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HOLLANDE E GLI HOLLANDIANI DI CASA NOSTRA

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Le Germania c’entra. Eccome!


di Leonardo Mazzei*

Joseph Halevi, in un breve articolo su il Manifesto del 10 maggio, dimostra l’insostenibilità degli obiettivi di Hollande, a prescindere dalle resistenze che troverà dalla Germania rispetto alle correzioni ipotizzate del Fiscal compact.

Halevi si concentra infatti sulla debolezza delle proposte del neo-inquilino dell’Eliseo in materia fiscale, affermando che la propagandata «tassazione dei ricchi» si rivelerà come il solito fuoco pirotecnico da campagna elettorale che «non potrà cambiare di molto la composizione del gettito, che invece si impernia sull’Iva».

La conclusione dell’articolista è che: «L’effettiva base impositiva della Francia non permette politiche di ripresa mantenendo l’obiettivo del bilancio in pareggio per il 2017 e la riduzione del deficit al 3% del Pil per l’anno prossimo. Pertanto rinegoziare il Fiscal compact non basta, soprattutto quando l’economia francese sta entrando in recessione. Hollande dovrebbe rivedere i suoi obiettivi, cioè quello del pareggio per il 2017 e la riduzione del 3% per il 2013. Qui la Germania non c’entra».

Le osservazioni di Halevi sull’insostenibilità degli obiettivi hollandiani (il cui raggiungimento richiederà infatti pesanti manovre economiche, delle quali per ora pudicamente non si parla) sono inappuntabili, salvo il fatto – tutt’altro che secondario – che la Germania c’entra, eccome! Se infatti è vero che non si capisce come Hollande farebbe quadrare i conti, prescindendo qui da un Fiscal compact che imporrebbe un rientro ben più rapido, il tutto va evidentemente inquadrato nella prospettiva più ampia di una rinegoziazione del trattato e di un cambiamento sostanziale delle regole e delle politiche europee (ruolo della Bce, eurobond, eccetera).

E’ realistica questa prospettiva? E, qualora si realizzasse, rilancerebbe davvero l’economia europea? Ecco le due domande alle quali bisogna cercare di rispondere.

Iniziamo dalla prima. Senza una «riforma dell’Europa» la prospettiva hollandiana, che tanto entusiasma i sinistrati di casa nostra, non ha alcuna possibilità di successo. Si tratta dunque di valutare la possibilità di questa riforma. Il presidente francese chiede una tassa sulle transazioni finanziarie, un ruolo più attivo della Bei (Banca europea degli investimenti) e soprattutto una diversa politica della Bce, che non dovrebbe più finanziare solo le banche, ma anche gli stati.

Su questo punto la posizione tedesca è ben nota: la politica del rigore non si tocca, ed il Fiscal compact non può essere rimesso in discussione. Certo, per Berlino l’esito delle elezioni francesi è comunque un bel problema, dato che la vittoria di Hollande è anche la dimostrazione di quanto sia insostenibile la rigida politica dei conti imposta dall’Unione. Ma una svolta come quella chiesta da Parigi non sembra alle porte, prepariamoci semmai ai soliti bizantinismi europei, con tanti pasticci, tanti giri di parole, ma nessun cambiamento sostanziale.

Non a caso i venditori di fumo professionali – in prima fila Mario Monti – si sono già messi all’opera per rifilare la loro merce contraffatta. La svolta per la «crescita» che reclamizzano altro non è che un misero trucchetto contabile, che consentirebbe di scorporare dal debito (ai fini del Fiscal compact) le spese per alcuni investimenti (ad esempio quelli per la banda larga e per i progetti transfrontalieri di interconnessione elettrica) e forse – nel caso italiano – il pagamento anticipato alle imprese dei debiti della pubblica amministrazione.

Avremmo dunque una doppia contabilità – ci voleva un serioso bocconiano per superare le sfacciataggini contabili del tributarista Tremonti! – con un debito calcolato ad hoc per non sforare i tabù europei, ed un altro (quello vero) che continuerebbe a crescere, accrescendo di conseguenza la necessità di emettere nuovi titoli di stato con i relativi interessi crescenti. Che sia questa la «crescita» di cui parlano?

