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CRISI, CETO MEDIO, LOTTA DI CLASSE, di Leonardo Mazzei

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22 dicembre. La disuguaglianza che aumenta in un Paese che si impoverisce: ecco perché il «movimento 9 dicembre» si è riconosciuto nel tricolore

Ce lo dice Bankitalia: dal 2007 al 2012 la ricchezza complessiva delle famiglie italiane è diminuita del 9%. Solo nel 2012 la perdita è stata del 2,9%, mentre le stime sul 2013 lasciano prevedere un calo simile a quello dell’anno precedente. Tradotto in moneta corrente l’impoverimento complessivo è stato pari a 843 miliardi di euro. Un tracollo che supererà abbondantemente i mille miliardi a fine 2013.

Sempre Bankitalia, questa volta con uno studio di Paolo Acciari e Sauro Moncetti (la Repubblica del 20 dicembre), attesta quanto siano cresciute le disuguaglianze negli ultimi trent’anni. In questo caso lo studio ha misurato il reddito e non la ricchezza disponibile, ma il rapporto tra queste due grandezze è piuttosto evidente.

In ogni caso il responso è chiarissimo: il 10% più ricco si appropriava del 26% del reddito nel 1983, del 30% nel 1993, del 33% nel 2003, del 34% nel 2007. Se la progressione è inequivocabile, le percentuali qui riportate sono invece assai più basse di quelle reali. Il problema è che lo studio in questione si è basato solo sulle dichiarazioni dei redditi, escludendo quindi (oltre all’evasione fiscale) i dividendi azionari e le rendite finanziarie in genere, due voci tutt’altro che irrilevanti per le fasce più ricche.

Tenuto conto di questo aspetto, non è difficile stimare che il 10% più ricco sia piuttosto vicino al 50% del totale. Che è poi la stessa percentuale della quota, anch’essa in crescita, di ricchezza posseduta.

Per certi aspetti si tratta della scoperta dell’acqua calda, visto che in questo caso le statistiche ci confermano quel che sapevamo già. Da trent’anni le disuguaglianze sociali crescono in maniera apparentemente inarrestabile, come se chi sta nella parte più povera della società, pur essendone una larga maggioranza, avesse perso ogni capacità di opporsi al dilagare dell’ingiustizia sociale.

I teorici del liberismo più sfrenato ci hanno spiegato per anni due cose. La prima è che l’unica cosa che conta è la crescita, perché con la crescita tutti finirebbero comunque per stare meglio, sia pure in maniera sempre più diseguale. La seconda, è che è proprio nella giungla delle diseguaglianze crescenti che risiederebbero gli stimoli in grado di produrre la crescita economica.

Con la crisi, il «circolo virtuoso» disegnato da costoro è però miseramente fallito. Ed oggi, la feroce redistribuzione in corso – del reddito e della ricchezza, dal basso verso l’alto – disegna i contorni di una società imbarbarita, dove la fascia più ricca si appropria non più di una quota maggiore di una ricchezza crescente, bensì di una quota maggiore di una ricchezza calante. E questo fa una grande differenza.

Siamo non a caso partiti dagli 843 miliardi «scomparsi», in soli 5 anni, dal paniere della ricchezza delle famiglie italiane. Una cifra enorme, superiore al 50% del Pil o, se preferite, superiore al 40% del debito pubblico. Un autentico depauperamento nazionale, peraltro ancora in corso.

E’ la svalutazione interna, bellezza!
Per chi non lo avesse ancora capito (e ce ne sono ancora molti nel campo delle forze che si vorrebbero antagoniste) è l’altra faccia del «Paradiso dell’Euro». Il prezzo da pagare per non poter agire sulla svalutazione esterna, quella monetaria.

Ma dove sono finiti gli 843 miliardi scomparsi?
In proposito possono esservi due risposte: quella, in definitiva rassicurante, che si da Bankitalia; quella, assai meno tranquillizzante, che possiamo ricavare da un esame degli effetti dei vincoli imposti dalla dittatura dell’euro.

Prima di entrare nel merito è necessario chiarire cosa si intende per ricchezza netta delle famiglie italiane. Questo valore viene ottenuto sommando le cosiddette «attività reali» (abitazioni, terreni, macchinari ecc.) con le attività finanziarie, che vanno dal contante, ai depositi bancari, alle azioni, ai titoli di ogni tipo. Da questa somma vengono poi detratte le passività finanziarie (mutui, prestiti, ecc.) e si arriva, appunto, al valore della ricchezza netta.

