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VI SPIEGO PERCHÉ HANNO SCELTO ME di Enrico Letta

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26 aprile. Chi è Enrico Letta? Esponente dell’ala più liberista del Pd; membro del Gruppo Bilderberg, della Trilateral e dell’Aspen institute. Il signore che mentre il “governo dei tecnici maciullava gli italiani affermava: «Noi sosteniamo l’esperienza Monti: sta facendo bene al Paese e all’Europa». E quindi: «La nostra proposta è quella di un governo moderati/progressisti che porti avanti l’agenda Monti, ma che sia una proposta che ridia credibilità e forza alla politica». 
Convinto atlantista; fanatico difensore dell’euro; deciso paladino della privatizzazioni dei beni pubblici e della liberalizzazione del mercato del lavoro; partigiano delle politiche europe di austerità. Uno che in sintonia con Monti ha sostenuto che la crisi è una straordinaria opportunità. Lo scrive nel suo libro del 2009 Costruire una cattedrale: perché l’Italia deve tormare a pensare in grande. Ne aabbiamo estrapolato un brano davvero illuminante.

«Lo Stato deve creare le condizioni per un mercato competitivo»

di Enrico Letta

«Con la scelta dell’unificazione monetaria la politica, in Europa, ha fatto quello che, a rigore, ci si aspetta da essa: indirizzare, attraverso assunzioni di responsabilità anche molto coraggiose, i processi economici. Non entrare direttamente nel mercato, ma porre le condizioni affinché esso funzioni e sia competitivo. In questo caso il rapporto tra Stato (inteso in senso lato come istituzioni) e mercato si è rivelato, quindi, virtuoso. E virtuoso può esserlo ogni qualvolta si ha riguardo per i ruoli di ciascuno, senza invasioni di campo o ingerenze indebite. In Italia, per esempio, la graduale apertura dei mercati, promossa negli ultimi quindici anni proprio da scelte di politica economica lungimiranti, può essere considerato un caso di corretto andamento delle relazioni tra Stato e mercato.

Molte delle liberalizzazioni avviate a partire dagli anni Novanta – per quanto ancora incomplete – hanno prodotto risultati duraturi sul funzionamento del nostro sistema economico e sociale. Tornare indietro sarebbe un errore imperdonabile. Norme come quella prevista nell’articolo 23 bis della manovra triennale approvata dal governo Berlusconi, che di fatto, su spinta della Lega, frena il processo di liberalizzazione nei servizi pubblici locali, rappresentano un segnale preoccupante. La conservazione contro la volontà di riforma, la tutela degli interessi costituiti contro la concorrenza: è un film già visto nel nostro Paese. Ricordo bene, per esempio, quanto nella scorsa legislatura il presidente Prodi e il ministro Linda Lanzillotta abbiano lavorato per una buona riforma dei servizi pubblici locali, scontrandosi puntualmente con le resistenze della sinistra più radicale che pure faceva parte della coalizione di governo. Oggi la Lega prende il testimone da Rifondazione Comunista e dal Pdci per spingersi addirittura oltre, ostacolando ogni tentativo di apertura.

Come se le liberalizzazioni non avessero portato in questi anni grandi vantaggi per i consumatori.
Questi ultimi sono, ormai, al centro delle dinamiche economiche, interlocutori delle istituzioni, soggetti in grado di “fare opinione” e stimolare l’azione legislativa. Vantaggi innegabili sono poi venuti alle imprese che, indotte giocoforza a fare i conti con la concorrenza, si sono viste costrette ad accantonare le facili rendite monopoliste e a provare a diventare efficienti, unica condizione per competere con successo nel mercato nazionale e soprattutto in quelli esteri. 

Le liberalizzazioni hanno avuto, e hanno, bisogno di una guida politica e di profonda determinazione da parte di chi le governa. Nel nostro Paese il primo impulso alla concorrenza è arrivato dall’esterno, dall’Unione Europea, in particolare attraverso l’impegno di commissari come Karel Van Miert e Mario Monti. Ma questo stimolo è stato recepito e portato avanti in Italia con grande convinzione soprattutto dal centrosinistra. Dal primo governo Prodi anzitutto, grazie alla fermezza del presidente del Consiglio e del ministro Bersani che, allora e anche in seguito, hanno tenuto duro nonostante tutte le critiche e gli ostacoli incontrati.