Cosa possiamo allora attenderci dall’attuale discussione? Come potrà comporsi il dissidio sorto, soprattutto quello tra Parigi e Berlino? La cosa più probabile è che la Germania non si pieghi nella sostanza e la Francia ottenga qualcosa nella forma.

Formalmente una scappatoia c’è, e gli eurocrati l’hanno già individuata: il Fiscal compact prevede infatti che la disciplina di bilancio possa essere allentata in «circostanze eccezionali», specificando che ci si riferisce anche a «periodi di grave recessione economica», purché tale allentamento «non comprometta la sostenibilità del bilancio a medio termine».

Non siamo forse in un «periodo di grave recessione economica»? Si proceda allora con gli allentamenti temporanei nella prospettiva del rigore! Si potrebbe dire che fatta la legge, trovato l’inganno, ma non sarebbe esatto dato che in questo caso la legge non è ancora legge visto che deve essere ancora ratificata dagli stati. Avremmo così il singolare caso di un trattato che, prima ancora di entrare in vigore, vedrebbe una deroga prevista solo per eventi eccezionali.

Dice niente questo pittoresco pateracchio che si profila agli europeisti per fede o per mestiere? Dice niente ai sinistrati che pervicacemente si oppongono all’obiettivo della riconquista della sovranità nazionale, perché tutto ciò che è sovranazionale è sempre «mejo de la nazzione»? Eppure qualcosa dovrebbe dire: che l’Europa va a rotoli, e che per rimandare il tracollo definitivo le classi dirigenti altro non sanno inventarsi se non toppe che sono peggio del buco.

Ed ora una breve digressione sulle curiose vicende del nostro disgraziato paese. Meno di un mese fa (esattamente il 18 aprile scorso) l’obbligo del pareggio di bilancio è stato inserito nella Costituzione. Ma se l’accordicchio europeo per l’allentamento dei vincoli di bilancio andasse in porto (ed il governo Monti sta lavorando in tal senso), si imporrebbe immediatamente una deroga a tale norma. Anche in questo caso la deroga è prevista. Ecco come recita il nuovo articolo 81: «Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali». Giusto per rimarcare la qualità e la serietà di un’intera classe politica, che definire buffonesca sarebbe un complimento, poniamoci una domandina retorica: ma questi «eventi eccezionali» ai quali ora ci si appellerà non erano forse già in atto il 18 aprile quando il senato ha costituzionalizzato il pareggio di bilancio?

Ma torniamo ad Hollande ed agli hollandiani. Che il pateracchio di cui sopra prenda corpo è il massimo obiettivo raggiungibile, in quanto agli eurobond ed alla riforma della Bce che se li scordino pure. La Germania non intende accollarsi gli oneri del debito dei paesi del sud dell’Unione. La Merkel dovrà adattarsi un po’ nella forma, ma non cederà di un millimetro nella sostanza. In altre parole: il rigore potrà subire un momentaneo allentamento, ma mai a spese dei tedeschi.

All’interno dell’Unione la Germania non è sola, anche se ha perso qualche alleato per strada. Le regole europee, che non si cambiano tanto facilmente, sono dalla sua parte. Ma quel che più conta è che sono ancora con la Germania i principali centri del potere finanziario, che vorrebbero sì la crescita, ma che hanno in ogni caso la priorità assoluta di evitare ogni rischio di default.

Hollande è dunque destinato alla sconfitta. Di fronte all’impossibilità di una vera riforma dell’Unione, egli dovrà scegliere tra il piegarsi apertamente a Berlino o l’aprirsi di un contenzioso di lungo periodo con la Germania. Se il primo scenario sarebbe disastroso per l’immagine e la credibilità del presidente francese, il secondo darebbe probabilmente il colpo definitivo alle prospettive dell’Unione, un’ipotesi difficilmente accettabile per l’europeista Hollande. La sua politica è infatti sostenuta da una parte delle élite europee, proprio perché si basa su un tentativo di riforma che mira ad avere «più Europa», soprattutto sul piano politico, per poter mantenere in vita, rilanciandola, l’Unione e soprattutto la sua disastrosa moneta, il Dio Euro.

Anche per queste ragioni, l’ipotesi più probabile è quella di un compromesso al ribasso, con il quale il neo-presidente francese potrà dire di aver ottenuto qualcosa, senza mettere minimamente in discussione la linea rigorista imposta dalla Germania. Nella sostanza, dunque, i vincoli di bilancio verranno solo minimamente e transitoriamente allentati, giusto per prendere un po’ di tempo, ma senza alcun passo avanti di tipo politico e senza alcuna modifica delle regole dell’Unione e della sua politica.

