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CHE BESTIA È? di Leonardo Mazzei

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Somiglia tanto ad un Monti Bis

28 aprile. Il governo Letta (il nipote) è nato. Ma che governo è? Non è un «governo di scopo», dato che (almeno all’apparenza) non ha limiti né temporali, né programmatici. Non è (almeno nelle intenzioni) un governicchio «balneare», nato solo per prendere tempo. Che sia un governissimo è l’auspicio di molti dei suoi fautori, ma che lo possa essere sul serio è tutto da vedere.
Le intenzioni, però, sono importanti. Personalmente, prendo atto di essermi sbagliato nel prevedere un ritorno alle urne nell’arco di pochi mesi. Il fatto è che la sezione «piddina» del fronte trasversale delle «larghe intese» non ha esitato un secondo neppure davanti alla prospettiva dell’auto-distruzione del proprio partito. E questo, considerato il ruolo del Pd all’interno del sistema politico italiano, non era facilmente prevedibile.

La carica dei 101 «grandi elettori» piddini, che silurando Prodi hanno impallinato definitivamente Bersani, è stato infatti lo snodo decisivo della crisi politica. Senza quell’operazione, giocata nel segreto dell’urna, Napolitano non sarebbe tornato al Colle e Letta sarebbe rimasto a Pisa.

Centouno è un bel numero. Non una piccola cricca dunque, bensì un quarto dei grandi elettori del partito. Che essi abbiano agito con una precisa finalità politica è fin troppo ovvio. Che lo abbiano fatto in stretto raccordo con i finti nemici del Pdl e con i compari di Scelta Civica, idem. E che il piccolo golpista del Quirinale fosse della partita, fin dall’inizio, è fuori dubbio. Resta però una domanda: perché l’hanno fatto?

Una tale determinazione non può giustificarsi solo con i piccoli calcoli correntizi degli ex-Ppi o dei dalemiani. Tantomeno con le ambizioni personali di alcuni protagonisti. Calcoli ed ambizioni avranno come sempre giocato il loro ruolo, ma solo qualcosa di più, che attiene alla natura profonda del Pd, può spiegare l’inversione di 180° operata nell’arco di poche ore.

Un fatto di questo tipo si può comprendere solo se usciamo dall’ambito ristretto delle dinamiche partitiche. Il fatto è che il terremoto prodotto dalle elezioni di febbraio ha spaventato sul serio il blocco dominante. Una crisi politica si può sempre affrontare con mezzi ordinari, ma se capita nel bel mezzo di una crisi economica senza sbocchi, essa richiede soluzioni d’emergenza. Accadde così anche nel novembre 2011, con l’intronizzazione di Monti a Palazzo Chigi e la sua investitura a Salvatore della patria.

Ed è andata così anche in questo aprile 2013. E questo è il secondo elemento di forte continuità con il governo uscente, essendo il primo l’identico ruolo di regista interpretato oggi come allora dal monarca del Quirinale, vero referente delle oligarchie nostrane ed euroatlantiche, terrorizzate dall’ipotesi che l’Italia possa in qualche modo sganciarsi dalla gabbia europea.

Ci sono poi altri elementi di continuità con il governo Monti: due ministri resteranno in carica, magari cambiando ministero (Cancellieri e Moavero), altri due sono montisti a tutti gli effetti (Mauro e D’Alia), quattro sono qualificati come «tecnici», ma qui più che il numero conta il peso di un altro uomo di Bankitalia (Saccomanni) all’economia. Un discorso a parte meriterebbe (ma non lo facciamo qui) l’ultra sionista ed iper-atlantista Bonino, una ministra degli esteri che rappresenterà l’Italia sventolando la bandiera israeliana con la destra e quella a stelle e strisce con la sinistra.

