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IL NAZIONAL-LIBERISMO DELLA LEGA di Lorenzo Dorato*

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[ 4 marzo ]

Da alcuni mesi la Lega nord di Matteo Salvini ha acquisito sempre maggiore spazio mediatico anche a seguito di una evidente crescente benevolenza del sistema informativo che ha sovraesposto tale personaggio e il suo partito di fronte alle telecamere. Non è certo la prima volta che la Lega acquisisce nella sua ormai quasi trentennale storia di partito politico sulla scena nazionale uno spazio politico-elettorale e mediatico di spicco. Tuttavia, la Lega del 2015 non è la stessa del 1994, né del 2001 o del 2008. E’ un partito a vocazione sempre meno localistica e più nazionale, da “destra nazionale” in salsa lepenista. E’ inoltre una forza politica sempre più orientata ad una critica dell’austerità europea in nome di una necessità di ritorno alle sovranità nazionali. Insomma si presenta (come immagine elettorale) come forza politica di opposizione al paradigma dell’austerità della troika.

Ma che tipo di opposizione? Per quali fini? Con quale programma?

Per comprendere questo punto non ci si può di certo fermare agli aspetti superficiali dell’ideologia leghista (xenofobia, rozzezza culturale), pure drammaticamente pericolosi, ma occorre analizzare la natura profonda degli aspetti ideologici e del conglomerato di interessi rappresentato da un partito come la Lega, per alcuni aspetti sempre più riconducibile alla natura delle destre cosiddette (maldestramente) populiste, nella loro versione contemporanea, diffusesi a macchia d’olio in molti paesi europei in particolare negli ultimi 15 anni. Forze politiche accomunate da una critica selettiva dei meccanismi più dissolutivi del capitalismo, non certo in nome di una messa in discussione del capitalismo stesso e dello sfruttamento dell’uomo e del lavoro, ma a favore di una rigida riproposizione dell’ordine gerarchico economico della società in forme differenti. Una concezione che occulta le contrapposizioni di classe in nome di un superiore interesse nazionale e che prevede un uso attivo dello Stato per il disciplinamento della forza lavoro, l’imposizione di bassi salari e a corollario, nelle versioni più “sociali”, parziali forme di Stato sociale e di garanzia di livelli di occupazione e di controllo statale del capitalismo privato. Una linea politica che storicamente, anche nelle sue applicazioni concrete di governo (eclatante il caso del fascismo italiano) ha alternativamente adottato un approccio più liberista o più dirigista alla politica economica, nel comune e costante intento di preservare gli interessi della classe sociale dominante.

La Lega Nord si presenta come un confuso coacervo di interessi, prospettive ed ideologie. Da forza politica secessionista ed antiunitaria, schiettamente liberista, orientata a cavalcare una protesta antifiscale facendo leva su ceti medi e piccola imprenditoria in crisi, negli ultimissimi anni si è configurata come punto forte di un blocco sociale trasversale esplicitamente interclassista il cui nocciolo duro è la piccola impresa del nord Italia travolta dalla crisi capitalistica e dai meccanismi distruttivi della concorrenza internazionale e i lavoratori dipendenti del settore privato devastati da anni di politiche antisociali, da un fisco pesante ed iniquo (che colpisce le fasce più deboli della popolazione) e dal difficile processo di integrazione della manodopera immigrata usata a fini disgregativi come scintilla ideologica di deflagrazione delle contraddizioni sociali dentro la classe subalterna.

La Lega, negli ultimi anni, ha accentuato ideologicamente il suo carattere di destra “sociale” smussando anche i tratti più antinazionali ed enfatizzando l’attenzione ad alcuni temi sociali, quali la difesa del sistema pensionistico o una critica dei processi di privatizzazione su larga scala. Tutto questo però non deve ingannare, poiché la natura del partito, anche mettendo da parte gli elementi culturali di contorno, come le venature culturali razzistiche, rimane agli antipodi rispetto dalla difesa degli interessi popolari e del tutto conforme alla concezione di un capitalismo liberista, magari meno esposto alla concorrenza internazionale, ma pur sempre in un quadro di scarso attivismo dello Stato e forte assecondamento dei meccanismi di mercato e dunque degli interessi della classe dominante.

