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UN VOTO DI CLASSE di Piemme

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Non c’è dubbio che il dato eclatante di questa tornata di elezioni amministrative è che l’astensione ha oramai superato la soglia del 50%. Partiti, partitelli, movimenti e liste civiche prendono una sonora batosta, compreso il Movimento 5 Stelle, che sembra aver già perso la sua capacità di intercettare la montante indignazione popolare. E’ morta e defunta l’Italia che batteva i record mondiali di partecipazione al voto, surrogato del fenomeno più sostanziale, quello della partecipazione alla battaglia politica. L’americanizzazione della società, iniziata dopo la chiusura del lungo ciclo storico che va dalla fine della guerra mondiale agli inizi degli anni ’80, sembra avere toccato il suo apice.

[Nella foto Antonio Formicola, il fioraio suicidatosi ad Ercolano]

Le classi dominanti, le loro élite strategiche, hanno del resto voluto questo esodo di massa dalla politica. Lo hanno fatto con tre mosse strategiche. 
Anzitutto sostenendo che le ideologie erano morte. Questa narrazione ha depotenziato la lotta politica, che da battaglia per decidere del modello sociale desiderato è diventata pura contesa per amministrare il presente come unico esistente possibile. 
A questa narrazione ha fatto da contraltare la seconda mossa, quella di aver ridotto i partiti maggiori, da veicoli di istanze sociali ed etiche antagoniste, a mere varianti del “pensiero unico” liberal-capitalistico dominante. 
La terza mossa è stata infine quella di avere —in nome del dogma della governabilità a spese del principio di rappresentanza democratica— scardinato l’architettura repubblicana e costituzionale adottando sistemi elettorali maggioritari per blindare le sedi istituzionali impedendo alle istanze sociali radicali di accedervi.

Alla fine c’è stata sì l’americanizzazione del paese, ma questo processo non è stato appunto  spontaneo, “naturale”, esso è stato anche il risultato di una serie di strappi deliberati della classe dominante e dei suoi agenti politici.

E’ interessante ascoltare quanto affermano i politologi di regime davanti a questa fuga di massa dalla urne, ad esempio il Professor Roberto D’Alimonte, che dalle pagine del Corriere della sera afferma «… che un alto livello di partecipazione non è necessariamente una cosa buona, che il paese sta semplicemente compiendo il periplo verso l’uniformazione agli standard europei, che normalmente vedono una partecipazione elettorale notevolmente inferiore rispetto alla nostrana. Del resto, sostiene con faccia tosta D’Alimonte, “anche negli Stati Uniti d’America a votare si recano normalmente meno della metà degli aventi diritto e non si può certo dire non sia un paese democratico”». [Anna Lami, Elezioni comunali , astensione quale messagio?

Abbondano come sempre analisi, anche molto sofisticate, dei flussi elettorali. Di norma queste indagini indagano gli spostamenti da un partito o da uno schieramento ad un altro, dai partiti al non voto e viceversa. Analisi di superficie, aggiungiamo noi, in stile tipicamente empiristico e anglosassone, che poco o nulla ci dicono sulla sostanza del fenomeno dell’astensionismo. Analisi tutte strumentali e funzionali al regime e alla classe dominante.

Nessun istituto che si degni di indagare, ad esempio, da quali aree e classi sociali venga il non-voto. Nessun istituto che si periti di analizzare come lo spappolamento del tessuto sociale causato dalla crisi economica più grave della storia di questo paese si riverberi sui processi elettorali e politici. Potrebbe sembrare una quisquilia e invece, questa omertà, questa cecità sui processo sociali più profondi, attesta a che livello di mediocrità partigiana è giunta la sociologia ufficiale.

In assenza di questi studi  noi siamo tenuti a fare delle deduzioni, delle ipotesi.

La nostra ipotesi è che anche in Italia il voto è tornato ad essere, come nell’Ottocento, un voto di censo. La gran parte dei votanti vengono dall’ectoplasma degli strati sociali  “garantiti”, da quella pappetta insipida che viene chiamata “ceto medio”; mentre i settori sociali falcidiati dalla crisi, i “non-garantiti”, sono il principale deposito degli astensionisti. Questi settori “non-garantiti”, oramai esclusi dal “benessere”, privi dei fondamentali diritti sociali, non trovano senso nell’esercitare i diritti di cittadinanza, tra cui quelli politici.