Naturalmente ci sono anche i cambiamenti. Un altro governo mascherato come «tecnico» sarebbe stato semplicemente improponibile, così come il volto di Monti che è stato infatti prontamente cestinato. Occorreva mascherare la continuità avvolgendola in un involucro nuovo. Ecco dunque il governo politico (così lo ha buffamente qualificato Napolitano, quasi potessero esistere governi «non politici»). La «politicità» sta nel diretto coinvolgimento di tre forze politiche (Pd, Pdl, Sc), che sono però esattamente le stesse che per oltre un anno hanno garantito la vita e le porcherie politiche e sociali del peggior governo della storia repubblicana.

Cambiamento nella continuità: questo il succo dell’operazione che ha portato Letta a Palazzo Chigi. A legittimare politicamente il «governo dei tecnici» ci aveva provato lo stesso Monti, ma la sua «ascesa» in politica ha fatto flop nelle urne. Dunque bisognava procedere per altre vie. Ma la strada era stretta. Se da un lato occorreva negare il senso del voto dei febbraio, dall’altro bisognava mettere assieme i burattini del teatrino della politica secondo-repubblichina.

Il Pd e il Pdl, per quanto costituitisi nella forma attuale assai di recente, sono il punto d’arrivo della degenerazione politica prodotta dal bipolarismo impostosi vent’anni fa. Per tutto questo periodo, questi due poli hanno litigato sulle questioni secondarie, condividendo invece le scelte fondamentali: atlantismo in politica estera e militare, eurismo prima ancora che europeismo come dogma intangibile alla base di ogni decisione, liberismo sfrenato ed amore per le privatizzazioni, attacco sistematico ai diritti dei lavoratori, cultura presidenzialista… e si potrebbe continuare.

Per due decenni la farsa bipolare imponeva però il litigio. Che era poi il modo migliore per accreditare l’idea di un bipolarismo democratico. Ora la crisi non può più permettersi il lusso di questo teatrino, e l’imbroglio «democratico» è svelato. I due poli vanno a nozze, ben sapendo che vi sarà un prezzo da pagare. Comodo, molto più comodo, proseguire come prima, con una intercambiabilità nella sostanza occultata però dalle grida televisive di talk show sempre più meschini. Più comodo, ma oggi impossibile visti i numeri parlamentari.

Ecco un effetto del successo elettorale del M5S: aver posto fine alla farsa precedente, aver costretto Pd e Pdl all’accordo di governo. Un accordo – questo è il punto che ci preme sottolineare – che non ha forzato i contraenti sul programma, bensì sulle mini-identità costruite in questo ventennio. Che non sono più le identità legate ad una visione del mondo, dato che da vent’anni ormai non vi sono più (almeno nelle istituzioni) comunisti, socialisti, cattolici, liberali o fascisti, ma solo ed esclusivamente «berlusconiani ed antiberlusconiani».

Ed infatti, mentre non risulta che Letta abbia trovato difficoltà sul programma, ha invece dovuto disegnare la sua compagine in modo e maniera da non urtare più del necessario le suscettibilità dei principali contraenti dell’accordo che ha portato alla formazione del suo governo. Suscettibilità che riguardano l’immagine non la sostanza delle questioni che il nuovo esecutivo si troverà ad affrontare.

I 101 piddini dal volto ignoto non sono dunque dei «traditori» del loro partito. Certo, dal punto di vista etico sono assai peggio, ed in un partito degno di questo nome avrebbero già ricevuto un trattamento adeguato. Ma dal punto di vista sostanziale essi sono il vero Pd, dato che hanno intrapreso l’unico percorso realistico per continuare la politica sulla quale il Pd è nato, che non è diversa da quella messa in atto da Monti dal novembre 2011.

Questo non significa negare i reali travagli presenti nel corpaccione piddino. I travagli ci sono perché la crisi arriva anche lì e le vecchie certezze fanno acqua da tutte le parti. Ma quello che qui va sottolineato è l’assenza di ogni discussione tra Pd e Pdl sulla linea complessiva del futuro governo, ad esempio sui nodi dell’Europa e del Fiscal Compact. Mai prova sulla piena compatibilità ed intercambiabilità sistemica di questi due partiti fu più evidente.