Perché abbiamo detto che la lettura di Bankitalia vorrebbe essere rassicurante? Perché, secondo gli estensori della relazione annuale, il calo della ricchezza registrato sarebbe da addebitarsi sostanzialmente ad un solo fattore, il deprezzamento subito dal patrimonio immobiliare negli ultimi anni. Un fattore davvero rilevante, ma di cui non si analizzano le ragioni. Ecco cosa scrive Bankitalia:

«La variazione della ricchezza complessiva in termini reali può essere attribuita a due fattori: il risparmio (inclusivo dei trasferimenti in conto capitale) e i capital gains, che riflettono le variazioni dei prezzi delle attività reali e di quelle finanziarie, al netto della variazione del deflatore dei consumi. Nel 2012 il risparmio, è sceso per il settimo anno consecutivo in termini nominali, risultando pari a 36 miliardi di euro; si attestava in media intorno ai 100 miliardi di euro, sempre a prezzi correnti, alla fine degli anni novanta. Nel 2012 i capital gains sono stati negativi per 287 miliardi di euro, per effetto del calo dei prezzi delle abitazioni non completamente compensati dai capital gains finanziari». 

Bankitalia ammette dunque il tracollo del risparmio, che vedremo meglio di seguito, ma attribuisce il calo complessivo della ricchezza alla svalutazione del valore delle abitazioni, come se si trattasse di una variazione ciclica, magari addebitabile al mero sgonfiamento della precedente bolla immobiliare. Ma davvero si tratta solo di questo? E, soprattutto, è questo un fenomeno facilmente reversibile?

Su 8.542 miliardi di ricchezza netta, le abitazioni – con 4.800 miliardi, pari a circa 200mila euro medi a famiglia – fanno davvero la parte del leone. Il loro valore complessivo è sceso, in termini reali, del 6% nel solo 2012. Quali le cause di questo crollo? Indubbiamente molte. Tra queste la sovrapproduzione di immobili dei primi anni duemila e la loro precedente sopravvalutazione (la bolla, appunto). Ma come non vedere anche gli altri fattori della crisi del mercato immobiliare? Tra di essi la restrizione del credito, la riduzione dei redditi, l’aumento delle tasse. Tutti elementi, questi ultimi, riconducibili non solo alla crisi in generale, ma ai meccanismi imposti dall’euro-dittatura di Bruxelles e Francoforte.

Intanto, sempre in base ai dati di Bankitalia, facciamo un passo indietro andando a vedere più da vicino l’andamento del risparmio. Leggiamo: «Tra il 1996 e il 2002 il risparmio era pari in media d’anno all’1,7% della ricchezza netta, è sceso all’1,3% tra il 2003 e il 2006, allo 0,9% tra il 2007 e il 2009 e allo 0,5% nel periodo 2010/2011». Dato che il rapporto tra ricchezza netta e Pil è all’incirca pari a 6, abbiamo che esso era superiore al 10% del Pil tra il 1996 e il 2002, mentre oggi raggiunge appena il 3%.

Il risparmio ha dunque subito una contrazione senza precedenti. Questo come dato complessivo, ma la media nasconde due fenomeni contrapposti: da un lato la fascia più ricca, che come abbiamo visto si è arricchita sempre più, ha certamente aumentato notevolmente la propria capacità di risparmio; dall’altra, chi precedentemente poteva risparmiare una parte del reddito (quello che definiamo all’ingrosso «ceto medio») oggi non solo non risparmia più, ma è costretto a mangiarsi progressivamente i risparmi precedentemente accumulati. In fondo alla scala sociale, milioni di famiglie che non hanno mai potuto avere risparmi significativi, ma che oggi ce l’hanno comunque meno di ieri, e che spesso anzi sono pesantemente indebitate.

La frattura sociale è dunque profonda, ed in via di approfondimento, con conseguenze politiche piuttosto rilevanti, probabilmente decisive per il futuro del Paese. Ma di questo parleremo in fondo, anche a proposito del «Movimento 9 dicembre».

Torniamo ora alla domanda: dove sono finiti gli 843 miliardi scomparsi? Nel merito quella di Bankitalia è la mera descrizione contabile, in se assai superficiale, del fenomeno. Ma cosa vi è dietro? Non vi sarà, per caso, un preciso legame con il trasferimento di ricchezza in atto dal sud al nord dell’Europa a causa dell’euro e delle sue «leggi»?

