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DIRITTI SOCIALI, DIRITTI CIVILI, UNIVERSALISMO, CITTADINANZA di Luigi Ferrajoli

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[ 10 giugno ] 

Il tema dei diritti civili, complesso quanto controverso, merita di essere approfondito. Che esso sia divisivo lo dimostra il dibattito sviluppatosi dopo la pubblicazione di due articoli (QUI e QUI). Il tema chiama in causa aspetti cruciali di filosofia del diritto. Tra i più eminenti teorici italiani del Diritto è senz’altro Luigi Ferrajoli (nella foto).
Pubblichiamo d’appresso un suo intervento di straordinaria densità teorica dal titolo “Una definizione del concetto di diritti fondamentali” [in: Diritti Fondamentali. Un dibattito teorico; A cura di E. Vitale. Editori Laterza, 2008]. Il discorso di Ferrajoli, condivisibile in gran parte, presenta tuttavia alcune criticità. Continueremo quindi la discussione su questo Blog.
«Propongo una definizione teorica, puramente formale o strutturale, di «diritti fondamentali»: sono «diritti fondamentali» tutti quei diritti soggettivi che spettano universalmente a «tutti» gli esseri umani in quanto dotati dello status di persone, o di cittadini o di persone capaci d’agire; inteso per «diritto soggettivo» qualunque aspettativa positiva (a prestazioni) o negativa (a non lesioni) ascritta ad un soggetto da una norma giuridica, e per «status» la condizione di un soggetto prevista anch’essa da una norma giuridica positiva quale presupposto della sua idoneità ad essere titolare di situazioni giuridiche e/o autore degli atti che ne sono esercizio. [1]

Questa definizione è una definizione teorica in quanto, pur essendo stipulata con riferimento ai diritti fondamentali positivamente sanciti da leggi e costituzioni nelle odierne democrazie, prescinde dalla circostanza di fatto che tali diritti siano formulati in carte costituzionali o in leggi fondamentali, e perfino dal fatto che essi siano enunciati in norme di diritto positivo. Non si tratta, in altre parole, di una definizione dogmatica [2] cioè formulata con riferimento alle norme di un concreto ordinamento, come per esempio la costituzione italiana o quella spagnola. In base ad essa diremo che sono «fondamentali» i diritti ascritti da un ordinamento giuridico a tutte le persone fisiche in quanto tali, o in quanto cittadini o in quanto capaci d’agire. Ma diremo anche, senza che la nostra definizione sia in alcun modo inficiata, che un dato ordinamento giuridico, per esempio totalitario, è privo di diritti fondamentali. La previsione di tali diritti da parte del diritto positivo di un determinato ordinamento è insomma condizione della loro esistenza o vigore in quell’ordinamento, ma non incide sul significato del concetto di diritti fondamentali. Meno ancora incide su tale significato la loro previsione in un testo costituzionale, che è solo una garanzia della loro osservanza da parte del legislatore ordinario: sono fondamentali, per esempio, anche i diritti di difesa ascritti all’imputato dal codice di procedura penale, che pure è una legge ordinaria.

In secondo luogo la nostra definizione è una definizione formale o strutturale, nel senso che prescinde dalla natura degli interessi e dei bisogni tutelati con il loro riconoscimento quali diritti fondamentali, e si basa unicamente sul carattere universale della loro imputazione: inteso «universale» nel senso puramente logico e avalutativo della quantificazione universale della classe dei soggetti che ne sono titolari. Di fatto sono tutelati come universali, e quindi fondamentali, la libertà personale, la libertà di pensiero, i diritti politici, i diritti sociali e simili. Ma ove tali diritti fossero alienabili e quindi virtualmente non universali, come avverrebbe per esempio in una società schiavista o interamente mercantilistica, essi non sarebbero universali né quindi fondamentali. Inversamente, se fosse stabilito come universale un diritto assolutamente futile, come per esempio il diritto ad essere salutati per strada dai propri conoscenti o il diritto di fumare, esso sarebbe un diritto fondamentale.

