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IL MANIFESTO CHIUDE……

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Norma Rangeri

Chi è in lutto?


di Alberto Bagnai*

Ci risiamo. Sul Manifesto di ieri leggiamo il periodico “accorato appello” del direttore Parlato: ci stanno togliendo i soldi, la decisione è stata presa dagli Uffici della Camera (i politici non ci si sono nemmeno sprecati), che si sono battuti il belino degli appelli del Presidente della Repubblica (liberté, égalité, fraternité), siamo stati condannati, sarà disoccupazione per migliaia di addetti al settore, saremo costretti a chiudere, dopo quarant’anni di lotte per le libertà, gli abbonamenti stanno calando…

Ecco: ferma tutto: gli abbonamenti… Una volta, a sinistra, esisteva un valore che mi sembra definitivamente tramontato: l’autocritica. Forse sarebbe il caso di chiedersi perché gli abbonamenti stanno diminuendo, no? Avrete fatto le vostre analisi. Vi regalo la mia.

Quest’estate il Manifesto ha lanciato un dibattito sulla Rotta d’Europa con un articolo abbastanza fumoso nel quale Rossana Rossanda, fingendo di fare delle domande, dava delle risposte, le risposte che erano dentro di lei, e che, purtroppo, erano per lo più sbagliate. Come si dice a Roma, ci hanno imboccato tutti: una bella passerella di articoli che seguivo distrattamente andando da un rifugio all’altro in Alto Adige, fino a che mi è venuto un travaso di bile a fronte del Vajont di banalità, di “neismo” (neocapitalismo neoliberismo neofinaziarizzazione della neoeconomia), e di ossequio ai mantra della finanza, malamente camuffato da voce critica e di sinistra.

Ossequio che raggiunse il culmine nella stomachevole intervista di Rossanda ad Amato. Chi non l’ha letta se la vada a rileggere (consiglio la versione apparsa sul forum amatoriale piuttosto che quella del Manifesto, perché sul Manifesto prudentemente non vennero consentiti commenti dei lettori). La legga attentamente, e poi la incornici dove ritiene sia il suo posto (ad esempio, sopra il Washington Consensus, per gli amici WC, del quale l’intervista ricalca pedissequamente le principali banalità). Impressionante il tono supponente con il quale i due amiconi danno per scontate e self evident delle asserzioni che i più grandi economisti mondiali avevano confutato con larghezza di argomenti anni prima: in Italia abbiamo beneficiato più di altri dello scudo dell’euro, uscire non sarebbe una soluzione, il problema si risolve con gli eurobond… Insomma: nani sotto i piedi di giganti.

Come sono intervenuto lo sapete: dicendo, come sempre, delle semplici verità tecniche assodate nella letteratura scientifica internazionale, presentando dati (ad esempio, sfatando l’idiozia che la svalutazione ci sterminerebbe, asserzione che perfino Monti illo tempore contestò, ammettendo che invece la svalutazione ci aveva fatto bene), e arrischiando di mio solo una analisi politica: l’euro è stato il suicidio della sinistra, un tentativo, destinato al fallimento, di accedere alla stanza dei bottoni avallando una decisione che aveva conseguenze evidentemente disastrose per le classi lavoratrici, compiuto con ributtante paternalismo, nascondendo agli elettori l’esistenza e la natura dei costi che si sarebbero andati a sostenere. Ma i nodi stavano venendo al pettine. La sinistra aveva forse ancora l’opportunità di fare marcia indietro e di gestire un processo di uscita che altrimenti si sarebbe comunque verificato, consegnando il paese in mano alle destre.

Abbiamo scoperto che nel giornalismo non vale la legge di Gresham: è l’idea buona a scacciare la cattiva: quando il 13 novembre scorso, a meno di tre mesi dall’uscita dell’articolo, sono andato a verificare su Google, ho avuto la soddisfazione di vedere che il mio lavoro aveva avuto quasi 50000 hits (pagine che ne parlavano), seguito da quelli di Fumagalli e di Gallino. Insieme, i nostri tre lavori facevano il 40% degli hits di un dibattito che constava di altri 45 articoli (i quali quindi avevano avuto un impatto abbastanza trascurabile – e io, da economista, devo credere nel mercato).