Riprova eclatante di ciò è la proposta di istituzione di una flat tax esposta da Salvini a Dicembre in occasione di un congresso del partito con la presenza di economisti di tenace fede liberista come Borghi e di un economista statunitense Alvin Rabushka,, ex-consigliere di Ronald Reagan. La proposta in poche parole è quella di istituire un’aliquota fiscale unica all’interno dell’Irpef (imposta sul reddito delle persone fisiche), che è invece attualmente informata a criteri di progressività garantiti dalla presenza di più scaglioni di aliquote (cinque per l’esattezza da un minimo del 23% ad un massimo del 43%). In pratica oggi chi guadagna di più è chiamato a contribuire alle spese pubbliche non solo pagando più tasse in termini assoluti, ma anche in proporzione al proprio reddito: al crescere del reddito cresce anche l’aliquota fiscale, cioè la quota di reddito che va alle tasse, secondo il principio della progressività delle imposte. Il sistema tributario italiano, come i suoi omologhi europei, nel corso degli ultimi 30 anni è già stato profondamente segnato da una drastica perdita di progressività delle imposte (progressività che toccò il suo massimo ai tempi della storica riforma che istituì l’Irpef nel 1974).

L’aliquota unica (flat tax in gergo anglosassone) sarebbe il punto di arrivo estremo di tale processo evolutivo, perché consentirebbe ai redditi più alti di sottrarsi alla progressività dell’imposta: meno tasse per i più ricchi, con l’idea che loro stiano già contribuendo al benessere collettivo…arricchendosi! E’ il sogno liberista di chi crede che il mercato distribuisca equamente le risorse con il suo agire spontaneo, sulla base dell’idea che ciascuno ha ciò che si merita, che i più poveri se sono tali se lo sono meritato. Cavallo di battaglia di Reagan negli USA, della Thatcher nel Regno Unito e della scuola economica di Chicago e neo-austriaca, la flat tax è dipinta dai suoi sostenitori come la soluzione più efficiente per massimizzare gli incentivi al lavoro e l’efficienza dell’homo economicus. Se si ritiene invece la distribuzione del reddito un elemento legato a fattori sociali ben più profondi del semplice merito individuale, di carattere oggettivo, legati sia alla divisione in classi che alle dinamiche concorrenziali spietate del mercato (non certo premianti necessariamente il più abile e meritevole), si vedrà nella redistribuzione un fattore di recupero di equità distributiva in un sistema strutturalmente non equo, e nella progressività delle imposte verrà individuato un validissimo strumento di attuazione di tale necessaria redistribuzione.

La Lega nord facendosi promotrice di una proposta ultra-liberista di tal genere, di distruzione di un basilare principio di equità distributiva, ci mostra il suo vero volto di forza antisociale. Mostra bene quale sia la sostanza di questa tipologia di “alternativa” alle spaventose politiche di austerità promosse dalla classe dirigente europea e nazionale negli ultimi anni: un’”alternativa” antipopolare all’incubo antipopolare dell’austerità disegnato dalle forze politiche egemoni di centro-destra e centro-sinistra.

La contrapposizione tra l’austerità europea, frutto maturo del neo-liberismo economico nella sua versione più estrema e socialmente criminale e la critica nazional-liberista dell’austerità è, una falsa contrapposizione che rischia di proporre uno scenario politico inquietante dove a scontrarsi sono due modi differenti di promuovere sfruttamento, disuguaglianza e miseria. L’antieuropeismo e la contrapposizione alle politiche di austerità della Lega nord e dei suoi accoliti neo-fascisti rappresentati da Casa Pound, non coglie certo la radice delle contraddizioni sociali, non discute i presupposti ultimi della disuguaglianza sociale, non propone vie di uscita ai danni imposti dal capitalismo. Non dimentichiamoci peraltro che la Lega nord è stata ed è tutt’ora fautrice di quelle politiche di divisione e lacerazione materiale e culturale che hanno spaccato il nostro paese accentuando divisioni e disuguaglianze territoriali. Il federalismo fiscale, punto di arrivo ideale del regionalismo egoistico leghista è un altro pezzo forte delle politiche economiche neo-liberiste.