Sono evidenti i vantaggi di una tale definizione. In quanto prescinde da circostanze di fatto, essa è valida per qualunque ordinamento, indipendentemente dai diritti fondamentali in esso previsti o non previsti, inclusi gli ordinamenti totalitari e quelli premoderni. Ha quindi il valore di una definizione appartenente alla teoria generale del diritto. In quanto è indipendente dai beni o dai valori o dai bisogni sostanziali che dai diritti fondamentali sono tutelati, essa è inoltre ideologicamente neutrale. È perciò valida qualunque sia la filosofia giuridica o politica condivisa: giuspositivistica o giusnaturalistica, liberale o socialista, e perfino illiberale e anti-democratica.

E tuttavia questo carattere «formale» della nostra definizione non toglie che essa sia sufficiente a identificare nei diritti fondamentali la base dell’uguaglianza giuridica. Grazie ad esso, infatti, l’universalità espressa dalla quantificazione universale dei (tipi di) soggetti che di tali diritti sono titolari viene a configurarsi come un loro connotato strutturale, che come vedremo comporta il carattere inalienabile e indisponibile degli interessi sostanziali in cui essi consistono. Di fatto, nell’esperienza storica del costituzionalismo, tali interessi coincidono con le libertà e con gli altri bisogni dalla cui garanzia, conquistata a prezzo di lotte e rivoluzioni, dipende la vita, la sopravvivenza, l’uguaglianza e la dignità degli esseri umani. Ma tale garanzia si realizza precisamente attraverso la forma universale che ad essi proviene dalla loro stipulazione come diritti fondamentali in norme costituzionali sopraordinate a qualunque potere decisionale: se sono normativamente di «tutti» (i membri di una data classe di soggetti), questi diritti non sono alienabili o negoziabili ma corrispondono, per così dire, a prerogative non contingenti e inalterabili dei loro titolari e ad altrettanti limiti e vincoli invalicabili a tutti i poteri, sia pubblici che privati.

E’ chiaro, d’altra parte, che questa universalità non è assoluta, ma è relativa agli argomenti con riferimento ai quali è predicata. Il «tutti» di cui tali diritti consentono di predicare l’uguaglianza è infatti logicamente relativo alle classi dei soggetti cui la loro titolarità è normativamente riconosciuta. Se dalla quantità e dalla qualità degli interessi protetti come diritti fondamentali dipende l’intenzione dell’uguaglianza, è dunque dall’estensione di tali classi, ossia dalla soppressione o riduzione delle differenze di status da cui esse sono determinate, che dipende l’estensione dell’uguaglianza e quindi il grado di democraticità in un dato ordinamento.

Queste classi di soggetti sono state identificate, nella nostra definizione, dagli status determinati dall’identità di «persona» e/o di «cittadino» e/o di «capace d’agire», che come sappiamo sono state oggetto, nella storia, delle più varie limitazioni e discriminazioni. «Personalità», «cittadinanza» e «capacità d’agire», in quanto condizioni della pari titolarità di tutti i (diversi tipi) di diritti fondamentali, sono conseguentemente i parametri così dell’uguaglianza come della disuguaglianza en droits fondamentaux. Ne è prova il fatto che i loro presupposti possono essere – e storicamente sono stati – più o meno estesi: ristrettissimi in passato, quando per sesso, o per nascita, o per censo, o per istruzione o per nazionalità ne era esclusa la maggioranza delle persone fisiche, essi si sono progressivamente estesi senza tuttavia raggiungere neppur oggi, almeno per quanto riguarda la cittadinanza e la capacità d’agire, un’estensione universale a tutti gli esseri umani.

