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BERSANI, L’ILLUSO

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Perché andranno a sbattere un’altra volta

di Leonardo Mazzei* 

«Il sismografo del segretario del Pd ha ben registrato il terremoto di febbraio, ma i sismologi piddini sono del tutto incapaci di comprendere la portata, la profondità e la durata di un movimento tettonico che è solo agli inizi. Del quale il voto al M5S è solo una spia. Ecco perché si illudono ancora. Ecco perché andranno a sbattere un’altra volta».

Esattamente una settimana fa si celebrava la vittoria di Pirro dell’elezione di Grasso e Boldrini alla presidenza delle camere. Dopo sette giorni, avuto il pre-incarico dal golpista del Colle, Bersani ha molte meno ragioni di essere ottimista. La sensazione generale è che il segretario del Pd abbia appena intrapreso una missione suicida, di quelle però totalmente autolesioniste, che non portano alcun danno alle forze avversarie. 

Sensazione fondamentalmente giusta, ma che ha bisogno di alcune precisazioni. Bersani non riuscirà a formare un governo, ma la sua strategia guarda un pochino più avanti. Il che non vuol dire, però, che avrà successo, dato che il suo disegno si basa su una grande illusione. 


La lettura dei giornali di questa mattina è un autentico spasso. Dopo aver sostenuto la necessità di un governo «di larghe intese» o «del presidente», insomma di un esecutivo forte in grado di continuare l’attacco al popolo lavoratore in nome dell’Europa, ora la grande stampa sistemica sembra accontentarsi di un obiettivo assai più modesto. Tanto l’importante è che si prosegua con la stessa politica di Monti, la cui opera di sistematica distruzione dell’economia nazionale è ormai unanimemente riconosciuta, senza che per questo si annunci una qualche svolta. 


Tramontata l’illusione del governissimo, ecco allora che avanza l’ipotesi del governicchio. Ipotesi talmente strampalata che dovrebbe far ridere i sassi. E invece no, almeno a leggere i commenti politici e giornalistici sul tentativo di Bersani. Abbandonati i grandi progetti, eccoli ora tutti lì a cimentarsi con i più bizzarri equilibrismi che dovrebbero miracolosamente portare alla nascita del più pittoresco dei governicchi che la storia ricordi. 


Tanto per dare un’idea di cosa stiamo parlando, conviene citare le elucubrazioni cui si è sottoposto (e sottopone i lettori) Dino Martirano sul Corriere della Sera di oggi. Utilizzando un’intera pagina di quello che fu un prestigioso quotidiano, il Martirano disegna uno scenario che si commenta da solo. 


Anzi, grazie ad una fantasia evidentemente assai fervida, il giornalista di scenari per la fiducia al Senato ne indica addirittura due. Vediamo: 

«Il primo “quadro” prevede il coinvolgimento dell’intero gruppo della Lega (16 senatori) e di un’aliquota di senatori del Pdl magari pescati tra quei dieci parlamentari confluiti nel gruppo Grandi autonomie e libertà. Tra di loro c’è anche Giovanni Emanuele Bilardi (Grande Sud) che, per bocca di Gianfranco Miccichè, ha già posto le sue condizioni: “Rilancio del Mezzogiorno unica condizione per il sostegno di Grande Sud al futuro governo”. Gli altri componenti del gruppo fiancheggiatore del Pdl sono di sicura fede berlusconiana per cui un loro travaso nel fronte governativo potrebbe essere possibile solo se autorizzati dal Cavaliere. Il primo scenario teorico (Pd, gruppo Misto, Grandi autonomie e libertà, Svp e Psi, Scelta civica, Lega) potrebbe assicurare 164 voti al nascituro governo Bersani». 

Ammazzate! Altro che governicchio! Qui avremmo una mini-maggioranza, formata da ben sette componenti, di cui due benevolmente «autorizzate» dal capo di uno dei due principali partiti che resterebbero all’opposizione. Possiamo immaginare la coesione politica, le richieste nordiste curiosamente frammiste con quelle sudiste, il peso che – visti i margini numerici – acquisirebbe anche un solo senatore… Ma, soprattutto, possiamo immaginare la principale conseguenza politica, quella di un Berlusconi che prenderebbe tre piccioni (3) con una fava: in primo luogo evitando nuove elezioni che il Pdl – anche se si dice spavaldamente «pronto» – proprio non vuole, in secondo luogo potendo sempre condizionare le scelte del governo con i senatori «autorizzati», in terzo luogo tenendosi per sé il ruolo di oppositore di un governo destinato ad andare a sbattere assai presto.
 
