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MA QUALE “KEYNESISMO”? (in risposta ad Alesina e Giavazzi) di Guglielmo Forges Davanzati *

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Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

[ 11 marzo ]

«Con uno slittamento semantico che ben poco toglie alla sostanza della questione, le politiche economiche suggerite dalla commissione europea vengono ora definite di austerità “flessibile”[1], dove è l’aggettivo a contare maggiormente sul piano comunicativo. Ciò a indicare che la stagione delle misure radicali di riduzione della spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale sarebbe ormai terminata. 

In questa nuova prospettiva, fatta propria dal Governo Renzi, si inserisce la proposta formulata da due dei più accreditati economisti italiani – Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – di far ripartire la domanda interna riducendo la pressione fiscale e sforando temporaneamente il vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil [2]. E’ una proposta che merita di essere discussa proprio perché essa è alla base di quello che viene propagandato come un nuovo corso della politica economica italiana. 

Si tratta di una proposta apparentemente di buon senso, definita keynesiana e, in quanto tale, “di sinistra”. In realtà, essa non è affatto keynesiana, non è affatto “di sinistra” (se la si legge considerando gli effetti redistributivi che la sua attuazione produrrebbe), e non è neppure di buon senso. Per queste ragioni. 

1) Alesina e Giavazzi propongono di sforare temporaneamente il vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil per accrescere la domanda interna, assumendo neppur tanto implicitamente che quel vincolo abbia una sua ratio e che, nel lungo periodo, debba essere rispettato. Si tratta di una posizione alquanto discutibile, almeno sotto due aspetti. In primo luogo, come diffusamente evidenziato, quel vincolo non risponde a nessun criterio scientifico e, conseguentemente, non vi è nessuna motivazione cogente, se non esclusivamente politica, che dovrebbe indurre un Paese a rispettarlo[3]. Occorre peraltro sottolineare che l’elevato debito pubblico italiano (se comparato con la media dei Paesi dell’Unione Monetaria Europea) non è affatto imputabile all’eccessiva spesa pubblica, ma semmai agli elevati tassi di interesse che lo Stato italiano paga ai sottoscrittori di titoli[4]

In secondo luogo, la proposta di Alesina e Giavazzi si basa su una concezione banalmente keynesiana della politica fiscale, secondo la quale l’aumento del deficit pubblico agisce (o deve agire) esclusivamente in funzione anticiclica. Per contro, si può argomentare che l’insufficienza di domanda aggregata è un problema di breve come di lungo periodo, dal momento che, in un’ottica teorica diversa da quella di Alesina e Giavazzi e autenticamente keynesiana, un’economia di mercato deregolamentata produce spontaneamente sottoutilizzazione delle risorse e disoccupazione, e, dunque, necessita di un intervento pubblico strutturale[5]

2) Alesina e Giavazzi propongono di utilizzare le risorse liberate dall’aumento del rapporto deficit/Pil per ridurre l’imposizione fiscale. Qui la loro proposta assume più decisamente connotati “di destra”. Dimenticando il fatto che, per accrescere l’occupazione, è più efficace aumentare la spesa che ridurre le tasse, Alesina e Giavazzi ritengono che la riduzione della pressione fiscale possa generare crescita per i consueti canali che si immagina si attivino dal lato dell’offerta: la riduzione delle imposte sugli utili d’impresa produce maggiori investimenti che attivano maggiore occupazione e maggiore crescita. 

Contestualmente, viene argomentato, per l’obiettivo di rispettare il vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil, fatta salva la temporanea deroga, occorre ridurre la spesa pubblica. Gli effetti redistributivi a danno del lavoro appaiono evidenti, dal momento che la detassazione degli utili d’impresa verrebbe pagata con minori servizi pubblici a danno delle famiglie con redditi più bassi. 

Vi sono poi almeno due rilievi che contraddicono la tesi secondo la quale la detassazione degli utili d’impresa accresce gli investimenti. In primo luogo, come attestato dall’Agenzia delle Entrate, in media, gli imprenditori italiani hanno un’elevata propensione all’evasione fiscale (da qui discende il curiosum che sono in molti a dichiarare al fisco redditi inferiori ai loro dipendenti): la detassazione degli utili, in questo contesto, può, nella migliore delle ipotesi, accrescere il gettito fiscale, ma appare molto problematico ritenere che possa stimolare gli investimenti. 