Tornando a bomba, che bestia è allora il governo Letta? Rispondere a questa domanda iniziale è facile e difficile al tempo stesso. E’ facile, come ho cercato di argomentare, riguardo alla natura oligarchica di questo governo. E’ difficile riguardo alla sua forza e alla sua durata.

L’imposizione del duo Napolitano-Letta, consumatasi nel breve volgere di una settimana, è la fedele rappresentazione dello stato attuale del blocco dominante. Un blocco con un consenso sociale alquanto ridotto, ma ancora capace di fare quadrato, di asserragliarsi nella fortezza, attaccare l’opposizione, prepararsi se necessario alla repressione, rimandando a tempi migliori la riconquista di un’egemonia ormai traballante.

Chi ha voluto a tutti i costi la nascita del governo Letta non ha certo in mente un governicchio, ma un governo sufficientemente forte per svolgere i compiti di cui sopra. Che poi il nipote del ben noto zio ci riesca è tutto un altro discorso. La composizione del governo, con personale politico di seconda e terza fascia, lascia capire quanti dubbi vi siano fra gli stessi artefici dell’operazione.

Ma il vero nodo è un altro, e si chiama Europa. A leggere la stampa questi giorni è tutta una riduzione di tasse: via l’Imu sulla prima casa, rinvio della Tares e dell’aumento dell’Iva, abbassamento delle tasse per le imprese, qualche contentino perfino sull’Irpef dei lavoratori. La premessa di tutto ciò è che l’Europa in qualche modo «allenterà i vincoli». Lo chiede lo stesso Fmi, lo accenna qualche voce a Bruxelles. Ma da Berlino, per ora, sono arrivati solo dei no.

La verità comunque è nota. Qualche allentamento è possibile, come dimostra il caso spagnolo, ma niente che possa davvero cambiare i problemi che hanno portato l’Italia dentro una recessione senza sbocchi. E i dati evidenziati recentemente anche dal Def (sui quali torneremo in un prossimo articolo), specie se letti in rapporto ai futuri vincoli imposti dal Fiscal Compact, non lasciano scampo.

Al governo antipopolare dell’ultras eurista Enrico Letta non resterà altro che continuare la politica della svalutazione interna: taglio ai salari, alle pensioni, a quel che resta del welfare, aumento programmato della disoccupazione e della precarietà. Un programma sufficiente forse per restare alla guida di un governo asserragliato nella fortezza, non certo per riconquistare il consenso perduto.

Detto questo è detto tutto, con delle conseguenze che ci riguardano da vicino. Perché se il dominio non garantisce l’egemonia al blocco dominante, dall’altra parte (cioè dalla nostra) il dissenso non garantisce alcuna alternativa. Qui non si tratta tanto di allargare ancora il dissenso e l’opposizione. Questo andrà fatto, ma sapendo che tutto ciò ha senso solo lavorando alla costruzione di una strategia per la sollevazione e per il potere. Una strategia che richiede un programma, una linea politica, un’organizzazione, un gruppo dirigente forte e determinato. Inutile, perché noto, ricordare qui quante di queste condizioni siano oggi assenti. Utilissimo invece inquadrare i termini reali del problema.

Pagando prezzi non piccoli, il blocco dominante prova ora a compattarsi su Letta. Neppure lorsignori sono certi del successo dell’operazione, meno che mai della durata del governo. Ma ci provano, dato che i loro interessi di classe e di casta non sono negoziabili. E’ vero, si sono chiusi nella fortezza, ma non è detto che sia una fortezza facilmente espugnabile. Guai ad immaginare una resistenza di impronta sindacale. Essa verrebbe facilmente sconfitta. Guai a pensare ad una strategia meramente rivendicazionista. Essa non troverebbe neppure il necessario sostegno sociale. La difesa degli interessi materiali del popolo lavoratore va immediatamente legata alla prospettiva della sollevazione.

Tutto ciò richiede un’accelerazione all’altezza di quella che sul fronte opposto ha portato alla nascita del governo Letta. Almeno in questo le lezioni che ci vengono dal blocco dominante hanno una loro indiscutibile utilità.  

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