Troppa grazia Sant’Antonio! Ora, Bersani non sarà un’aquila, ma che possa fare un simile regalo a Berlusconi proprio non lo crediamo. Martirano invece ci crede, ma ci crede anche il Corsera, che mette l’articolo in testa alla versione online. Vediamo allora anche il secondo scenario ipotizzato: 

«Il secondo scenario teorico, suggerito dall’intenso lavorio in atto al Senato, prevede un soccorso a Bersani sotto forma di spezzatino: 163 voti a favore della fiducia. La «stampella», sempre autorizzata da Berlusconi, non arriverebbe dal blocco della Lega ma da un concorso di più partiti: i 9-10 di Grandi autonomie e libertà, 5 o più grillini (pronti a vestire i panni dei paladini della governabilità dopo aver dato il via libera a Grasso), 5 leghisti autorizzati da Maroni, 5 pidiellini pontieri e/o responsabili». 

Di bene in meglio. Dopo l’ipotesi nordista (ma anche un po’ sudista), ecco che al povero Bersani viene servito il più indigesto degli spezzatini. Che non presenta per lui alcun vantaggio rispetto al primo scenario, mantenendo inalterati i troppi svantaggi che abbiamo già evidenziato. 

Ora, siccome quando è troppo è troppo, lo stesso Martirano sembra rendersi conto di aver esagerato. Ecco infatti come prosegue il suo ragionamento sul secondo scenario:

 «E il colmo sarebbe se Silvio Berlusconi, senza il cui apporto questa missione impossibile non riuscirà, rispedisse al mittente anche i veri «responsabili» (Scilipoti e Razzi, per intenderci) per garantire almeno l’avvio del governo Bersani. Ma questo sarebbe il più grande dei regali per Beppe Grillo». 

Ecco, sebbene solo in fondo al suo pezzo, l’articolista ammette quanto siano paradossali le sue ipotesi, accennando poi al vero problema politico che i partiti sistemici (per intenderci quelli della maggioranza che ha sostenuto Monti) hanno: quello di sbarrare in qualche modo la strada al M5S. 


Bene, questa considerazione ci consente di lasciare i tanti Martirani ai loro giochini e di iniziare a parlare di questioni serie. Abbiamo detto in premessa che Bersani fallirà, ma che la sua strategia va un po’ più in là delle possibili alchimie di questa legislatura che si annuncia comunque brevissima. Partiamo allora da una domanda: perché Bersani ha iniziato le sue mosse con una sorta di apertura al M5S?

Apertura finta, furbastra e maldestra quanto si vuole, ma che avrà pure un significato e degli scopi. Ed in effetti ce l’ha. Anzi ne ha tre. Il primo è quello di «andare a vedere» il misterioso oggetto «grillino», che era poi l’unico modo per individuarne al più presto i punti deboli. Il secondo è quello di favorire una prima scrematura tra i «buoni» e i «cattivi». I primi considerati come degli antiberlusconiani un po’ eccessivi ma da ricondurre in qualche modo nell’alveo del vecchio bipolarismo, i secondi valutati invece come veri nemici che vogliono rovesciare l’attuale sistema politico, e dunque da combattere con tutti i mezzi. Il terzo scopo – quello più importante – non guarda tanto ad una disarticolazione del M5S a livello parlamentare oggi (i bersaniani sanno che i risultati sarebbero modesti e comunque insufficienti), quanto ad un indebolimento del movimento di Grillo in vista di nuove elezioni anticipate.
 
Perché è lì che andrà a parare la strategia bersaniana. Un governicchio sarebbe un disastro non solo per il Pd, ma per l’intero blocco dominante. E non avrebbe certo l’approvazione di Bruxelles e Berlino. Laddove, peraltro, un esecutivo ancora dipendente dai voleri del Buffone d’Arcore è visto come il peggiore degli scenari. E lorsignori sono informati del fatto che così si aprirebbe la strada ad uno straordinario successo del M5S. Troppe le ragioni per non impiccarsi ad un governicchio… 

Ma, obietta qualcuno, un governicchio potrebbe almeno essere utile per fare la riforma elettorale. Peccato, però, che nessuno sappia indicarci, neppure a grandi linee, quale mai potrebbe essere la base di un accordo sulla legge elettorale. Ma, dice la stessa voce, un governicchio potrebbe almeno prendere qualche misura di facciata (riduzione dei parlamentari, delle loro indennità, abolizione delle province, eccetera) in grado di placare la cosiddetta «antipolitica», e di recuperare per quella via qualche consenso. Già, ma «il tacchino non anticipa mai il Natale». Ce li vedete voi i parlamentari che si auto-dimezzano per tornare subito dopo al voto? Se mai lo faranno, il dimezzamento avrà da essere all’inizio di una legislatura dalla durata certa, in modo da rimandare il pranzo di Natale a base di tacchini/parlamentari di cinque anni. E rivotando a giugno i tacchini avrebbero la certezza di essere di nuovo tutti candidati, nella speranza – quanto fondata non possiamo saperlo – di una nuova legislatura dalla durata normale. 

Tuttavia le questioni principali non sono queste. Siamo o non siamo nel cuore della più grave crisi economica da 80 anni a questa parte? E’ vero che nella campagna elettorale di questo si è discusso ben poco, ma i nodi stanno venendo al pettine. Qui non si tratta di qualche aggiustatina, come il penoso linguaggio bersaniano prova a far credere. Qui, a breve, si imporranno decisioni di grande portata: è pensabile che il blocco dominante le affidi ad un governo appeso agli Scilipoti di turno?
 