Sarebbe ad esempio interessante verificare, alla luce delle analisi più recenti svolte anche su questo sito [La catastrofe sociale e la sollevazione] come incida la “Diagonale del debito” sugli atteggiamenti politici delle masse. Pasquinelli proponeva il diagramma qui accanto per visualizzare la nuova frattura sociale creditori-debitori, frattura che forse ci aiuta a spiegare anche il comportamento elettorale dei diversi strati sociali. 

Ecco: i  “non-garantiti”, gli “esclusi” di fatto dal campo di coloro che godono davvero dei diritti sociali di cittadinanza, i “cittadini di serie B” insomma, forniscono, per chi scrive, il grosso dell’esercito sterminato degli astensionisti.

Per questo i politologi di regime, quelli che ritengono che questa fuga di massa dalla politica e dalle urne sia fisiologica e “naturale” delle società tardo-capitalistiche, potrebbero sbagliarsi, e di grosso. Essi immaginano che l’esodo sia segno anzitutto di qualunquistico disincanto, che quelli che la crisi sistemica ha gettato nella miseria, i nuovi diseredati, si siano arresi al loro funereo destino.

La loro è solo un’ipotesi consolatoria. Poiché potrebbe essere il contrario, che l’astensione di massa sia ragionevole, la consapevolezza che non è con elezioni truccate che si può cambiare il corso delle cose. Un’astensione che potrebbe quindi essere il preludio all’ingresso di queste masse sulla scena politica. Un ingresso fragoroso, che farà epoca. E quindi:

«Qui da noi non si ribellerà il popolo-rentier. Si ribelleranno le giovani generazioni che nulla hanno da perdere e un futuro da guadagnare mandando a gambe all’aria il sistema immorale in cui viviamo. Esse saranno la leva che solleverà quella gran parte del corpo sociale sofferente, che trascinerà nel gorgo tutti i proletari veri, quelli che vino solo della vendita della loro forza-lavoro, che non hanno rendite e santi in paradiso, come pure tanti piccolo e medio borghesi che il capitalismo casinò ha gettato in disgrazia.Una sollevazione che non prende ancora forma perché la crisi epocale del sistema di capitalismo casinò è solo agli inizi, perché troppo ampia è ancora la massa amorfa del popolo-rentier. Ma la tendenza alla catastrofe significa appunto questo: che il capitalismo casinò sta tirando le cuoia, che questa stessa massa, attraverso le politiche predatorie dei dominanti, subirà un inevitabile processo di pauperizzazione, spostandola sulla parte destra del diagramma. Sarà allora che per i dominanti si apriranno le porte dell’inferno».
[La catastrofe sociale e la sollevazione]

4 pensieri su “UN VOTO DI CLASSE di Piemme”

  1. Anonimo dice:

    Meravigliosa analisiogni far ein f. Ma penso bisogni fare in fretta per canalizzare questo blocco o il settarismo e il dispotismo prenderanno il sopravvento quanto meno ve lo aspettiate.Si costruisca il fronte ampio: Forconi, compagni, delusi e ripudiati dal grillismo, tutti uniti per la svolta socialistaMa se si fallisce e si creeranno spinte reazionarie, allora un secondo nazi-fascismo non lo si potrà digerire. L'unica strada allora sarà l'autodeterminazione dei popoli.BYIL VILE BRIGANTE

  2. Anonimo dice:

    Scusate per la calligrafia ma il computer fa i capricciBYIL VILE BRIGANTE

  3. Unknown dice:

    La conclusione è molto condivisibile. Un modello socio-economico per certi aspetti simile a quello dell'America Latina degli anni 80 e 90 è quello che ci aspetta se non ci sarà una rivolta di massa: una società sempre più polarizzata, con sempre più poveri e declassati e pochi ricchi che producono poco e vivono di quello che i poli imperialisti dominanti lasciano cadere dal tavolo. E' un processo le cui basi conosciamo in realtà già abbastanza bene -seppure in forme non identiche- nelle periferie dello Stato Italiano (Meridione, Sicilia e Sardegna).

  4. la congiura degli eguali dice:

    piemme, lenin su stato e rivoluzione si preoccupa, pure della costruzione del partito rivoluzionario, che in italia purtroppo manca; il partito rivoluzionario è la terza condizione per la rivoluzione, le altre due le hai indicate,1)nel proletariato che non vorrà essere governato come prima,2)nei potenti che non potranno governare copme prima, e quindi aspettiamoci la stretta autoritaria, che già è in itinere anche attraverso il presidenzialismo programmato dalla loggia massonica p2 di licio gelli!

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