D’altra parte, l’esperienza storica recente mostra che, a fronte di reiterate misure di detassazione, gli investimenti non sono aumentati e, nel caso italiano, sono stati sempre inferiori alla media dell’Eurozona. In secondo luogo, occorre tener conto – come rilevato dall’ISTAT – che gli imprenditori italiani esprimono un’elevata propensione al consumo, particolarmente di beni di lusso. Anche per questa ragione, la detassazione può avere effetti pressoché nulli sulla ripresa degli investimenti[6]

Si può, per contro, argomentare che l’eventuale sforamento del vincolo del 3% avrebbe effetti più significativi se le risorse fossero destinate ad aumentare la spesa pubblica incidendo sulla distribuzione del reddito e sulla struttura produttiva. Ciò per queste ragioni. 

In primo luogo, incrementi di spesa pubblica a beneficio delle famiglie con redditi più bassi, che esprimono maggiore propensione al consumo, accrescono la domanda interna e l’occupazione, in una condizione per la quale è l’equità distributiva una precondizione per la crescita economica. 

In secondo luogo, l’aumento della spesa pubblica, ampliando i mercati di sbocco per le imprese che operano sui mercati interni (ovvero per la gran parte delle imprese italiane e ancor più delle imprese meridionali), incentiva l’aumento delle dimensioni medie d’impresa. E poiché imprese di più grandi dimensioni operano con tecniche produttive che generano rendimenti crescenti, l’aumento delle dimensioni d’impresa ha, di norma, effetti di segno positivo sulla dinamica della produttività del lavoro. 

Inoltre, dal momento che le imprese di grandi dimensioni dispongono di fondi interni maggiori di quelli di cui dispongono imprese di più piccole dimensioni, le prime possono accordare incrementi salariali più di quanto possano fare le seconde. In più, potendo (almeno parzialmente) autofinanziare i propri investimenti, sono meno dipendenti dal sistema bancario[7]; il che, in un contesto di restrizione del credito, comporta una dinamica degli investimenti maggiore di quella che si avrebbe in un’economia popolata da imprese di piccole dimensioni. In questa dinamica di causazione cumulativa, l’avanzamento tecnico risulta quindi dipendente dalla dinamica della domanda aggregata. 

Con riferimento alla proposta di temporaneo sforamento del vincolo del 3% per detassare gli utili di impresa, si pongono due ulteriori considerazioni. Innanzitutto, occorre riconoscere che l’attuazione di politiche fiscali espansive, in quanto tale, non genera necessariamente effetti redistributivi (non li genera, per esempio, nel caso in cui la detassazione vada a esclusivo beneficio delle imprese): e se è la maggiore equità distributiva un presupposto per la crescita, vi è anche da dubitare che la sola detassazione dei redditi più alti – in regime di austerità “flessibile” – possa incidere positivamente sul tasso di crescita. In secondo luogo, occorre ricordare che in assenza di politiche industriali che rafforzino la struttura produttiva l’aumento della spesa pubblica e/o la riduzione della pressione fiscale rischia di risolversi quasi unicamente in un aumento delle importazioni. Ed è questo, oggi, il principale problema italiano. 

Da almeno un ventennio (dunque prima dell’adozione dell’euro e delle politiche di austerità), l’economia italiana è dentro un circolo vizioso di bassa crescita della domanda e bassa crescita della produttività, che culmina in una profonda “crisi di struttura”. Su fonte OCSE, si stima, a riguardo, che il tasso di crescita della produttività del lavoro, in Italia, ha assunto valori poco superiori all’0.5% nel periodo 1990-2010, a fronte di un tasso di crescita della produttività della media OCSE del 2% e dell’1.5% dell’UE15 nel periodo considerato. Il divario si accentua nel periodo 2001-2010, quando il tasso di crescita medio della produttività del lavoro in Italia si aggira intorno allo 0% a fronte di una media OCSE dell’1.5% e di una media UE15 dell’1%. 