Oggi la cittadinanza e la capacità d’agire sono rimaste le sole differenze di status che ancora delimitano l’uguaglianza delle persone umane. E possono quindi essere assunte come i due parametri – il primo superabile, il secondo insuperabile – sui quali possiamo fondare due grandi divisioni tra i diritti fondamentali: quella tra diritti della personalità e diritti di cittadinanza spettanti rispettivamente a tutti o ai soli cittadini, e quella tra diritti primari (o sostanziali) e diritti secondari (o strumentali o di autonomia) spettanti rispettivamente a tutti o alle sole persone capaci d’agire. Incrociando le due distinzioni otteniamo quattro classi di diritti: i diritti umani che sono i diritti primari delle persone, spettanti indistintamente a tutti gli esseri umani, come per esempio (in base alla costituzione italiana) il diritto alla vita e all’integrità della persona, la libertà personale, la libertà di coscienza e di manifestazione del pensiero, il diritto alla salute e quello all’istruzione; i diritti pubblici che sono i diritti primari riconosciuti ai soli cittadini, come (sempre in base alla costituzione italiana), il diritto di residenza e circolazione nel territorio nazionale, i diritti di riunione e associazione, il diritto al lavoro e quello alla sussistenza e previdenza di chi è inabile al lavoro; i diritti civili che sono i diritti secondari ascritti a tutte le persone umane capaci d’agire, come la potestà negoziale, la libertà contrattuale, la libertà di scegliere e cambiare lavoro, la libertà imprenditoriale, il diritto di agire in giudizio e, in generale, tutti i diritti potestativi nei quali si manifesta l’autonomia privata e sui quali si fonda il mercato; i diritti politici, che sono infine i diritti secondari riservati ai soli cittadini capaci d’agire, come il diritto di voto, l’elettorato passivo, il diritto di accedere ai pubblici uffici e, in generale, tutti i diritti potestativi nei quali si manifesta l’autonomia politica e sui quali si fonda la rappresentanza e la democrazia politica. [3]

Sia la nostra definizione che la tipologia dei diritti fondamentali operata in base ad essa hanno tuttavia un valore teorico del tutto indipendente dai concreti sistemi giuridici e perfino dall’esperienza costituzionale moderna. Qualunque sia l’ordinamento considerato, sono infatti alla loro stregua «diritti fondamentali» 
—a seconda dei casi umani, pubblici, civili e politici— tutti e solo quelli in esso attribuiti universalmente a classi di soggetti determinate dall’identità di «persona» o di «cittadino» o di «capace d’agire». In questo senso, almeno in occidente, diritti fondamentali sono sempre esistiti, fin dal diritto romano, pur se per la maggior parte limitati a classi assai ristrette di soggetti. [4] Ma sono sempre state queste tre identità —di persona, di cittadino e di capace d’agire— a fornire, pur nella straordinaria varietà delle discriminazioni di sesso, di etnia, di religione, di censo, di classe, di istruzione e di nazionalità con cui volta a volta esse sono state definite, i parametri dell’inclusione e dell’esclusione degli esseri umani tra i titolari dei diritti e quindi della loro uguaglianza e disuguaglianza.

È avvenuto così che nell’antichità le disuguaglianze si espressero anzitutto tramite la negazione della stessa identità di persona (agli schiavi, concepiti come cose) e solo secondariamente (con le svariate inabilitazioni imposte alle donne, agli eretici, agli apostati e agli ebrei) attraverso la negazione della capacità d’agire o della cittadinanza. Successivamente, affermatosi il valore della persona umana, le disuguaglianze sono state difese solo eccezionalmente con la negazione dell’identità di persona e della capacità giuridica – si pensi alle popolazioni indigene vittime delle prime colonizzazioni europee e alla schiavitù negli Stati Uniti ancora nel secolo scorso – mentre si sono mantenute soprattutto con le restrizioni della capacità d’agire in base al sesso, all’istruzione e al reddito: soggetti optimo iure, anche dopo il 1789, sono così a lungo rimasti solo i soggetti maschi, bianchi, adulti, cittadini e possidenti.[5] Oggi, dopo che anche la capacità d’agire è stata estesa a tutti, con le sole eccezioni dei minori e degli infermi di mente, la disuguaglianza passa essenzialmente attraverso lo stampo statalistico della cittadinanza, la cui definizione in base ad appartenenze nazionali e territoriali rappresenta l’ultima grande limitazione normativa del principio di uguaglianza giuridica. Ciò che è insomma cambiato con il progresso del diritto, a parte le garanzie offerte da codificazioni e costituzioni, non sono i criteri – personalità, capacità d’agire e cittadinanza – sulla cui base sono attribuiti i diritti fondamentali, ma unicamente il loro significato, dapprima ristretto e fortemente discriminatorio, poi sempre più esteso e tendenzialmente universale.

2. Quattro tesi in tema di diritti fondamentali

La definizione di «diritti fondamentali» qui proposta è in grado di fondare quattro tesi, tutte a mio parere essenziali ad una teoria della democrazia costituzionale.