Un percorso cui ho partecipato a partire dal 1999 quando assunsi la guida del ministero dell’Industria e mi trovai a gestire il dossier sulla riforma del mercato del gas. Ebbi allora la fortuna di avere accanto a me, in qualità di consigliere, un caro amico e un grande esperto di politica energetica, il compianto Fabio Gobbo. Insieme a lui, e a un pool di giovani componenti della segreteria tecnica, elaborammo un impianto di riforma che fu oggetto di molte resistenze. L’appoggio convinto del premier Massimo D’Alema fu determinante, così come il sostegno di Giuliano Amato che, da ministro del Tesoro, svolgeva il delicato ruolo di azionista dell’Eni. Scalfire il monopolio dell’Eni non fu facile, anche perché l’Eni non era, e non è, un carrozzone pubblico come altre partecipazioni statali. Era, ed è, probabilmente la migliore esperienza di impresa pubblica italiana dai tempi di Enrico Mattei. Tuttavia, la riforma avrebbe potuto migliorare le sue performance e la sua proiezione internazionale grazie a un’apertura effettiva del mercato interno. Così poi è avvenuto e, pur con molte frenate e rallentamenti, il processo si è sviluppato negli anni e ha portato i suoi benefici a consumatori e imprese. Ancora pochi rispetto alle aspettative e alle necessità degli uni e delle altre, ma comunque in linea con le migliori esperienze allora realizzate in Europa.

 
Spesso – a partire dai viaggio che, nel 2004, ho fatto con lo stesso Bersani per conoscere meglio la realtà dei distretti italiani – mi è capitato di discutere con gli imprenditori della ceramica nell’area di Sassuolo, e con molti loro colleghi di altre realtà industriali del Paese, dei costi insopportabili dell’energia che gravano sull’impresa e che stridono con il livello di servizi reputati generalmente non all’altezza. Non a caso, è lo stesso malessere che lamentano da anni i consumatori. Il percorso di apertura deve essere portato a compimento.
Tuttavia, quella riforma, inquadrata in una prospettiva a lungo termine, è stata utile per rompere un monopolio apparentemente inattaccabile e creare le condizioni affinché, dieci anni dopo, fosse possibile realizzare i cosiddetti “ri-gassificatori”, termine che, per non alimentare paure ingiustificate nei cittadini, dovremmo sostituire con l’espressione, mutuata dall’inglese, “terminali a metano”. Del resto, anche quella dell’approvvigionamento energetico, come tutte le questioni che hanno a che fare con il futuro di questo Paese, è una grande cattedrale da costruire. Servono anni, attenzione all’interesse pubblico, responsabilità condivise. In questi mesi sono state compiute scelte, a mio avviso, ragionevoli sul rilancio del nucleare in Italia. Si tratta, in prospettiva, di un veicolo di sviluppo economico e di risparmio energetico. Oltreché di uno strumento formidabile di promozione dell’innovazione e della ricerca applicata. Ricerca che in Italia vanta ancora punte di eccellenza riconosciute in tutto il mondo.


Abbandonare il nucleare fu un errore. Scommettere sul gas, a partire dagli anni Novanta, è stata, invece, una decisione positiva. Su questa scelta abbiamo investito moltissimo ed è evidente che il gas resterà centrale, tra le nostre fonti di approvvigionamento, per almeno un decennio. Rimane un problema di diversificazione delle fonti. L’Italia ha una dipendenza dai fossili che non ha eguali per le economie avanzate. Che fare? Dialogo con i Paesi fornitori, in primo luogo, al fine di garantire forniture a condizioni accettabili. E poi – pur consci del fatto che le fonti fossili saranno necessarie per molti anni ancora – diversificazione delle fonti: energie rinnovabili – soprattutto per il Sud – e, tornando a quanto si diceva, terminali di metano funzionanti, con i quali l’Italia potrebbe finalmente superare una situazione di difficoltà strutturale nel campo dei consumi energetici e porsi al livello di altre realtà europee e internazionali.


