava fra le tre e quattro cifre, un ministro particolarmente brillante, Domingo Cavallo, decide di rinunciare di fatto alla sovranità monetaria del proprio paese. Per far ciò rispolvera un vecchio metodo usato dagli inglesi in diversi paesi, al tempo dell’Isola del Tesoro e dell’Impero di sua Maestà: il
“currency board”. In esso si stabilisce per legge una parità di cambio fissa fra la moneta nazionale (il peso) e un’altra moneta (il dollaro). La politica monetaria dell’Argentina, a quel punto è delegata alla
Fed. Ciò che Cavallo dimenticò è che per poter permettersi il
currency board sarebbe stato necessario per l’Argentina avere un forte flusso di esportazioni pagate in valuta verso l’area del dollaro. Ma proprio l’adozione del dollaro rese impossibile l’export argentino: mentre Brasile e Cile potevano svalutare e diminuire quindi i prezzi relativi delle merci, l’Argentina era ancorata al Dollaro. La cura ovviamente funzionò per l’inflazione, ma cominciò a provocare un crescente squilibro della bilancia commerciale. Per pareggiare la bilancia dei pagamenti furono iniziate, sotto Menem, le privatizzazioni. In pochi anni gli Argentini si vendettero tutto: aerei, aeroporti, centri commerciali (sono tutti di Soros) impianti di estrazione del petrolio, telefoni, elettricità ecc. L’Argentina era guardata dal mondo come il paese dove il pensiero unico del F.M.I. e della Banca Mondiale aveva vinto. Un miracolo economico! Ma le privatizzazioni prima o poi finiscono, lo squilibrio commerciale resta, lo Stato deve drenare denaro sui mercati internazionali attraverso prestiti internazionali in valuta, ad ogni giro i tassi salgono e il rating diminuisce. I tassi alti scoraggiano l’economia e per tre anni l’Argentina va in recessione. Le Grandi Famiglie (3% della popolazione) incominciano a cambiare i pesos in dollari. Servono altri prestiti, sempre più cari. A questo punto scoppia la crisi finanziaria. Nessuno presta più soldi all’Argentina che è costretta a tagliare del 13% i salari pubblici e a bloccare totalmente la spesa pubblica. Neanche questo basta, ed ecco l’F.M.I., caritatevole, giungere in soccorso, prestando 8 miliardi di dollari. Con una clausola, però: che l’Argentina aderisca al FTAA cioè si apra al libero scambio con gli USA. Doppia trappola: il deflusso di dollari non potrà che aumentare, per il libero scambio e in più si mette in ginocchio il Brasile e si fa saltare il Mercosur.
La crisi finanziaria argentina è solo rimandata di qualche mese: una boccata d’ossigeno per l’UBS, Citygroup e Chase Manhattan e altre grandi banche che hanno ancora qualche mese per “securizzare” i propri crediti, cioè farli scomparire nel risparmio gestito di fondi pensione. Quando la stessa cosa avvenne in Messico nel 1995 a rimetterci fu il Fondo Pensione degli Insegnanti della California! Ma ormai è fin troppo chiaro: le ricette virtuose del F.M.I. sono peggio delle cavallette. Dopo il Sud Est asiatico e la Russia stanno rovinando il Sudamerica. Ma la grande fornace di Wall Street ha bisogno di capitali esteri che tengano su i corsi azionari e quindi
“mors tua vita mea”!
Meraviglie della globalizzazione dei mercati finanziari! Il liberismo è l’ideologia rovesciata del monopolio monetario e finanziario che l’America impone sul resto del mondo. Comprate quello che volete, basta che lo paghiate in dollari. Fate tutti i debiti che volete, basta che li contraete presso una banca americana e che siano dominati in dollari. Investite nell’industria che vi pare, basta che sia quotata a Wall Street.
4. La novità della globalizzazione dal basso.
Ma c’è una altra novità che ormai nessuno può ignorare: la globalizzazione dal basso sembra più rapida, se non più forte, della globalizzazione economica. All’impasse del WTO dopo Seattle, si contrappone la capacità di diffusione su tutto il pianeta di moltitudini che solo per l’effetto rovesciato dei media oggi si definiscono “no global”. Da Nizza a Praga a Quebec City, a Goteborg, a Genova. E domani a Napoli e infine a Washington, dove scenderà di nuovo in piazza l’AFL-CIO, il più grande sindacato americano.
