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SPAGNA: PER L’UNITÀ POPOLARE di Manolo Monereo

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[ 4 maggio ]

Stanno facendo grande scalpore in Spagna le dimissioni di Juan Carlos Monedero [a destra nella foto accanto a Pablo Iglesias], ideologo e cofondatoredi Podemos, dalla direzione politica di questo movimento. 

Monedero critica l’andazzo elettoralistico della direzione di Podemos: “apparire un minuto sulla televisione è diventato più importante della strategia collettiva e delle attività dei circoli di base”. Ad un anno dalla sua nascita Podemos soffre quindi già di una seria crisi di direzione. [1]

Torneremo su questo argomento. Basti sapere che l’altra formazione politica d’opposizione, Izquierda Unida, attraversa una crisi ancor più grave. Molti militanti e dirigenti stanno abbandonando Izquierda Unida in polemica con la posizione del gruppo dirigente che rifiuta ogni collaborazione con Podemos, ed anzi condanna Podemos come fosse il risultato di una macchinazione diabolica del regime.

Manolo Monereo, membro della direzione di Izquierda Unida, noto intellettuale marxista, è uno degli elementi di punta di questa opposizione. In questo recentissimo articolo espone il suo pensiero.
Le elezioni locali e regionali che si terranno il 24 maggio stanno diventando molto dure per il soggetto popolare: divisioni, arroganze, settarismi di ogni genere … ma questa è solo una parte della verità. In molti altri luoghi, l’unità popolare avanza e si consolida; centinaia di candidature, a partire da Madrid e Barcellona, ​​sono state costruite pazientemente, con intelligenza, con  sofferenza. Quando i “partiti-istituzione” non rispondono alle richieste del “partito organico” (le forze per il cambiamento e la trasformazione), gli accordi diventano difficili ed i muri sembrano ostacoli insormontabili. Tuttavia, essi possono non solo possono essere saltati,  talvolta si rompono e si stanno rompendo.