E’ questa la verità che ovviamente Bankitalia non vuole e non può dire. Si tratta, beninteso, di un processo di trasferimento assai complesso, di cui è difficile – almeno per chi scrive – indicare una quantificazione precisa. Alcuni aspetti di questo processo, tutti riconducibili al sistema dell’euro, sono però assai chiari. Vediamoli.

In primo luogo vi sono gli interessi sul debito pubblico. Calcolando un valore medio di 80 miliardi annui, e considerando che uno spread medio attorno a 200 rappresenta il 50% circa del valore complessivo degli interessi pagati, tenuto conto infine che i titoli detenuti all’estero sono stati pari ad una media del 45% nel periodo considerato (5 anni), abbiamo un trasferimento di ricchezza pari a: 80:2×0,45×5 = 90 miliardi. Il conteggio è necessariamente un po’ grossolano, ma il criterio adottato è prudenziale e dunque il dato ottenuto è probabilmente sottostimato. Novanta miliardi se ne sono dunque andati verso l’estero (e potete immaginarvi verso dove) solo a causa del differenziale sui tassi, un differenziale che è figlio legittimo e naturale degli effetti dell’innaturale ed illegittima (perché mai sottoposta ad una vera decisione democratica) moneta unica europea.

In secondo luogo vi sono i soldi versati direttamente ai fondi ESM ed EFSF
, più quelli erogati bilateralmente, ma sempre in base a decisioni europee. Essi ammontano a circa 53 miliardi di euro.

In terzo luogo c’è poi la questioncella del bilancio europeo. Un bilancio che per l’Italia indebitata e Piigs è un vero sbilancio. Come abbiamo già scritto qualche mese fa: «La differenza tra contributi versati e fondi ricevuti si era assestata nell’ultimo quinquennio ad una media di 4,3 miliardi annui a sfavore del nostro paese (-2,01 miliardi di euro nel 2007, saliti a -4,1 nel 2008, -5,05 nel 2009, -4,5 nel 2010 e -5,9 nel 2011)». Il tutto per un totale di oltre 21 miliardi.

In quarto luogo c’è l’enorme partita del mancato risparmio a seguito della crisi iniziata nel 2008. Ma la crisi, si dirà, non ha colpito solo l’Italia. Vero, ma – sempre a causa delle leggi (scritte o solo oggettive) dell’euro – ha colpito soprattutto i paesi dell’area euro-mediterranea. Qual è dunque la parte di mancato risparmio, che per molti – lo ripetiamo – ha significato e significa in realtà crescita dell’indebitamento, che possiamo attribuire alle leggi dell’euro? Su questo punto il calcolo si fa più complicato, ma ci proviamo ugualmente, anche perché buona parte della ricchezza mancante all’appello è proprio qui.

Abbiamo già visto che nel periodo 1996-2002, nonostante una crescita già allora non esaltante, con una media annua del +1,7%, la quota del risparmio era pari ad oltre il 10% del Pil. E sempre in quegli anni l’andamento del Pil italiano era allineato a quello della Germania (+ 1,6% medio). Nel periodo successivo, 2003-2006, la quota del risparmio resta attorno al 7% con una crescita media del Pil dell’1,2% annuo, allineato anche in questo caso con il dato tedesco (+1,3%). Il crollo avviene negli anni successivi, quando si arriva ad un misero 3%. E’ arrivata la crisi sistemica, certo, ma è nella crisi che il differenziale nella crescita di Italia e Germania si fa più pesante: -1,4% di media annua in Italia, +0,8% in Germania.

Come sappiamo, questo differenziale non è figlio del caso, essendo bensì la risultante dei differenziali di produttività esistenti nei diversi paesi a moneta unica. Come quantificare questo effetto sull’ammontare del mancato risparmio? Siamo partiti da una quota del 10% sul Pil, per arrivare al 3%. E’ irrealistico pensare che senza le conseguenze depressive delle leggi dell’euro saremmo rimasti ad una quota almeno doppia, cioè al 6%? Si direbbe di no, dato che la quota del risparmio è rimasta comunque al 5,5% anche nel triennio 2007-2009, cioè nel cuore della recessione, ma prima che le politiche austeritarie imposte dall’Europa si dispiegassero con tutta la loro forza devastatrice. Bene, se allora possiamo ipotizzare un differenziale di risparmio pari al 3%, possiamo allora calcolare grossolanamente una perdita di 45 miliardi annui, pari ad un totale di 225 miliardi.