Dalla parte opposta, è del tutto risibile la critica alla xenofobia e al populismo leghista o ancor peggio al suo “irresponsabile euroscetticismo”, da parte di forze politiche (interne al mondo culturale del cosiddetto centro-sinistra) e di personaggi ammantati di progressismo e custodi delle chiavi della presunta democrazia e dello Stato di diritto. Tali critiche provengono dai paladini più fanatici delle politiche liberiste e ultra-classiste che stanno stritolando da anni le società europee. Gli stessi paladini della democrazia che in Italia sostengono il massacro sociale dei ceti subalterni, in Europa la devastazione sociale del popolo greco, spagnolo, portoghese e in generale dei paesi ad economia più fragile e che a livello internazionale appoggiano oggi apertamente i nazisti ucraini e tagliagole in Libia e Siria per favorire l’imperialismo occidentale. Nessuna lezione di democrazia, dunque, da chi difende la macelleria sociale e la guerra.

Nessuno spazio, allo stesso modo, per le false alternative nazional-liberiste, anti-popolari che altro non propongono che varianti di una stessa macelleria. Contro queste false alternative occorre coltivare una prospettiva antifascista che, superando concezioni puramente retoriche e simboliche, sia capace di entrare nelle contraddizioni concrete del capitalismo attuale nell’epoca della gestione delle politiche di austerità europee. E’ necessario cogliere i tratti peculiari di quelle formazioni politiche e di quelle culture che, sfruttando l’assenza di forze di opposizione radicate sul territorio, tentano di appropriarsi della scena sociale egemonizzando il consenso tra le classi popolari prostrate dalle misure antisociali varate dai governi di turno. Smascherare il ruolo strumentale e la specularità di queste formazioni al progetto di macelleria sociale condotto in questi anni deve essere la priorità di chiunque voglia dare vita ad un’alternativa credibile all’austerità, allo sfruttamento e alla decadenza civile che stanno vivendo l’Italia e l’Europa.

Mai come oggi è necessario affermare con chiarezza e senza equivoci una radicale opposizione all’austerità, all’Unione europea e ai suoi trattati neo-liberisti, alle politiche economiche antipopolari, alle false alternative interne al paradigma dominante, ai neofascismi in tutte le loro forme contemporanee più o meno subdole, meri strumenti di dominio delcapitalismo.In una parola un’opposizione al capitalismo come modo di produzione antisociale applicato in tutte le sue forme con la copertura di qualsivoglia patina ideologica di facciata.


2 pensieri su “IL NAZIONAL-LIBERISMO DELLA LEGA di Lorenzo Dorato*”

  1. Luca Tonelli dice:

    bisogna però evidenziare che tra la Lega e il FN ci sono differenze marcate. il sociale cosiddetto della lega è più propagandato che nero su bianco in programma….mentre Le Pen è attualmente sostenitrice di una serie di misure corporativo-protezionistiche che effettivamente darebbero sollievo alla classe lavoratrice francese.certo non per farla uscire dallo stato di subalternità ma la differenza tra il sociale…e il nazionale….del FN e l'antisocialismo e l'antinazionalismo intrinseco nella Lega è….una differenza considerevole.