Ma nel frattempo, il 12 ottobre, usciva la lettera di dimissioni di Rangeri e Mastandrea.

Una lettera sorprendente perché in essa i suoi due colleghi, quasi modo geniti infantes,rivendicavano di aver con il dibattito sulla rotta d’Europa “rimesso al centro dell’agenda politica la questione europea (n.d.r.: loro? Poveri untorelli!) contribuendo a evitare la deriva antieuropeista che in molti paesi del continente accomuna alcune sinistre radicali alle peggiori destre populiste e svelando la follia del ritorno alle monete nazionali che pure rischiava di affascinare troppi a sinistra.”

Ah, ecco! Ma allora non era un dibattito! Bastava dirlo! Mi era sembrato in effetti di accorgermene a mano a mano che alcuni amici mi confessavano di aver voluto intervenire nel dibattito in senso critico verso l’euro, e di essere stati censurati (naturalmente con ottimi motivi: sai, non abbiamo posto, ci si sono intasati gli hard disk…). E non sto parlando di uno dei tanti “ex-qualsiasi-cosa-tranne-che-economista” che abbiamo visto intervenire lungo tutta l’estate su questo tema squisitamente economico. Sto parlando di docenti universitari italiani o esteri. Già. Non era un dibattito. Era della sana disinformatia d’antan (non lo dico io: io ancora non posso credere ai miei occhi: lo leggo nell’articolo dei suoi due colleghi) fatta sicuramente gratis (respingo anch’io con fermezza le allusioni del Fatto Quotidiano, che segnalo ai miei lettori solo per completezza di informazione: sa, anch’io, nel mio piccolo, ci provo…). Mentre in tutta Europa (in Francia, ad esempio) la sinistra seriamente e civilmente si interroga, a Roma ci si preoccupa di fornire la propria versione, accogliendo anche articoli sulla Germania “isola felice”… che nessuno ha letto!

E quello che a me stupisce, essendo io stato educato dalla mi’ mamma all’idea di essere di sinistra, e all’idea che la sinistra fosse libertà di pensiero proprio e altrui, quello che non riesco proprio a concepire, è come due giornalisti di sinistra non fossero in grado di capire che colossale, gigantesco, pateticamente comico autogol stessero commettendo scrivendo una frase simile. Di autogol qui ne abbiamo visti tanti: vi ricordate ad esempio di Paperoga/Jonung? Ma uno come quello dei due dimissionari…

Perché vede, Parlato, lei che, giustamente, si accalora, come in altre occasioni abbiamo visto fare al governatore Draghi, per il suo posto di lavoro, forse non coglie esattamente la dimensione del problema. La capisco. La perdita del lavoro si associa a una certa ansia, è uno dei costi umani dei quali gli economisti sono consapevoli, stanti anche le statistiche sulle difficoltà di reinserzione quando questo evento colpisce in certe fasce di età: io sono solidale con lei senza ironia in questo. Ma, vede, il problema va capito, e va capito bene (mi scusi se mi permetto, non voglio sembrarle troppo supponente).

Perché il problema non è che l’asserzione dei suoi due colleghi denotava una colossale incompetenza in materia, come non noi, ma i fatti, stanno dimostrando. Fino a lì, avrei applicato il solito principio: povertà non è vergogna. Se uno le cose non le sa, magari farebbe meglio a esercitare prudenza (soprattutto se dispone di un potente strumento per influenzare l’opinione pubblica), ma transeat: anch’io ignoro tante cose. Come diceva un suo noto collega, “fono un giornalifta ma anche un uomo, non poffo fapere tutto” (e anche in quefto cafo fono errori di pronuncia, non di battitura). Mi conceda il Signore l’eleganza di non parlare di quello che non so – o la fortuna di non incontrare uno che se ne accorge (come purtroppo è successo ai suoi due colleghi)!