Ad ogni modo, non solo per la politica energetica, l’opinione comune è che sia urgente superare gli sterili nazionalismi. Non lasciamo che, con il passare del tempo, questa opinione si appanni. Cerchiamo, invece, di fare il possibile per integrare le istituzioni statali, armonizzare le politiche, promuovere la creazione di organismi europei e multilaterali per vigilare, prevenire, regolare soprattutto la finanza e i commerci, e per gestire le disuguaglianze. Di certo c’è che con la crisi siamo condannati al cambiamento, non mi stanco di ripeterlo. Il movimento non è più un optional: o si individuano soluzioni innovative, e si abbandonano prassi e regole che hanno condotto al più imponente disastro economico dalla Seconda guerra mondiale, o sarà la fine.


Quanto è successo è anche frutto di un disallineamento tra le speranze generate dalla caduta del Muro di Berlino e dalla ventilata “fine della storia e dei conflitti” – per usare un luogo comune fin troppo abusato – e la vita concreta delle persone. Nelle società occidentali il benessere, individuale e collettivo, è aumentato per decenni in modo graduale ma costante, parallelamente al diffondersi di un clima di sicurezze e di aspettative crescenti. Senza salti improvvisi, ma con una progressione impressionante. Poi, più o meno all’improvviso, questa sicurezza è stata messa sottosopra dagli effetti concreti della globalizzazione. Alla gradualità si sono sostituiti sussulti e oscillazioni: grandi picchi, precipizi inattesi.


Così la gente ha conosciuto di nuovo il timore e poi la paura vera e propria. Entrambi acuiti dal fatto che dalla crescita mondiale hanno iniziato a trarre vantaggio centinaia e centinaia di milioni di persone prima escluse dalla lista dei beneficiari dei prodigi del mercato: in Europa orientale, in India, in Cina, oppure migrando entro gli stessi confini del mondo occidentale. Le certezze della classe media delle società opulente si sono frantumate sotto il peso di trasformazioni inattese. Alcune positive, come la possibilità per tutti di comunicare o di volare sempre più a basso costo. Altre neutre o negative, accomunate, però, da un dato: il venir meno di un clima, rassicurante, di stabilità.


La politica – lo Stato, gli Stati – non è stata in grado di arginare questo disagio. La prima reazione, la più istintiva, è stata quella di rinchiudersi nel localismo. Il senso di estraneità globale si è tradotto in una ricerca incessante di identità, intesa come rifugio dall’insicurezza. Questa ricerca, tenuta viva dalla perdita di riferimenti, è entrata nel Dna delle classi medie. Avevamo messo in conto sviluppo e benessere. Ci siamo ritrovati alle prese con precarietà e iniquità. O almeno questa è la sensazione prevalente.


Sensazione, in verità, non del tutto pertinente nel nostro Paese. Di recente mi è capitato di soffermarmi su un dato a mio avviso illuminante, che delinea con efficacia lo stato di smarrimento in cui versa una parte della società italiana. Si tratta della “percezione della precarietà” avvertita nel Paese e analizzata in uno studio condotto dal direttore della Fondazione Nord Est, Daniele Marini, per “Il Sole-24 Ore”. A fronte di una quota molto alta, pari al 73,5% dei totale dei lavoratori, di impiego a tempo indeterminato, ben il 72,1% degli italiani considera il lavoro “precario”. Semplificando, tre quarti dei lavoratori vivono una situazione che precaria oggettivamente non è e ancora tre quarti individuano proprio nella precarietà il problema più grave dell’occupazione. E questo spesso a dispetto dell’evidenza: ovvero nonostante un contratto fisso nel cassetto o un percorso concreto verso la stabilizzazione professionale alle spalle.


I conti non tornano. La verità è che lavoro instabile, mancanza di tutele, iniquità costituiscono un dramma – oltreché il limite più pesante di un sistema di welfare interamente da riformare – soprattutto per una porzione sempre più consistente di giovani italiani, che nel momento dell’ingresso nel mercato del lavoro, sono esposti a una maggiore flessibilità delle forme contrattuali rispetto alle altre generazioni. Ma il dramma è esasperato dall’interiorizzazione, collettiva e intergenerazionale, del disagio. La precarietà è nella nostra testa, prima ancora che nella nostra vita quotidiana».

[Questo brano è un estratto del libro Costruire una cattedrale: perché l’Italia deve tornare a pensare in grande di Enrico Letta, Mondadori, 2009]

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