Questa è l’ipotesi che ci sembra di gran lunga la più probabile. Ma cosa accadrebbe se ci sbagliassimo, se cioè la Germania venisse sconfitta e la linea del rigore subisse davvero una modifica più profonda? E’ questa la domanda che ci siamo posti all’inizio ed alla quale possiamo rispondere basandoci su quanto è successo nel periodo a cavallo tra il 2008 e il 2009.

Cosa è accaduto in quel periodo è presto detto: di fronte alla drammatica crisi finanziaria i vertici dell’Unione decretarono – certo, non formalmente, né tantomeno pubblicamente, che certe cose non si dicono! – la sospensione dei vincoli di bilancio allora in vigore. C’era da salvare le banche; di più, c’era da impedire il tracollo del sistema, dunque che gli stati si indebitassero pure a più non posso per tenere in vita una struttura finanziaria (privata) marcia dalle fondamenta al tetto.

Così è stato, ed è così che siamo arrivati alla situazione attuale. La crisi greca esplode nel 2010, ed a seguire arrivano disciplinatamente tutti i PIIGS, acronimo oggi meno usato anche perché risulta un po’ difficile immaginare dove aggiungere la “F” di Francia, o magari la “O” dell’ex virtuosa Olanda. Se oggi, davanti alla seconda punta recessiva, all’interno della lunga depressione iniziata nel 2007-2008, la risposta fosse quella del 2008-2009, possiamo facilmente immaginarci quali sarebbero le conseguenze sui debiti statali, sul costo degli interessi, in breve sulla loro sostenibilità.

Ne consegue che anche l’ipotesi di un vero allentamento del rigore non risolverebbe proprio niente, dato che scaricherebbe la crisi su debiti pubblici già oggi a livelli estremamente critici.

La verità è che non c’è soluzione senza il ripudio del debito, nelle forme di cui tante volte abbiamo già parlato. E, quantomeno nei paesi dove l’emergenza debito è più grave, come l’Italia, non c’è alternativa all’uscita dall’euro e dall’Unione, premessa indispensabile per la riconquista della sovranità nazionale, senza la quale non è possibile neppure ipotizzare una politica economica diversa e basata sugli interessi e i bisogni del popolo lavoratore.

Con Hollande sono destinati alla sconfitta gli hollandiani di casa nostra, quei cascami della sinistra sempre pronti ad appigliarsi a qualsiasi cosa che gli consenta di evitare la resa dei conti con la propria politica fallimentare. Essi si appigliano ad Hollande per restare agganciati a Bersani. Tra un anno si vota e forse un accordo per ottenere qualche seggio si troverà. Intanto Grillo ha messo la freccia… se non altro lui di Bersani se ne frega.


2 pensieri su “HOLLANDE E GLI HOLLANDIANI DI CASA NOSTRA”

