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L’EURO È IL PROBLEMA, NON LA SOLUZIONE

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The game is over

15 luglio: venerdì nero – 18 luglio: lunedì nerissimo – 1 agosto: lunedì del panico – 1 novembre: martedì del contagio


di Moreno Pasquinelli

Oltre allo spauracchio del default, per cui se ci dichiariamo insolventi sarebbe la bancarotta del paese, i compagni di merende di Trichet, Draghi e Napolitano, ricorrono all’ultima arma di distruzione di massa (dei cervelli): se usciamo dall’euro sarà l’apocalisse. Primo compito: contrastare questa campagna di terrorismo ideologico.



Del nuovo tonfo nei mercati finanziari internazionale si  addebita la colpa alla decisione del governo greco di sottoporre a referendum il nuovo piano di salvataggio (leggi di lacrime e sangue per il popolo) imposto dalle oligarchie europee. Imperdonabile delitto di lesa maesta! Il direttorio dell’euro, ben sapendo che la maggioranza dei greci dirà NO al proprio massacro, hanno mostrato i muscoli: «Ma come si permettono ‘Sti straccioni di greci di porre in discussione i nostri ultimatum? Mo’ gli facciamo vedere noi!». Tutta la stampa sistemica europea ha fatto eco agli eurocrati, giustificando così il crollo delle borse.

Ma la mossa di Papandreu (che non depone a favore della resipiscenza democratica del governo di Atene, che è forse solo una mossa tattica per vendere la pelle a più caro prezzo) è solo un epifenomeno, non la causa del nuovo tracollo dei mercati finanziari. Le due cause, repetita juvant, sono la depressione economica generale e che il traballante edificio dell’euro sta implodendo su se stesso, trascinando giù l’edificio dell’unione europea. Un terremoto dalla portata economica, sociale e geopolitica di immense proporzioni.

Bisogna infatti dirla tutta sulle cause immediate del nuovo tonfo delle borse. Il segnale più fosco non è venuto dalla Grecia, ma proprio dall’Italia, dall’asta andata male di venerdì scorso dei titoli di stato italiani pluriennali a scadenze brevi: 2, 3  —che la Bce non acquista, limitandosi a raccattare i Btp a 5 e a 10 anni. Per la prima volta dagli inizi degli anni ’90 il governo ha trovato difficoltà a piazzare la sua mercanzia. Colpa solo dei demoni della speculazione che manovrano nell’ombra per far salire interessi e rendimenti? Questa è solo una parte del discorso, l’altra essendo che le grandi banche europee e anglosassoni non solo non riacquistano ma si sbarazzano dei titoli italiani perché danno per certo che essi continueranno a perdere di valore. 


Sbarazzarsi dei titoli italiani è dunque, leggi di mercato per leggi di mercato, una elementare misura di autodifesa, di salvaguardia dei loro asset —tanto più perché le autorità europee stanno imponendo alle banche nuove forti ricapitalizzazioni, e chiedendo loro di ridurre il leverage, o meccanismo della leva —quello per cui si può muovere masse enormi di capitali pur disponendo di quantità dieci o venti volte più piccole [vedi: Inchiesta sul sistema bancario, dicembre 2010]. Il serpente che si morde la coda. Quanto costi alle banche italiane continuare a comperare titoli italiani e come questi costi lievitino con l’aumento dello spread col bund tedesco, è bene illustrato da Marco Onado il quale calcola che cento punti base del differenziale equivalgono ad «un salasso di 9 miliardi in termini patrimoniali e 1,2 di riduzione dei profitti lordi».  [Il Fatto Quotidiano, 2 novembre]

Ci spieghiamo così l’impennata del differenziale (spread) tra i titoli italiani e quelli tedeschi (che ha toccato la cifra record di 476 punti base, per attestarsi, nella serata di ieri, a 440) e il picco raggiunto dal rendimento dei Btp, non solo di quello a cinque anni —che per la prima volta dall’arrivo dell’euro frutta il 6,33% di rendimento, ovvero poco sotto la soglia del 7% considerata di “default tecnico”—, ma pure di quello a 10 anni. Le difficoltà del Btp a 10 anni è particolarmente significativa, poiché avviene malgrado la Bce, a partire da agosto, stia continuando a comperarli sui mercati secondari, nelle borse (per mercati primari dei titoli s’intendono appunto le aste programmate dal Ministero dell’economia). Segno del precoce fallimento di questo salvataggio sotto mentite spoglie, visto che l’Italia per rinnovare i debiti paga oramai ben il triplo della Germania e il doppio della Francia [Laura Serafini, Il Sole 24 ore, 1 novembre]. La qual cosa la dice lunga su quanto l’Unione europea sia disunita e tenuta assieme con la colla.