No, il problema non è l’ignoranza della dimensione tecnica del dibattito. Transeat.

Il problema è l’ammettere così, candidamente, di aver dato vita a un dibattito finto, a una discussione che doveva dimostrare una tesi (non mi interessa se in conto terzi o in buona fede, come sicuramente sarà stato, non mi interessa se giusta o sbagliata, come poi era). L’ammettere, insomma, di aver tradito i propri lettori, di aver tradito la propria missione, che dovrebbe essere (mi corregga se sbaglio, sa, io potrei avere del giornalismo una visione ingenua, da profano, lo ammetto), dovrebbe essere, dicevo, quella di informare, non di indottrinare.

E già questo basterebbe a spiegarle cosa sta succedendo, no? Eppure io alla sua collega Rossanda lo avevo detto: stia attenta, signora, perché, come ci insegnano i tedeschi, Sünd und Schande bleibt nicht verborgen. E quando il peccatuccio viene a galla, il lettore se ne va. Perché io quest’estate le lettere dei suoi lettori le leggevo. Lei mi sa di no. Le posso dire che il giochetto lo avevano capito già prima della confessione dei suoi due colleghi, e molto prima di me, che sono il solito bambacione: mi dicono “dibatti”, e io dibatto, o, magari, come in questo caso, mi dibatto, preso nella rete di un “dibattito” totalmente orientato.

Del resto, se avete voluto l’euro, avrete anche voluto l’ideologia liberista che ad esso sottostà. Avete voluto il mercato, quindi. Certo, lo avete voluto per i motivi che ho chiarito in questo incontro: perché non sapete cos’è. Ma lo avete voluto. E adesso godetevelo. Nel mondo dell’euro, sorpresa, non ci sono soldi per gli operai, e nemmeno per i giornali “””””comunisti”””””. E allora che si fa? Si pedala, come tutti quelli che hanno voluto la bicicletta. Si chiama mercato. Benvenuto nel mondo del “lenbidong” (che non è un fiume del Vietnam, come credevo, quando sentii pronunciare questa parola a un esame di dottorato, ma più semplicemente il learning by doing secondo un candidato…). Ecco, ora imparerete cosa è l’euro, imparerete cosa avete voluto, e poi ci direte se vi piace. “Un sia mai si torna alle monete nazionali!” Che follia! Anzi, visto che le monete sarebbero, nel caso, tante, che follie (e in effetti in questa storia una traviata c’è).

Non si preoccupi per noi. Caso mai volessimo essere disinformati da qualcuno,sapremmo comunque a chi rivolgerci per farci dire quanto bene ci ha fatto l’euro e quanto bene ci faranno le riforme. Siamo tutti utili, ma nessuno è indispensabile. Né io, né, apparentemente, lei. Ah, per inciso, se decideste di fare autocritica me lo faccia sapere, perché in segno di riconciliazione mi abbonerei. Ma prima voglio vederla, questa autocritica, per incorniciarla sopra il Washington Consensus, accanto all’intervista ad Amato. Poi fra un anno se ne riparla.

Cordialmente.

P.s.: ah, e non si preoccupi: non chiuderà. Il mio articolo contiene una inesattezza. Non è vero che siamo tutti utili, o comunque non tutti allo stesso modo. Lei lo è sicuramente più di me.

Dedicato a Pilar (ricordo bene?), che in questa circostanza avrebbe detto: “Ah, el Manifesto chiude? No es que me gusta, pero siento un fresco!” E troppi ne devo vedere passare lungo la Senna con la panza all’aria. Fuori uno. E così mi sono consolato del mio lutto.

* Fonte: Goofynomics

Bozza di Manifesto del MPL
Verso l’Assemblea del 4-5 febbraio

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