Il mix teorico-pratico di questo movimento è assai confuso. Ma la somma delle istanze che avanza sono un cocktail micidiale per il pensiero unico neoliberista: in esso si sommano proteste antiche, vetero comunismo, neo-anarchismo, pacifismo, sindacalismo di base, pensiero cattolico, verdi, immigrati, minoranze etnico-linguistiche. Finché rimane unito è inattaccabile. Per questo Genova: occorreva provare il terreno delle violenza per vedere di separare le componenti del movimento e batterle in campi separati, una per volta. Ecco perché hanno dato via libera ai black bloc e si sono concentrati a massacrare cattolici, ambientalisti, cooperanti, costruttori di pace ecc. Soprattutto i cattolici fanno paura: sono contro le guerre, sono contro le biotecnologie, sono contro il neo-lberismo, sono contro tutto ciò che potrebbe servire nei prossimi mesi per rimandare la depressione economica.
Assisteremo a un nuovo scontro fra Impero e Papato?
Ho paura che Genova sia stata solo una prova generale. Nei prossimi mesi vedremo al lavoro diverse squadre di “guastatori specializzati”. A Genova hanno perso, questo è fuori di dubbio. E a farli perdere sono stai 300.000 ragazzi che sono restati li per due giorni sotto le manganellate e i lacrimogeni, a volte sotto il fuoco diretto di polizia e carabinieri senza andarsene, ma anche senza alzare il livello dello scontro. Le moltitudini, appunto. Ragazzi incarcerati e torturati che continuano a lottare nelle aule dei tribunali. Una capacità di documentazione e informazione in tempo reale mai vista prima. Una solidarietà internazionale che non si vedeva dai tempi del Vietnam. Quella che doveva essere la frammentazione del movimento rischia di trasformarsi in una vera e proprio debacle per i registi occulti del terrore.
Ma chi sono questi registi e perché si preoccupano tanto di noi? Non sono certo i berlusconiani, utili ****** che non sanno neanche di cosa si stia parlando. Ricordiamoci che le prove generali della repressione di Genova sono state fatte a Napoli, sotto un governo di centrosinistra. In America userebbero un termine molto descrittivo: “l’establishment”. E l’establishment è fatto dei signori con le bretelle delle banche, degli uomini delle multinazionali, dei circoli più reazionari, via via scendendo verso il basso, fino a poliziotti corrotti, gruppi neofascisti, ex agenti della CIA, dell’FBI, della DEA. La politica, in senso tradizionale qui non c’entra. Sono altri i legami che occorre indagare. Riti di denaro e di sangue che hanno accompagnato la politica imperiale degli ultimi cinquant’anni. Riti internazionali e segreti, ma assolutamente lineari nei comportamenti. Decifrarli in tempo è l’unica speranza di evitare altre trappole, questa volta mortali per il movimento.
5. Warfare against Welfare: la posta in gioco.
La posta in gioco è alta. Per l’establishment imperiale si tratta di restituire al capitalismo internazionale l’ultima chiave per poter uscire da un ciclo recessivo che si annuncia lungo. Questa chiave si chiama “Warfare”. Il Warfare non necessariamente è guerra, anche se ogni tanto qualche guerra è pur necessaria per smaltire le scorte d’armi e giustificare i nuovi investimenti. Il Warfare è un complesso militare industriale e di intelligence ed insieme una politica economica. La possibilità di iniettare liquidità nel sistema mirata direttamente ad investimenti in tecnologia che possono perpetuare la supremazia imperiale. Da un punto di vista economico il Warfare è molto più efficace del Welfare. E’ più selettivo, permette di distribuire i soldi fra gli amici, stimola l’innovazione tecnologica, evita politiche sociali imbarazzanti, ha minor impatto sull’inflazione e indirizza la domanda del III° mondo verso un prodotto, come le armi, che assicura la sopravvivenza ai WASP (White AngloSaxon Protestant), dimostrando inoltre l’inutilità delle politiche di aiuto a un terzo mondo barbaro e crudele. Il warfare va continuamente alimentato da visioni geopolitiche.
È questo il “grande gioco”, la scacchiera, come dice Brzezinsky, dove giocare lo scontro fra le civilizzazioni (Samuel P. Huntington: The Clash of Civilisation and the Remaking of World Order, 1998 [trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, collana Garzanti Elefanti, 2000). E che sulla scacchiera sia tornato un “old fellow” come Henry Kissinger rende il gioco particolarmente pericoloso. L’America, almeno dal tempo di Bush senior, sta cercando di superare un ostacolo psicologico: la sindrome del Viet-Nam che gli impedisce di far funzionare sul serio il Warfare. Ci è quasi riuscita con la guerra del Golfo e con il Kossovo. Dove potrà provare una prossima “guerra”?