Siamo così arrivati ad una perdita complessiva di 389 miliardi, sempre calcolata con un criterio che riteniamo prudenziale. Come ci ha ricordato Bankitalia, «la variazione della ricchezza complessiva in termini reali può essere attribuita a due fattori: il risparmio e i capital gains». Finora ci siamo occupati solo del risparmio, perché i miliardi che sono andati in interessi verso l’estero, in finanziamenti dei fondi europei, eccetera, altro non sono che soldi sottratti alla ricchezza nazionale.

E i capital gains? Abbiamo già visto come, in questo caso, il dato decisivo sia quello della svalutazione del patrimonio immobiliare. Naturalmente non è possibile calcolare con esattezza cosa sarebbe successo ai valori immobiliari se non avessimo dovuto applicare le leggi dell’euro. Ma non sarà difficile rendersi conto del peso dei fattori che abbiamo già richiamato in precedenza, e cioè la restrizione del credito, la riduzione dei redditi, l’aumento delle tasse.

L’aumento delle tasse non è frutto della crisi, ma solo delle imposizioni europee.
Imposizioni che hanno contribuito (in questo caso non da sole) alla riduzione dei redditi. In quanto alla restrizione del credito, essa è figlia di un sistema bancario votato alla speculazione, cioè agli imperativi del capitalismo-casinò. Solo un sistema bancario completamente nazionalizzato potrà risolvere la questione. Ma, come tutti sanno, la nazionalizzazione delle banche è semplicemente improponibile nell’Europa dell’euro.

Naturalmente non escludiamo affatto che anche senza le leggi dell’euro, la crisi sistemica in corso avrebbe comunque eroso in parte la ricchezza nazionale. Quel che tutti dovrebbero però aver capito è che il contributo del sistema dell’euro a questo impoverimento è stato assolutamente micidiale. Micidiale, tuttora in corso, e soprattutto irreversibile se in questo sistema si dovesse restare.

Che cosa ha prodotto questo impoverimento complessivo, in un quadro caratterizzato peraltro da una crescente diseguaglianza economica?
E’ presto detto, se prima la difesa (e l’accrescimento) dei privilegi del blocco dominante avveniva soprattutto a spese delle fasce popolari, adesso questo non basta più, adesso bisogna aggredire alla grande anche una parte consistente del ceto medio.

Lasciamo qui da parte che cosa sia esattamente il «ceto medio». In materia esistono classificazioni di ogni tipo, che qui non ci aiutano più di tanto. Ai fini del nostro ragionamento chiamiamo ceto medio quella fascia di popolazione che fino allo scoppio della crisi aveva visto migliorare costantemente, anche se negli ultimi anni moderatamente, le proprie condizioni di vita, il proprio reddito, le proprie aspettative. Una definizione probabilmente arbitraria, ma utile politicamente, dato che si tratta di quelle stesse fasce che hanno visto invertirsi il trend al miglioramento in tutti i sensi, non ultimo nelle aspettative per il futuro.

Ed è proprio la consapevolezza di quanto siano nere le aspettative per il futuro ad aver portato nelle strade, in questi giorni, alcune decine di migliaia di persone che non lo avevano mai fatto prima. Un fatto nuovo e non esclusivamente italiano (si pensi ai «berretti rossi» della Bretagna). Un fatto che ci dice quanto abbia scavato la crisi.

Ora, di fronte a questo fatto, solo dei parassiti del finto antagonismo possono girarsi dall’altra parte, magari irridendo una piccola borghesia impoverita e timorosa di proletarizzarsi. Possono comportarsi così i «tifosi» della politica («brutti bastardi eravate tutti berlusconiani»), i commentatori distaccati ed elitari («è chiaro, vorreste solo continuare ad evadere le tasse»), gli «antifascisti» alla finestra («tanto lo sappiamo che andrete tutti con Casa Pound»). Non possono farlo i rivoluzionari, che debbono porsi il problema del blocco sociale, che non possono lasciare il ribellismo alle forze di destra, che alla rivoluzione come processo reale e non onirico credono davvero, che non possono rapportarsi a questi settori sociali con gli stessi argomenti del blocco dominante.

Eh già, perché il blocco dominante è antiberlusconiano, vuole combattere l’evasione fiscale di questi settori per preservare la propria, ed ha una gran convenienza ad etichettare come «di destra», meglio ancora come «fascista», ogni sintomo di risveglio sociale, figuriamoci se potenzialmente rivoluzionario.