La prima tesi riguarda la radicale differenza di struttura tra i diritti fondamentali e i diritti patrimoniali, spettanti gli uni a intere classi di soggetti e gli altri a ciascuno dei loro titolari con esclusione di tutti gli altri. Questa differenza è stata occultata, nella nostra tradizione giuridica, dall’uso di un’unica parola – «diritto soggettivo» – per designare situazioni soggettive tra loro eterogenee e sotto più aspetti opposte: diritti inclusivi e diritti esclusivi, diritti universali e diritti singolari, diritti indisponibili e diritti disponibili. E si spiega con le diverse ascendenze teoriche delle due categorie di diritti: la filosofia giusnaturalistica e contrattualistica dei secoli XVII e XVIII per quanto riguarda i diritti fondamentali; la tradizione civilistica e romanistica per quanto riguarda i diritti patrimoniali.

La seconda tesi è che i diritti fondamentali, corrispondendo ad interessi e ad aspettative di tutti, formano il fondamento e il parametro dell’uguaglianza giuridica e perciò di quella che chiamerò la dimensione «sostanziale» della democrazia, pregiudiziale rispetto alla sua stessa dimensione politica o «formale» fondata invece sui poteri della maggioranza. Questa dimensione altro non è che l’insieme delle garanzie assicurate dal paradigma dello stato di diritto: il quale, modellato alle origini dello stato moderno sulla tutela dei soli diritti di libertà e proprietà, può ben essere allargato – dopo il riconoscimento costituzionale come «diritti» di aspettative vitali come la salute, l’istruzione e la sussistenza – anche allo «stato sociale», sviluppatosi di fatto in questo secolo senza le forme e le garanzie dello stato di diritto, ma solo in quelle della mediazione politica ed oggi, anche per questo, in crisi.

La terza tesi riguarda l’odierna natura sovra-nazionale di gran parte dei diritti fondamentali. Si è visto come la nostra definizione fornisce i criteri di una tipologia di tali diritti entro la quale i «diritti di cittadinanza» formano soltanto una sottoclasse. Molti di questi diritti sono infatti conferiti dalle stesse costituzioni statali indipendentemente dalla cittadinanza. Soprattutto, poi, dopo la loro formulazione in convenzioni internazionali recepite dalle costituzioni statali o comunque sottoscritte dagli Stati, essi sono divenuti diritti sovrastatali: limiti esterni e non più solo interni ai pubblici poteri e basi normative di una democrazia internazionale ben lungi dall’essere attuata ma da essi normativamente prefigurata.

Infine la quarta tesi, forse la più importante, riguarda i rapporti tra i diritti e le loro garanzie. Non diversamente dagli altri diritti, i diritti fondamentali consistono in aspettative negative o positive cui corrispondono obblighi (di prestazioni) o divieti (di lesione). Convengo di chiamare garanzie primarie questi obblighi e questi divieti, e garanzie secondarie gli obblighi di riparare o sanzionare giudizialmente le lesioni dei diritti, ossia le violazioni delle loro garanzie primarie. Ma sia gli obblighi e i divieti del primo tipo che gli obblighi del secondo, pur essendo implicati logicamente dallo statuto normativo dei diritti, di fatto non solo sono spesso violati ma talora non sono neppure normativamente stabiliti. Contro la tesi della confusione tra i diritti e le loro garanzie, che vuol dire negare l’esistenza dei primi in assenza delle seconde, sosterrò la tesi della loro distinzione, in forza della quale l’assenza delle relative garanzie equivale invece a un’inadempienza dei diritti positivamente stipulati e consiste perciò in un’indebita lacuna che è compito della legislazione colmare.

Queste quattro tesi contraddicono, sotto altrettanti profili, la concezione corrente dei diritti fondamentali quale risulta dai suoi molti ed eterogenei apporti ed ascendenze. Può essere utile, a tal fine, ricordare quattro classici luoghi nei quali vengono sostenute le tesi che saranno qui confutate.

Il primo passo è il capitolo II del Secondo trattato sul Governo di John Locke del 1690, ove Locke identifica nella vita, nella libertà e nella proprietà i tre diritti fondamentali la cui tutela e garanzia giustifica il contratto sociale [6]: un’associazione, questa tra libertà e proprietà, che sarà ripresa dall’articolo 2 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: «Il fine di ogni associazione politica è la difesa dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà e la resistenza all’oppressione».