La Palestina è la miccia. Sempre accesa. Chi ha provato a spegnerla ha fatto una brutta fine, come Rabin. Quanto è lunga la miccia e fino a dove può bruciare? La polveriera non è in Medioriente.
Il Medioriente al massimo è la seconda parte della miccia. La polveriera è in un punto imprecisato delle frontiere della cosiddetta area “turanica” (Iran, Afghanistan, Tagikistan, Khirghisistan, Azerbaijan, Uzsbekistan, Pakistan.) Da secoli è il ventre molle della Russia, ma (attenzione) è il ventre molle anche della Cina. Dalle etnie Uigure (turche) si risale verso lo Xin Xiang : il più grande bacino minerario e petrolifero del mondo. Da li si controlla tutta l’Eurasia. Si controllano le “pipe lines” del III° millennio
[a sinistra: clicca sull’immagine per ingrandirla]. Da lì passano le vie della droga. Da li passano i mercanti di schiavi che riforniscono le industrie e i commerci di tutto il mondo.
“La via della Seta”. La ” Via della Seta” però incomincia a Gerusalemme. È qui che i “fondamentalisti” di tutte le religioni da millenni hanno segnato il luogo della battaglia fra le “civilizzazioni”: la piana di Armageddon. Si lo so: può sembrare follia. Che c’entrano gli interessi economici con le antiche leggende? C’entrano. Il denaro è il terreno del simbolico. Quando non può nutrirsi di numeri deve nutrirsi di sangue.
Oggi il dibattito alla corte imperiale è se consentire Armageddon e accendere la miccia che brucierà fino al centro dell’Eurasia, oppure no. A favore ci sono fondamentalisti ebraici e gli ultraprotestanti millenaristi. C’è
Richard Armitage e i vecchi delinquenti della CIA, gli ultimi di “Phoenix”, quelli dello scandalo Watergate e Iran-Contras, quelli che hanno armato i “talebani”. Contro ci sono gli ebrei democratici, che hanno il terrore che Israele venga sacrificata sull’altare dell'”Impero”, i cattolici, i pacifisti, i
leftist americani. I democratici di Clinton avevano preferito la più nota via dei Balcani. Puntavano anche loro verso il centro dell’Eurasia, ma volevano arrivarci con le bandiere della “democrazia”, la Nato, gli Europei. E soprattutto non volevano problemi con la Cina. Anzi volevano pacificare tutto il Pacifico. Bush no. Ha bloccato qualsiasi accordo sulla riunificazione delle Coree, ha ripreso le “guerre stellari” e, soprattutto, odia gli ebrei. Finora ha trattenuto Sharon, che voleva attaccare durante il G8. Poi i Russi sono entrati anche loro nella partita e per la II° volta in un mese (agosto 2001) si è evitata la guerra in Cisgiordania.
Per quanto a lungo reggerà ?
Può sembrare incredibile: ma gli unici che possono fermare il prossimo carnaio siamo noi, la moltitudine in marcia da Seattle. Per questo devono eliminarci prima. E soprattutto rompere la miracolosa unità fra le diverse anime del movimento. Ancora una volta “si può quello che si fa”.
Appendice: un anno dopo
Il 25 settembre 2002 Sbancor pubblica su “Rekombinant” un breve testo, corredato da tre grafici finanziari che illustrano tre “movimenti anticipatori”: quello del Dow Jones (qui a lato uno analogo: cliccare sopra per ingrandirlo), quello dell’indice di volatilità sui titoli derivati trattati dalla borsa di Chicago, e quello Standard & Poors 500. Tutti e tre i grafici comprendono il periodo che va da
prima dell’attentato alle Twin Towers a
dopo l’inizio dell’operazione “Enduring Freedom” (7 ottobre 2001). Ebbene: le borse iniziano a crollare, e la volatilità dei derivati ad impennarsi,
prima dell’11/09: il 6 settembre, per l’esattezza. E iniziano a risalire, e i derivati a calare,
prima dell’invasione dell’Afghanistan. Con le parole di Sbancor:
qualcuno sapeva prima e ha giocato le sue carte, o meglio le sue azioni…
Diamoci da fare