Va da sé che, in un contesto di caduta della domanda aggregata, disporre di maggiori margini di manovra per politiche fiscali espansive è assolutamente necessario. Il problema è come le si vuole declinare, ovvero se si intende dare priorità a misure fiscali che riducano le diseguaglianze distributive (e incidano sulla struttura industriale) o meno. In tal senso, la proposta di Alesina e Giavazzi, oltre a essere di dubbia efficacia, è semmai annoverabile fra le più tipiche e ricorrenti proposte della destra». 

* Fonte: MicroMega


NOTE 
[1] Si veda http://ec.europa.eu/economy_finance/economic_governance/sgp/pdf/2015-01-13_communication_sgp_flexibility_guidelines_en.pdf 

[2] Si veda anche http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_17/terapia-coraggiosa-b52dfb04-25d5-11e4-9b50-a2d822bcfb19.shtml

[3] Per la dimostrazione dell’inesistenza di un criterio scientifico che sia in grado di determinare un unico parametro di sostenibilità del deficit e del debito pubblico, si rinvia in particolare a L.L.Pasinetti, The mith (or folly) of the 3% deficit/GDP Maastricht ‘parameter’, “The Cambridge Journal of Economics”, 22 (1), 1998, pp.113-116. 

[4] Sul tema si rinvia, fra gli altri, per il caso italiano, a G.Forges Davanzati, La spesa pubblica, il debito e l’aristrocrazia finanziaria, Micromega on-line, 30.10.2014. 

[5] Sul punto, con riferimento a una critica alla proposta di Alesina e Giavazzi, si rinvia ahttp://keynesblog.com/2014/08/22/john-maynard-giavazzi-o-quasi/. Si veda anche G. Pastrello. La va rovesciata, Il Manifesto, 2.1.2015. 

[6] In particolare, l’ISTAT rileva che una famiglia il cui reddito deriva da attività imprenditoriale spende, in media, circa 3600 euro al mese, più del doppio di una famiglia il cui reddito deriva da lavoratore dipendente. 

[7] Per un inquadramento teorico di questi effetti, si rinvia a N.Kaldor, A model of economic growth, “The Economic Journal”, vol.67, n.268, December 1957, pp.591-624. Sul piano empirico, si rinvia al rapporto OCSE, Entrepreneurship at glance, OECD Library, 2013. 

(10 marzo 2015)

3 pensieri su “MA QUALE “KEYNESISMO”? (in risposta ad Alesina e Giavazzi) di Guglielmo Forges Davanzati *”

  1. Anonimo dice:

    La cosa terificante è che a sinistra siamo ridotti a propagandare proposte che di rivoluzionario hanno ben poco; proposte da media borghesia moderatissima che negli anni '70 avrebbero ricevuto l'accoglienza che meritavano (allora).Sollevazione, che a sinistra è l'unico blog che si rende conto della necessità di un minimo di pragmatismo, fa benissimo apubblicare e a sostenere queste idee. Il problema per è che la sinistra non riesce in nessun modo a farsi protatrice di istanze autenticamente "sovversive" (fra virgolette) e questo comporta che il popolo dei lavoratori non si sente scaldare il cuore…alla fine rischiano di prevalere le proposte di destra becera che seppure sostanzialmente campate in aria hanno il pregio di essere passionali e coinvolgenti.

  2. Anonimo dice:

    Cari compagni di Sollevazione, li mortacci vostri, non avete riportato il commento più interessante di Guglielmo Forges Davanzati quando cota Marx in persona:"“L’indebitamento dello stato è l’interesse diretto dell’aristocrazia finanziaria quando governa e legifera per mezzo delle Camere; il disavanzo dello stato è infatti il vero e proprio og­getto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offre all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo stato che, man­tenuto artificialmente sull’orlo della bancarotta, è costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli”Mi sembra notevole non vi pare?

  3. Redazione SollevAzione dice:

    Grazie all'anonimo 2 per l'istruttiva citazione di Davanzati.Al primo anonimo:ogni fase politica… ha le sua disgrazie!Figurarsi i periodi storici.Non siamo in un periodo di rivoluzione ma, al contrario, di difficilissima e difensiva resistenza. Per di più le forze "rivoluzionarie" sono con le pezze al culo.In queste circostanze, quante volte lo abbiamo ripetuto!, occorre battere lo schieramento neoliberista dominante, solo a questa condizione sarà possibile domani una controffensiva… e solo a patto che ci faremo trovare ben organizzati.

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