Il secondo passo è del giuspubblicista tedesco del secolo scorso Karl Friedrich von Gerber, che in una monografia del 1852 sui «diritti pubblici» affermò che questi altro non sono che «una serie di effetti di diritto pubblico», radicati «non tanto nella sfera giuridica del singolo, quanto piuttosto nell’esistenza astratta della legge» [7]: precisamente, essi sono «elementi organici costitutivi di uno stato concreto» e perciò, riguardati dal punto di vista degli individui, «effetti riflessi» del potere statale [8]. Si tratta di una tesi che sarà ripresa dall’intera giuspubblicistica di fine ottocento —da Laband a Jellinek, da Santi Romano a Vittorio Emanuele Orlando— [9]  e che contraddice non solo il paradigma giusnaturalistico dei diritti fondamentali quale prius logico e assiologico, fondante e non fondato, rispetto all’artificio statale, ma anche il paradigma costituzionale, che pur positivizzando tali diritti li ha configurati come vincoli e limiti all’insieme dei pubblici poteri, fondanti della loro legittimità e non già essi stessi da questi legittimati.

Il terzo passo non è di un giurista né di un filosofo ma di un sociologo, Thomas Marshall, che nel suo classico saggio del 1950 Citizenship and Social Class, riscoperto da qualche anno dalla scienza politologica come la dottrina più accreditata dei diritti fondamentali, distingue l’insieme di tali diritti in tre classi: i diritti civili, i diritti politici e i diritti sociali, tutti concepiti come diritti non della persona o della personalità, ma del cittadino o di cittadinanza. «La cittadinanza», scrive Marshall, «è uno status che viene conferito a coloro che sono membri a pieno diritto di una comunità»; e «conferiti da tale status», egli aggiunge, sono i diritti e i doveri sui quali si basa l’uguaglianza di «tutti quelli che lo posseggono». [10]

Il quarto passo è di Hans Kelsen, che configura il diritto soggettivo come «semplice riflesso di un dovere giuridico» [11] ed afferma: «avere un diritto significa avere la capacità giuridica di partecipare alla creazione di una norma individuale, di quella norma individuale ad opera della quale viene ordinata una sanzione contro un individuo che – secondo la pronuncia del tribunale – ha commesso l’illecito, ha violato il suo dovere». [12] Si tratta di una tesi oggi largamente diffusa, che si risolve nell’identificazione dei diritti fondamentali con le loro garanzie e in particolare con quelle che ho chiamato le loro «garanzie secondarie», ossia con la loro azionabilità in giudizio: «un diritto formalmente riconosciuto ma non justiciable – e cioè non applicato o non applicabile dagli organi giudiziari con procedure definite – è tout court», afferma per esempio Danilo Zolo, «un diritto inesistente». [13]

Svilupperò dunque le mie quattro tesi prendendo le mosse da un’analisi critica di questi quattro passi. In base ad esse sarà possibile mostrare come la costituzionalizzazione dei diritti fondamentali ad opera di costituzioni rigide ha prodotto in questo secolo un profondo mutamento di paradigma del diritto positivo rispetto a quello classico del paleo-positivismo giuridico.

3. Diritti fondamentali e diritti patrimoniali

Cominciamo dalla prima delle quattro questioni qui enunciate. 
Che cosa sono i diritti fondamentali? 
La vita, la libertà e la proprietà, risponde Locke nel passo sopra richiamato; la libertà, la proprietà e la resistenza all’oppressione, afferma l’articolo 2 della Dichiarazione del 1789, che nell’articolo 17 ribadisce il carattere di «diritto sacro e inviolabile» della proprietà. Analogamente Marshall, pur avendo allargato il catalogo dei diritti fondamentali, include nella medesima classe —quella dei diritti civili— sia la libertà che la proprietà. [14]