  1. Quarantotto dice:

    Chi tratta con la germania senza mettere in discussione il trattato UEM, prende in giro i propri elettori, e vale per Hollande e per il pd pro-Monti. La "stampa" riporta come “cambio” di strategia la trattativa per la “eccettuazione”(dal deficit annuale), fino all’entrata in vigore del “fiscal compact”, nel 2014, delle spese per investimenti infrastrutturali e per pagamento alle imprese dei crediti arretrati verso la p.a. Ciò indicherebbe una ripresa dello spirito cooperativo (!?).L'accordo invece non implica alcuna vera cooperazione tedesca, nel senso inteso dalla teoria delle Aree valutarie ottimali (Mundell, Meade, ennesimi Nobel ignorati). Ciò in 2 direzioni:1) espansione della domanda interna tedesca mediante allentamento dei vincoli di bilancio (loro) in modo da pareggiare STABILMENTE il differenziale di inflazione con gli altri paesi (in media tra punti 0,5 e 0,7). Loro crescerebbero di più ma non a scapito del deficit commerciale degli altri paesi UE e anche utilizzando il loro avanzo primario in spesa, il deficit e il debito "loro", in rapporto a un maggior loro PIL, rimarrebbero sostanzialmente stabili (es; un incremento delle retribuzioni pubbliche, certamente in potere del governo federale, in misura superiore all’inflazione anche di solo 1 punto, avrebbe effetti di traino della domanda e sui livelli retributivi privati nei servizi, mantenuti al di sotto della crescita della produttività di sistema) ;2) precisazione della simmetria (indispensabile in un'AVO) del vincolo dell'indice inflattivo: cioè deve correggerlo non solo chi sfora in eccesso, ma anche chi sfora in “difetto”, sì da garantire non solo una tendenziale (e insufficiente) convergenza ma l'omogeneità immediata. La “omogeneità attualizzata" e stabilizzata, correggerebbe i differenziali di apprezzamento dei tassi di cambio reale e la progressiva cessazione degli squilibri delle partite correnti intra UEM.Conoscendo le cause degli squilibri (differenziali di inflazione e conseguenti tassi di cambio reale, alla base dell’indebitamento dei sistemi privati-bancari dei paesi con scarto inflattivo sfavorevole nonchè del trasferimento di tale indebitamento sui bilanci pubblici), le predette misure Moavero-Monti sono inefficienti: inalterate le cause strutturali degli squilibri, non evitano il riprodursi degli stessi, accelerato dal fiscal compact.Le misure ora negoziate:-sono essenzialmente contabili e “transitorie”, con alta elasticità di recupero “restrittivo” nel medio. In termini di cassa (e di conseguente conteggio del deficit annuale e della derivante crescita del debito complessivo) spostano solo di circa 1 anno e mezzo il problema; – all'entrata in vigore del fiscal compact, si avrebbe comunque un maggior stock di debito da correggere (con PIL comunque diminuito, anche se un pò meno, data la finalità non espansiva ma di “minor impatto” deflattivo delle misure in questione): le ulteriori manovre successive al 2013, dovrebbero rimangiarsi la liquidità concessa, aggravando inevitabilmente gli effetti recessivi del meccanismo;- analogamente, dato il livello previsto di riduzione di spesa e aumento di tasse (non ancora in gran parte applicati) ritenuto necessario per il rientro, l'esclusione degli investimenti pubblici sarebbe poca cosa, dato che non sarebbero “aggiuntivi” al volume programmato della spesa: non propone questo il governo italiano, ma solo una moratoria a volumi inalterati. Cioè, solo limitate risorse gettate sul calo della domanda, che avrebbero effetti di “ritorno” spostati nel tempo, come tutti gli investimenti, al limite solo attenuando gli effetti recessivi dei tagli di spesa e di investimento, comunque vincolati e crescenti, post 2014;-investimenti in infrastrutture nella misura ipotizzata e non anche estesi al punto di rinunciare ad azzerare il deficit nell’immediato, non risolvono il problema occupazionale (attenuato di poco), nè quello degli investimenti in istruzione e ricerca, di cui proprio non si parla e che dovrebbero essere esclusi stabilmente.

  2. Lorenzo dice:

    Non c'è una via d'uscita. Stanno venendo alla luce le conseguenze di 25 anni di sfacelo liberista, il grande magnamagna che ha deindustrializzato l'occidente. La bolla è stata gonfiata per un decennio tramite la crescita del debito, leggi finanza creativa, leggi falsificazioni contabili, ma siccome per qualcuno che si riempie le tasche ci dev'essere qualcun altro che paga, l'economia reale sta facendo valere le proprie ragioni.Tutti sanno che si avvicina lo sfascio e la Germania, essendo messa un po' meglio (ma non tanto: gli enti locali e le banche soprattutto locali stanno molto peggio delle nostre), cerca comprensibilmente di puntare i piedi per tenersi un po' sopra il gorgo.Quantomeno il mostro europeo ha i giorni contati. Bisogna vedere se i poteri forti non lo sostituiranno con una rete di comitati ed associazioni internazionali stile Bilderberg, volte a coordinare la politica delle dittature che non tarderanno a sostituirsi alle fatiscenti democrazie parlamentari.L'alternativa a questo stato di cose è un'ondata di rivoluzioni e di guerre europee. Coll'attuale livello di interdipendenza e senza un padrone (l'alta finanza) comune, mi sembra poco probabile che si possa tornare fluidamente a un sistema di equilibrio europeo vecchio stile.

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