  2. Vincesko dice:

    1. Manovre correttive ed equitàE’ proprio vero che quelli della Lega Nord e del centrodestra in generale sono senza vergogna.1. Solo per info. Nella scorsa legislatura, sono state varate manovre correttive per l’astronomica cifra di 330 mld cumulati, in grandissima parte a partire dal maggio 2010 dopo la crisi greca: 267 mld dal governo Berlusconi-Tremonti-Bossi-Sacconi (addossati in gran parte sul ceto medio-basso e sui poveri: pensionandi, in particolare pensionandi disoccupati a reddito zero, precari del settore pubblico licenziati nella proporzione del 50%, dipendenti pubblici, spesa sociale delle Regioni e dei Comuni tagliata del 90%; risparmiando quasi i ricchi ed i redditi privati, tranne i farmacisti, in quanto fornitori del SSN); e 63 mld dal governo Monti, che, a parte gli esodati, è stato molto più equo, poiché ha colpito anche i ricchi e il settore privato. Quindi, in sintesi, tra gli ammontari complessivi delle manovre del governo Berlusconi-Bossi e di quelle di Monti c’è un rapporto di 4 a 1.LE CIFRE. Le manovre correttive, dopo la crisi greca, sono state: • 2010, DL 78/2010 di 24,9 mld; • 2011 (a parte la legge di stabilità 2011), due del governo Berlusconi-Tremonti (DL 98/2011 e DL 138/2011, 80+60 mld), (con la scopertura di 15 mld, che Tremonti si riprometteva di coprire, la cosiddetta clausola di salvaguardia, con la delega fiscale, – cosa che ha poi dovuto fare Monti – aumentando l’IVA), e una del governo Monti (DL 201/2011, c.d. decreto salva-Italia), che cifra 32 mld “lordi” (10 sono stati “restituiti” in sussidi e incentivi); • 2012, DL 95/2012 di circa 20 mld. Quindi in totale esse assommano, rispettivamente: – Governo Berlusconi: 25+80+60 = tot. 165 mld; – Governo Monti: 22+20 = tot. 42 mld. Se si considerano gli effetti cumulati da inizio legislatura (fonte: “Il Sole 24 ore”), sono: – Governo Berlusconi-Tremonti 266,3 mld; – Governo Monti 63,2 mld. Totale 329,5 mld. Cioè (ed è un calcolo che sa fare anche un bambino), per i sacrifici imposti agli Italiani e gli effetti recessivi Berlusconi batte Monti 4 a 1. Per l'equità e le variabili extra-tecnico-contabili (immagine e scandali), è anche peggio.(Cfr. Il lavoro ‘sporco’ del governo Berlusconi-Tremonti ).2. PensioniDal 1992, le riforme delle pensioni sono state 8 (Amato, 1992; Dini, 1995; Prodi, 1997; Berlusconi/Maroni, 2004; Prodi/Damiano, 2007; Berlusconi/Sacconi, 2010; Berlusconi/Sacconi, 2011; Monti-Fornero, 2011); oltre a quella Dini che ha introdotto il metodo contributivo, le ultime 4 riforme: Damiano (2007, in parte), Sacconi (2010 e 2011) e Fornero (2011) stanno producendo e produrranno risparmi fino al 2050 per centinaia di miliardi. Dopo le riforme, il sistema pensionistico italiano, come riconosciuto dall’UE, è tra i più solidi e severi in UE28. L’unico intervento ancora da fare è quello sulle cosiddette pensioni d’oro (>90.000€ l’anno), che sono 109.000 e costano 13 mld l’anno (e forse su quelle d’argento), intervenendo con modalità rispettose della pronuncia della Corte Costituzionale del 2013. Le riforme di Sacconi (2010 e 2011, oltre a Damiano, 2007) sono molto più corpose, immediate e recessive (finestra di 12 o 18 mesi per tutti, allungamento di 5 anni (+ finestra) dell’età di pensionamento per tutti tranne le lavoratrici private, adeguamento triennale all’aspettativa di vita), di quella Fornero (2011) (metodo contributivo pro-rata per tutti e allungamento graduale dell’età di pensionamento delle dipendenti private), i cui effetti si avranno soprattutto a partire dal 2020.

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