Non lo pensiamo affatto, e le mosse di Bersani vanno lette dentro questa esigenza sistemica. Come abbiamo spiegato in precedenti articoli (clicca qui e qui), la prospettiva è quella di nuove elezioni prima dell’estate. Una prospettiva che va preparata sul piano propagandistico, per replicare lo schema greco della doppia elezione del maggio-giugno 2012. 

In Arrampicata sugli specchi abbiamo scritto che: «Accusare Grillo di irresponsabilità è solo la prima mossa, la seconda sarà la costruzione di una coalizione elettorale Pd-Monti (sia chiaro, aperta a Vendola) in nome dell’Europa e della lotta al “populismo”, la terza sarà il tambureggiare mediatico sulla necessità di un governo che altri non saprebbero garantire, la quarta sarà la definizione di una nuova leadership da affidarsi allo sguaiato sindaco di Firenze».
 
Ecco, quest’ultimo punto (che qui non affrontiamo nel dettaglio per ragioni di spazio) sembra ancora oggi il più complicato, perché non è certa la disponibilità del gruppo dirigente bersaniano a farsi da parte. Lasciamo dunque aperto questo interrogativo, ma il resto è già oggi abbastanza chiaro, e le mosse del segretario del Pd non lasciano dubbi. 
La sua strategia non è tesa a mettere in piedi un governo qualunque. E’ invece volta alla creazione delle condizioni che potrebbero dare a giugno il successo clamorosamente mancato a febbraio. Ma abbiamo detto in premessa che il disegno bersaniano è destinato al fallimento a causa di una gigantesca illusione. Dove stia questo errore di valutazione è presto detto: nella convinzione che il fenomeno M5S sia destinato a sgonfiarsi assai alla svelta.
 
Attenzione, nell’approccio con il movimento di Grillo il gruppo dirigente del Pd si è dimostrato assai più accorto di tanti altri, comprendendone almeno in parte la natura e la portata. I piddini hanno insomma capito di trovarsi di fronte ad un fenomeno enorme, un sommovimento sociale profondo, di certo non più liquidabile con la spocchia dei mesi precedenti. Hanno cioè capito di doverci fare i conti, che è esattamente quello che stanno cercando di fare, alternando i corteggiamenti alla calunnia, il bastone alla carota, l’apprezzamento all’insulto. Il tutto con lo scopo di depotenziare al più presto la forza del M5S. 

La domanda allora è questa: riuscirà questo disegno di depotenziamento rapido del Movimento 5 Stelle? Chi scrive pensa di no. Certo, come era facilmente prevedibile, i gruppi parlamentari hanno mostrato più di una debolezza, ma niente che possa far pensare ad una vera disgregazione di fronte alla questione decisiva, quella del governo e delle scelte politiche che ne conseguono. Questo Bersani lo ha ben capito.

La questione si sposta dunque sul piano elettorale. Dicono i sondaggi che il M5S è ancora in ascesa rispetto al voto di febbraio. Ovviamente, in un elettorato così vasto e composito vi sarà anche chi, essendo d’accordo su un governo con il Pd, negherà il voto a Grillo alla prossima occasione. Ma ben di più saranno i voti in entrata, se il M5S non farà scelte politiche in contrasto con il comune sentire di chi l’ha votato a febbraio.
 
Perché questo è il punto. Più che il programma, o le singole scelte parlamentari, quel che conta è la profonda aspirazione al rovesciamento del sistema politico che ha fatto la forza di Grillo nelle urne. Si tratta di un fenomeno di massa, prevedibilmente ancora in crescita, nella prospettiva di un «tutti a casa» reale, non meramente simbolico. Un fenomeno reso più forte dalla consapevolezza che ora l’obiettivo del governo è possibile.
 
L’idea che un simile sommovimento possa rapidamente rifluire, magari solo in virtù di qualche errore tattico, è un’idea che non si regge in piedi. Non che le contraddizioni interne al movimento grillino siano poca cosa, ma non sono tali da fermarne adesso l’ascesa. Qualche mese fa, dopo il successo siciliano, il circo mediatico si è messo alla caccia del «grillino dissidente» (Favia e Salsi in primo luogo), abbiamo visto con quale efficacia…
 
Inevitabilmente, il M5S avrà i suoi problemi a gestire i gruppi parlamentari. Inevitabilmente altri errori verranno commessi. Ma l’idea che da ciò possa innescarsi una vera crisi nei consensi non fa i conti con la realtà. E’ qui che cade l’asino nella strategia del «realista» Bersani. Il sismografo del segretario del Pd ha ben registrato il terremoto di febbraio, ma i sismologi piddini sono del tutto incapaci di comprendere la portata, la profondità e la durata di un movimento tettonico che è solo agli inizi. Del quale il voto al M5S è solo una spia. Ecco perché si illudono ancora. Ecco perché andranno a sbattere un’altra volta. 

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