Inevitabile quindi il balzo dei credit default swap (CdS), i derivati con cui chi acquista un bene finanziario si assicura dal rischio fallimento: quelli dell’Italia sono oramai a 520 punti base, prossimi al massimo storico dei 521 toccato il 21 settembre. In poche parole: vero è che i titoli di stato italiani sono un appetibile boccone per chi voglia guadagnare, ma lo sono fino ad un certo punto, visto che assicurare le operazioni d’acquisto e garantirsi dall’insolvenza diventa sempre più costoso. 

C’è poi un altro argomento che deporrebbe a favore delle banche, che sono tra i maggiori acquirenti dei titoli di debito pubblico. Questi titoli, tanto più quelli a cinque e dieci anni, sono da considerarsi illiquidi —ovvero capitali che, oltre ad essere ad alto rischio, daranno frutti solo nel medio lungo periodo. Si dirà che l’attività bancaria in quanto tale è illiquida, perché consiste in in credito ad aziende e a privati cittadini.  Ma qui sta il problema: la depressione economica ha spinto una consistente fetta di questi debitori in default, ha causato una messe di insolvenze sui prestiti bancari. In caso di panico bancario, se i depositanti decidessero di non rifinanziare le banche e si recassero agli sportelli a ritirare i loro gruzzoli e gruzzoletti, le banche, piene appunto di crediti illiquidi, non avrebbero risorse per i rimborsi, semplicemente farebbero bancarotta, con conseguenze devastanti sul ciclo economico. 


Si capisce dunque come mai tutti i governi accorrano al capezzale delle banche e, dopo la lezione di Lehman Brothers, le abbiano salvate praticamente tutte —ovviamente facendone pagare i costi alle casse pubbliche. Sta di fatto che oggi siamo già, malgrado le politiche monetarie espansive, malgrado tassi d’interesse ancora bassi praticati dalla Bce, dentro il famigerato Credit Crunch, la stretta creditizia: le aziende e i privati debbono superare condizioni più dure per prendere a prestito i quattrini, e ove riescano a farseli prestare ciò a tassi proibitivi.

Comunque si voglia rigirare, la frittata ci dice la stessa cosa, che la catena dell’euro si sta spezzando, e come tutte le catene essa si spessa sugli anelli più deboli. Avevamo ragione, quando, ben prima dell’attuale bufera iniziata nel luglio scorso, di contro alla vulgata (non solo berlusconiana) sulla “solidità dei fondamentali dell’economia italiana”, dicevamo che lo Stivale era uno degli anelli deboli della catena europea, che si doveva dunque parlare di Piigs e non di Pigs [Sopravviverà l’euro fino al 2015?, febbraio 2010]. Andatevi a rileggere infatti quanto dicevano sia i politici che gli economisti italiano fino a solo un anno fa: lo spartito era che l’Italia non avrebbe mai fatto la fine della Grecia. Ora, tutti all’unisono, e senza accennare alla minima autocritica, essi chiedono che Berlusconi si faccia da parte… perché stiamo facendo la fine della Grecia.

Questi stessi pennivendoli, questi stessi politici al servizio permanente effettivo del capitalismo finanziario-bancario, hanno sì preso atto che l’Italia è sull’orlo del baratro, ma si guardano bene dal dire che se siamo sull’orlo dell’abisso, prima ancora che per le strutturali strozzature italiane, ciò dipende dalla crisi generale in cui il capitalismo occidentale è entrato. Né tantomeno ci dicono che la concausa di questo marasma è proprio l’euro, un marco camuffato, che equivalse, come tutti gli economisti ora ammettono, ad una rivalutazione della lira di circa il 20% e ad una svalutazione del marco di altrettanto —dati ufficiali, ma nel mercato, non quello finanziario, ma quello dove le massaie acquistano i beni di consumo, si sa che il potere d’acquisto di un euro equivale in realtà non a 2mila  bensì a mille lire—, cosa che ha causato gravissime difficoltà all’economia italiana. A dire il vero si potrebbe risalire ancora più indietro, alla partecipazione italiana, prima al Serpente monetario europeo (1972) ed infine al Sistema monetario europeo (Sme) del 1979. 
Il debito pubblico dal 1970 ad oggi
(Clicca per ingrandire)


Si guardi alla Tabella n.1, e si noti la curva del debito pubblico. E’ sicuro che l’aumento della spesa pubblica è cresciuta negli anni ’80 per precise responsabilità dei governi demo-socialisti di allora, che l’uso di risorse pubbliche è servito per corrompere vasti strati di proletariato, quindi per tenere in piedi il regime e ed evitare il sorpasso del Pci. Ma è evidente che senza la spesa pubblica l’economia italiana non avrebbe conosciuto i tassi di crescita di quel periodo [vedi: Contro-inchiesta sul debito pubblico italiano e la sua sostenibilità, maggio 2011]. Ma, appunto, solo con la spesa pubblica è stato possibile stemperare e contrastare i danni causati, prima dall’ingresso nello Sme, poi dall’adozione dell’euro.

