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CIPRO: PEZO EL TACÒN DEL BUSO

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Cipro. Nicosia 21 marzo 2013: manifestazione davanti il Parlamento

Se lo dice uno di loro…


di Marco Onado*

L’ultimo episodio della crisi europea rischia di generare un effetto-valanga disastroso, muovendo da un problema che riguarda un paese piccolissimo come Cipro. Il piano di salvataggio (si fa per dire) frettolosamente varato nel week-end contiene molti punti discutibili, ma quello assolutamente inaccettabile è la “tassa” sui depositi bancari, maldestramente coperta dalla foglia di fico di un’aliquota più alta per quelli superiori a 100 mila euro.
In primo luogo, non si tratta di una tassa: il gettito è destinato infatti ad essere investito nelle azioni di un sistema bancario fragilissimo, perché cresciuto oltre ogni limite di sostenibilità: il totale delle attività delle banche cipriote supera infatti di otto volte il pil del piccolo paese. Dunque, dal punto di vista economico si tratta di un vero e proprio debt-equity swap, per di più forzoso e per di più a spese dei depositanti.

Era difficile con una misura sola ottenere tanti risultati controproducenti. Innanzitutto, posto che le banche come quelle cipriote devono essere sottoposte a drastiche ristrutturazioni del debito come avviene a tutti coloro che accumulano debiti eccessivi, perché saltare i titolari di bond e i conti interbancari? I movimenti di protesta, da Occupy Wall Street a Grillo, non potevano sperare in uno spot gratuito più efficace.

Ma al di là del fatto politico, c’è un aspetto economico fondamentale. I depositi bancari sono considerati degni di una tutela particolare, perché si tratta della fascia meno “consapevole” di risparmio, ma soprattutto per evitare che la sfiducia fra i risparmiatori alimenti una corsa agli sportelli, cui nessuna banca può resistere. Si tratta di un fenomeno sconosciuto alle nostre generazioni, ma ritornato drammaticamente alla ribalta dal 2007, causando vari tracolli fra cui quello di Northern Rock.
Proprio quel caso aveva dimostrato che il meccanismo di assicurazione britannico dei depositi era insufficiente e aveva spinto ad identificare come soglia ottimale per l’Europa il valore di 100 mila euro, che l’Italia aveva adottato da tempo.

Per questo, la decisione cipriota di toccare i depositi sotto questa soglia critica infrange questo principio fondamentale della teoria economica e della politica bancaria.

L’obiezione che esiste un precedente (la tassa dello 0,6 per cento del governo Amato del 1992) non regge. Quello era un prelievo, sgradito quanto si vuole, ma che nulla aveva a che fare con la solidità delle banche; per di più era inserito in una manovra chiaramente motivata dalle peculiarità della situazione italiana. Qui invece siamo di fronte ad una misura presa per aiutare un sistema bancario con l’acqua alla gola, caso estremo di una serie di debolezze che serpeggiano lungo tutto il continente. Dunque, non ci si può meravigliare se i depositanti di tutti i paesi periferici si chiedano se l’esempio cipriota possa prima o poi essere imitato. L’obiezione che questo è un caso-limite legato ai problemi specifici di Cipro e all’eccesso di fondi dall’estero (per di più di provenienza sospetta) sarebbe convincente se fossero esentati i depositi delle fasce inferiori e in particolare quelli al di sotto della soglia dell’assicurazione. Dunque il timore del contagio è tutt’altro che infondato.

Fra l’altro, uno dei problemi più gravi di questa fase della crisi europea è la frammentazione del mercato dei depositi: Spagna, Grecia e Portogallo hanno subito un’emorragia di depositi proprio per la maggior percezione dei rischi da parte dei depositanti di quei paesi. Non è difficile immaginare che il fenomeno si possa aggravare. E non era certo il caso di creare questo pericolo anche per paesi, come l’Italia, in cui il fenomeno non aveva mai assunto proporzioni gravi e appariva ormai sotto controllo.

Ma non basta. Il caso cipriota mina anche la credibilità dei passi che l’Europa sta compiendo per risolvere i problemi delle banche, in particolare con la creazione di una vera e propria unione bancaria. Questa si basa su tre pilastri: vigilanza accentrata, meccanismi omogenei di risoluzione delle crisi bancarie, assicurazione unitaria dei depositi. Da lunedì scorso, nel terzo pilastro è stata aperta una crepa perché il messaggio è semplice: per quanto unitarie siano le soluzioni in linea di principio, al momento del dunque è sempre possibile immaginare soluzioni à la carte. Si fa fatica a scorgere nel Fondo monetario che ha avallato il pacchetto per Cipro la stessa istituzione che nei suoi rapporti ufficiali non si stanca di ripetere che l’Europa ha bisogno non solo di realizzare le soluzioni unitarie già annunciate, ma addirittura di rafforzarle, pena effetti disastrosi per la disponibilità di credito per l’economia e quindi per lo sviluppo.

Adesso, le autorità si affannano a trovare un’alternativa alla soluzione bocciata dal Parlamento cipriota. L’obiettivo principale dal punto di vista della dimensione europea della crisi è far rientrare rapidamente l’onere imposto ai depositi assicurati. E’ vero che, per assicurare lo stesso gettito del piano iniziale, i depositi oltre i 100 mila euro dovrebbero essere assoggettati ad un’aliquota ben più alta: oltre, secondo molte stime, al 15 per cento. Ma va ricordato che quei fondi avevano goduto, oltre che di una normativa antiriciclaggio all’acqua di rose, anche di tassi di remunerazione ben più alti di quelli di mercato e doppi di quelli italiani, come documentato ieri sul Sole-24 Ore da Maximilian Cellino. E poi ci sono le obbligazioni, che possono essere coinvolte, come ha scritto (in modo disinteressato, si capisce) un autorevole legale russo sul Financial Times. 

Per rimediare al pasticcio iniziale le alternative sono dunque disponibili. Speriamo che, come spesso accade all’Europa, il rimedio non sia peggio del problema: pezo el tacòn del buso è un proverbio veneto che a Bruxelles viene praticato con feroce perseveranza.

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