Il «movimento 9 dicembre» ha certo avuto i suoi limiti, e ne abbiamo già parlato a sufficienza, ma è il primo movimento che si è dato un obiettivo politico (la cacciata del regime) e non una mera lista di rivendicazioni di tipo sindacale. Ed è il primo vero movimento apertamente contro l’Unione Europea e l’euro. Certo, i limiti politici del coordinamento che ha avviato la mobilitazione erano evidenti, e non c’è da stupirsi di fronte alle attuali difficoltà. Ma la risposta popolare c’è stata, ed è stata socialmente assai variegata: non solo settori del lavoro autonomo, ma anche tanti lavoratori giovani e precari che hanno animato numerosi presidi in tutta Italia. A dimostrazione di come la pentola del malcontento sociale stia arrivando al punto di ebollizione.

Ci siamo dilungati già troppo. Veniamo allora alle conclusioni: se il rapporto tra i dati di Bankitalia e la discesa in strada del «movimento 9 dicembre» è cosa assai chiara, perché stupirsi dell’uso del tricolore nei presidi? Nella storia abbiamo avuto un tricolore monarchico, uno fascista, uno democratico e repubblicano. Abbiamo avuto il tricolore di Almirante, ma anche quello dei partigiani.
Che tricolore è quello che è sventolato nelle strade italiane a partire dal 9 dicembre?

Sicuramente non per tutti i manifestanti quella bandiera avrà significato la stessa cosa. Certamente no. E tuttavia il significato è rintracciabile proprio nel ragionamento fin qui svolto. Non c’è solo una lotta di classe contro il blocco dominante, quella parte che si va appropriando di quote sempre più crescenti della ricchezza. E che per poterlo fare ha bisogno di opprimere i diritti e le conquiste sociali del grosso dei lavoratori. C’è anche una lotta di classe contro gli artefici della rapina della ricchezza nazionale. Una rapina che ha come principale attrezzo da scasso la moneta unica e le sue leggi antipopolari.

Chi non capisce questo fatto non può capire il tricolore. Ma chi non capisce questo fatto non sappiamo davvero cosa possa comprendere dell’attuale situazione delle classi in Italia.

5 pensieri su “CRISI, CETO MEDIO, LOTTA DI CLASSE, di Leonardo Mazzei”

  1. Anonimo dice:

    GeremiaArticolo da tramandare alla Storia fra i migliori pubblicati in questo sito: grande lucidità di analisi, abbondanza di citazioni, conclusioni di incisività obiettiva e razionale. Complimenti vivissimi all'Autore. Le considerazioni, fra l'altro, sono di un'attualità sorprendente e gettano sulle convulsioni dell'Italia sventurata di oggi, una sciabolata di luce sinistra. E' veramente in atto una strategia di strangolamento di una Nazione. Per forza riappare il tricolore!! E ci sono parecchi sciagurati che abbaiano al Fascismo!!!E' invece un ultimo ed estremo tentativo delle coscienze dei cittadini di aggrapparsi ad una motivazione di dignità prima di finire definitivamente fagocitati dal mostro dell'internazionalismo imperialisico atlantico.

  2. Anonimo dice:

    Bravo Mazzei , ha descritto bene il malessere sociale che molti italiani stanno vivendo senza le solite differenze Destra/Sinistra ma evidenziando il vero nemico …EU e Euro.Mi voglio Augurare che continueranno con altre manifestazioni , dobbiamo riprenderci il Nostro Paese come spero facciano gli altri stati in Europa.

  3. Cangaçeiro dice:

    Buona Nataleeeeeehttp://www.youtube.com/watch?v=U06jlgpMtQs

  4. Anonimo dice:

    NostradammIn trappola ci siamo da quasi settant'anni ed è tragico che molti comincino ad accorgersene solo adesso quando ci hanno messo le ultime pastoie ai piedi e alle mani in prossimità della camera di macellazione. Bisogna ammettere tuttavia che i "norcini" hanno agito con astuta accortezza.Dicono che non sia mai troppo tardi, ma per salvarsi occorrerebbe un miracolo come una improvvisa invasione di Marziani giustizieri.

  5. Redazione SollevAzione dice:

    MARZIANIC'è sempre chi sostiene di aver capito prima e meglio di tanti altri dove saremmo andati a finire. Grilli parlanti di cui nessuno si era accorto. La storia non la fanno mai gloi oracoli che prevedono la fine del mondo, ma quelli che, magari non avendo il dono della profezia, si danno da fare per evitarla.

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