I partigiani dell’euro, sui giornali e nelle Tv, continuano a menarla che senza l’euro l’Italia sarebbe già precipitata nel baratro, a causa della sua inflazione a due cifre. Mentono sapendo di mentire! Vero, la gabbia dell’euro ha sterilizzato (solo in parte per altro, visto il differenziale d’inflazione tra noi e la Germania) l’inflazione, ma essa ha messo palle di piombo al piede dell’economia italiana, per cui, per una falla chiusa, quella inflattiva, s’è aperta la doppia voragine delle partite correnti (rapporto import-export) e del debito pubblico —e se si parla di produttività del lavoro in Italia, è proprio da questi fattori che si deve partire, non dalle scemenze teutoniche sulla pigrizia dei latini.

Siccome Berlusconi è un pagliaccio i templari dell’euro hanno facile gioco a ridicolizzare le sue stoccate contro l’euro. Tuttavia il pagliaccio, per una volta, ha centrato il bersaglio:  «L’euro non ha convinto nessuno, è una moneta strana, non c’è una banca di riferimento e non ha un governo unitario l’economia… perché non é la moneta di un solo Paese ma di tanti che però non hanno un governo unitario né una banca di riferimento. È un fenomeno mai visto, ecco perché c’è un attacco della speculazione e risulta problematico collocare i titoli del debito pubblico.. ». [Il Sole 24 Ore, 28 ottobre]


Berlusconi non ha fatto altro che pronunciare parole di buon senso, dicendo, apertis verbi
, ciò che dicono tutti gli economisti, quale che sia la loro scuola. Solo che questa verità dev’essere taciuta ai cittadini, ai quali si deve far credere che gli asini volano, i quali devono essere terrorizzati affinché siano disposti a farsi portare al macello pur di salvare la moneta unica europea. E a questo ci pensano i politici (che di economia non capiscono un’acca), e gli economisti, quelli d’accatto, i soli che usufruiscono, non a caso, del diritto di tribuna, di sparare le loro cazzate sui giornali e nelle Tv. 


Siccome l’idea di uscire dall’euro sta uscendo dagli anfratti e rischia di trasformarsi in valanga, ecco che i templari dell’euro mandano avanti le loro truppe cammellate di pennivendoli. L’obbiettivo è apodittico appunto: se usciamo dall’euro finiamo nell’abisso, quindi tutti i sacrifici sarebbero giustificati. Un vero e proprio terrorismo ideologico.  Vero è che se uscissimo dall’euro daremmo una mazzata letale alla cleptocrazia e al sistema di capitalismo casinò. In cambio però le masse popolari italiane non solo eviterebbero di subire un’ecatombe, ma consentirebbero a questo paese di rinascere. Che si rinasca seguendo la via socialista o quella di un capitalismo di stato, ciò lo vedremo domani e dipenderà da chi conquisterà l’egemonia, da chi saprà orientare la sollevazione sociale.


Un esempio lampante di terrorismo narrativo è costituito dall’articolo di Fabrizio Massaro, un giovane giurista siciliano imbucatosi in quel di Milano. Egli ha scritto un articolo sul Corriere della Sera del 20 settembre scorso dal titolo programmatico: «Le regole (impossibili) per lasciare l’euro. I paletti dell’articolo 53. Il nodo bond, scatterebbero cause in tutto il mondo».

La tesi, alquanto pittoresca in bocca ad uno che si da arie di giurista, è che dall’euro non si può uscire poiché nei Trattati europei non sono contemplate clausole di rescissione e di uscita. Roba da sbellicarsi dal ridere! Ma come ha fatto questo qui a laurearsi in diritto? Nei prossimi giorni risponderemo, punto per punto. 

5 pensieri su “L’EURO È IL PROBLEMA, NON LA SOLUZIONE”

  1. Anonimo dice:

    E di Napolitano che fa di cassa da risonanza a quest'ampia vulgata non vogliamo dire nulla?

  2. Anonimo dice:

    L'Italia è l'anello debole della catena europea, dicono? Allora ricordiamoci che "l'anello debole della catena è anche il più forte, perchè può spezzarla" (S. Lem)

  3. Anonimo dice:

    altra cosa da far capire URGENTEMENTE alla gente: l'euro, oltre alla germania tutta, negli altri paesi serve solo alla DELOCALIZZAZIONE INDUSTRIALE, a permettere agli industriali di acquisire fattori produttivi nei paesi in via di sviluppo, tramite il cambio favorevole, e licenziare in italia. antonio.

  4. Odnalor dice:

    Articolo meraviglioso completamente in linea con quello che ho sempre pensato e asserito. Bravo!Lo farò circolare il più possibile.Grazieeee!

  5. Anonimo dice:

    Credo che gli analisti abbiano invertito il rapporto causa/effetto.Il vero problema non è il debito pubblico di Grecia , Italia, Spagna ecc. che preme sull'eurozonama la poca credibilità dell'euro che porta ad aggredire (solo inizialmente) la frontiera dell'erozona (Grecia ed italia in primis).I governi nazionali possono contraatare deficit e debito con le misure di politica economica ritenute più opportune ma, al massimo, si prolungherà l'agonia.il problema vero è l'euro.

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