Nella Foto accanto: Mauricio Valiente e gli altri membri del IU di Madrid che sostengono la candidatura di unità popolare Ora Madrid, alla manifestazione del 1 maggio
Donne e uomini, attivisti sociali e quadri politici hanno reso possibile dal basso quello che dall’alto non sembrava possibile: unire le varie sinistre, organizzare grandi fronti democratici popolari, realizzandolo nel calore dei movimenti sociali. L’obiettivo è chiaro: per costruire l’alternativa al bipartitismo e governare per trasformare. Non è poco, è solo l’inizio e c’è molta, molta di strada da percorrere. L’esperienza sarà molto importante e darà forza, fiducia e spinta a coloro che hanno lottato con pazienza e coraggio per l’unità popolare.
Ma che cos’è l’unità popolare? Cerchiamo di definirla, sempre in via provvisoria, procedendo per approssimazioni successive. Una prima definizione potrebbe essere: una serie di politiche mirate per costruire una società di donne e uomini liberi e uguali, liberati dallo sfruttamento, il dominio e la discriminazione; una res publica.Si tratta forse di una definizione troppo astratta, che esprime però degli obiettivi politici che agiscono come principi, come idee regolatrici, che servono a criticare il presente e prefigurano i contorni del futuro da costruire collettivamente.
L’unità popolare è soprattutto una strategia, cioè, un modo di fare e di organizzare l’azione politica concepita come azione cosciente collettivamente perseguita. Per capire questo, è necessario fare una piccola deviazione sul potere nelle nostre società. Nella società capitalistica, il potere è capitalista. Non è un gioco di parole; ciò che si intende è che il capitale, i capitalisti, individualmente e collettivamente, hanno un potere strutturale e questo si distribuisce  disugualmente e asimmetricamente nelle nostre società. Questo è e sarà sempre il limite oggettivo di ogni democratizzazione nel capitalismo.
Lo Stato unifica il blocco dominante, assicura la subordinazione politica e ideologica delle maggioranze sociali e garantisce la coesione della formazione economica e sociale, anche grazie al suo monopolio esclusivo della violenza legittima. Lo Stato capitalista è dunque lo spazio contraddittorio dove si esprimono i conflitti fondamentali, dove si risolvono le contraddizioni tra le forze politiche e sociali e, questo è decisivo, si organizzato e riproduce la classe politica dirigente. Lo Stato non è quindi neutro dal punto di vista del conflitto base, né è una semplice macchina delle classi economicamente dominanti; la autonomia di queste ultime è sempre relativa, e cambia col mutare delle condizioni. Ora, nella crisi attuale l’autonomia è più stretta e il suo carattere di classe più evidente —ciò che rappresenta un indicatore della profondità della crisi medesima.
Partendo da questa realtà del potere nelle nostre società, meglio si comprende l’unità popolare come strategia politica. Governare è molto importante, porselo come obiettivo dimostra la serietà, la coerenza e il coraggio di una forza politica, ma dobbiamo anche sottolineare che governare con un programma trasformatore significa, oggi più di ieri, niente altro che accedere elettoralmente al potere esecutivo; manca la forza sociale organizzata per tentare (compito molto difficile e sempre provvisorio) di riequilibrare il deficit strutturale di potere esistente nelle nostre complesse società — al cui centro c’è lo Stato e, più in là, una serie di istituzioni formali e informali che sono state chiamate società civile.
L’obiettivo è quello di coniugare, nel lungo e nel breve periodo, la democratizzazione delle istituzioni statali con l’articolazione e lo sviluppo di poteri sociali dal basso. Entrambi, lavoro istituzionale e creazione di poteri di base delle nostre concrete società, sono fattori prioritari ai livelli territoriali e locali. Si potrebbe parlare di “territorialità del potere”, vale a dire il radicarsi solidamente nello spazio, il creare solidarietà e legami sociali altruistici, l’ampliare le forme alternative di produzione e di scambio per assicurare alle persone il buen vivir, nuove e rispettose relazioni  sociali e in pace con l’ambiente, proiettate sul futuro, unendo dignità e autogoverno delle persone con l’appropriazione collettiva del territorio.
Per non perdere il filo: “democratizzazione la democrazia” (come insegnato per anni da Boaventura de Sousa Santos) implica la combinazione di un lavoro serio e sistematico nelle istituzioni (amministrare in forma alternativa è fondamentale), con la creazione paziente, tenace, controcorrente —la normalità è quasi sempre passività, subordinazione e lasciare fare al mercato, agli imprenditori, al capitale— di varie forme di auto-organizzazione sociale, di pratiche sociali e  istituzionali alternative. La chiave: una gestione istituzionale che generi conflitto e non  pace sociale, che promuova l’auto-organizzazione di forti soggetti sociali; poteri sociali che aiutino a democratizzare le istituzioni, che socializzino la politica e cambino la società dal basso.
Il nazional-popolare è l’altra faccia della medaglia, il contenuto che consente la trasformazione sociale. Essere parte della gente, essere gente, impegnarsi e apprendere insegnando. Dietro c’è una vecchia questione che ha a che fare con la vita quotidiana delle persone. La società emancipata, quello che noi chiamiamo socialismo, implica una democratizzazione sostanziale della politica, del potere, della cultura, dell’economia. E la democrazia della vita quotidiana, cioè, nuovi rapporti sociali tra uomini e donne, tra imprese e lavoratori, tra i servizi pubblici e cittadini, tra gli esseri umani e la natura di cui facciamo irreversibilmente parte. In breve, riassorbire la storia delle grandi parole e degli eventi storici in una quotidianità liberata.
La cosa peggiore è l’elitarismo di una parte significativa degli intellettuali, talvolta travestito di culturalismo, altre di marxismo fatto in casa (anzi, nei palazzi) al massimo per arrivare comodamente alla fine del mese. Gli intellettuali tradizionali devono essere superati da altri che siano in grado di partire dai bisogni della gente, difendendo e trasformando il “senso comune”, la costruzione di una nuova alleanza con le classi subalterne. L’obiettivo è preciso: una nuova cultura che dia vita a un nuovo potere, un nuovo Stato, una nuova Repubblica di cui chi sta in basso sia protagonista, appoggiata sulla egemonia politica delle classi lavoratrici, delle classi popolari.
L’unità popolare, dobbiamo insistere ancora una volta, è oggi obbligatoria. Se qualcosa mostra chiaramente la Grecia di Syriza (sempre da sola, è necessario segnalarlo), è che il potere dei governi è notevolmente diminuito e che qualsiasi progetto democratico sociale richiede più autonomia, più sovranità, più potere. Senza una maggioranza sociale organizzata senza un popolo convinto e mobilitato, senza forze politiche e sociali unite, non ci sarà alcuna possibile trasformazione e saremo, ancora una volta, sconfitti, il tutto per la maggior gloria dell’Europa tedesca, dell’euro e del capitale monopolistico finanziario. Alla fine, sarà importante un gruppo dirigente coraggioso, intelligente e radicale.
Ci rispondono che tutto questo è troppo generico e che le persone normali non lo capiscono. Penso che si sbagliano. I sondaggi servono per quello che servono e con alcune restrizioni. Ci sono due possibili atteggiamenti: accodarsi alle opinioni della gente oppure partire da quello che pensano  per andare oltre. Per quello che sappiamo, che con modestia diciamo, la nostra gente ha le idee chiare e nemici in carne e ossa: i banchieri, i grandi imprenditori, il blocco dei padroni … Essa sa abbastanza precisamente che i potenti hanno catturato lo Stato e che lo hanno posto al loro servizio, e che i responsabili di questo immensa involuzione sociale e politica sono i due partiti dominanti, sempre sostenuti dalle borghesie nazionaliste basca e catalana.

La cosa da fare ora è far sì che l’indignazione politica diventi progetto alternativo di paese. La differenza tra trasformazione e trasformismo è spesso una linea sottile. L’unità popolare servirà anche a questo, affinché essa non sia superata.

*Fonte: Quarto Poder
Traduzione a cura della Redazione

NOTE

[1] Leggi QUI per ulteriori informazioni su queste dimissioni 

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