La commistione in una medesima categoria di figure tra loro così eterogenee come i diritti di libertà da un lato e il diritto di proprietà dall’altro, frutto della giustapposizione delle dottrine giusnaturalistiche e della tradizione civilistica e romanistica, è dunque un’operazione originaria, compiuta dal primo liberalismo, che ha condizionato fino ai giorni nostri l’intera teorica dei diritti e con essa dello stato di diritto. 
Alla sua base c’è un equivoco dovuto al carattere polisenso del termine di «diritto di proprietà»: con il quale s’intende —in Locke come in Marshall— al tempo stesso il diritto di divenire proprietario e di disporre dei propri diritti di proprietà, che è un aspetto della capacità giuridica e della capacità d’agire riconducibile senz’altro alla classe dei diritti civili, e il concreto diritto di proprietà su questo o quel bene. Una confusione, come è facile capire, che oltre ad essere fonte di un grave equivoco teorico è stata responsabile di due opposte incomprensioni e di due conseguenti operazioni politiche: la valorizzazione nel pensiero liberale della proprietà come diritto dello stesso tipo della libertà e, all’opposto, la svalorizzazione nel pensiero marxista delle libertà in quanto screditate come diritti «borghesi» al pari della proprietà.

Ora, se sottoponiamo ad analisi queste due figure —«libertà», e «proprietà», o più in generale «diritti fondamentali» e «diritti patrimoniali»— scopriamo che tra di esse esistono ben quattro differenze strutturali, idonee a generare entro il dominio dei diritti, se vogliamo continuare ad usare una medesima parola per designare situazioni così diverse, una grande divisione: quella, appunto, tra diritti fondamentali e diritti patrimoniali. Si tratta di quattro differenze che prescindono dal contenuto delle due classi di diritti e che riguardano unicamente la loro forma o struttura.

La prima differenza consiste nel fatto che i diritti fondamentali —i diritti di libertà come il diritto alla vita, i diritti civili, inclusi i diritti di acquisire e disporre dei beni di proprietà, come i diritti politici e i diritti sociali— sono diritti «universali» (omnium), nel senso logico della quantificazione universale della classe dei soggetti che ne sono titolari; laddove i diritti patrimoniali —dal diritto di proprietà agli altri diritti reali e ai diritti di credito— sono diritti singolari (singoli) nel senso parimenti logico che per ciascuno di essi esiste un titolare determinato (o più contitolari, come nella comproprietà) con esclusione di tutti gli altri. I primi sono quindi riconosciuti a tutti i loro titolari in egual forma e misura; i secondi appartengono a ciascuno in maniera diversa, sia per quantità che per qualità. Gli uni sono inclusivi e formano la base dell’uguaglianza giuridica, che come dice l’articolo I della Dichiarazione dell’89 è per l’appunto un égalité en droits. Gli altri sono esclusivi, ossia excludendi alias e sono quindi alla base della disuguaglianza giuridica, che è anch’essa una inégalité en droits. Tutti siamo parimenti liberi di manifestare il nostro pensiero, parimenti immuni da arresti arbitrari, parimenti autonomi nel disporre dei beni di nostra proprietà e parimenti titolari dei diritti alla salute e all’istruzione. Ma ciascuno di noi è proprietario o creditore di cose diverse e in misura diversa: io sono proprietario di questo mio vestito o della casa in cui abito, ossia di oggetti diversi da quelli di cui altri e non io sono proprietari.

Si risolvono in tal modo molte apparenti aporie. Quando si parla del «diritto di proprietà» come di un «diritto di cittadinanza» o «civile», al pari dei diritti di libertà, si allude ellitticamente al diritto di divenire proprietari connesso (al pari del diritto di divenire debitori, o creditori, o imprenditori o lavoratori dipendenti) alla capacità giuridica, nonché al diritto di disporre dei beni di proprietà connesso (al pari del diritto di disporre di un credito o di obbligarsi a una prestazione) alla capacità d’agire: cioè a diritti civili che sono senz’altro fondamentali perché spettanti a tutti, nel primo caso in quanto persone e nel secondo in quanto capaci d’agire. Ma questi diritti sono del tutto diversi dai diritti reali su beni determinati, grazie ad essi acquisiti o alienati; così come diverso dal diritto fondamentale d’immunità contro lesioni altrui è il diritto patrimoniale di credito al risarcimento di un danno concretamente subito. Per altro verso, se si assume che sono fondamentali tutti i diritti universali, cioè riconosciuti a tutti in quanto persone o cittadini, rientrano tra essi anche i diritti sociali, la cui universalità non è esclusa, come ritengono per esempio Jack Barbalet e Danilo Zolo, dal fatto che sono inevitabilmente diverse e a contenuto determinato le concrete prestazioni che, a seconda delle proprie condizioni economiche, ciascuno ha in base ad essi diritto di pretendere [15]: inevitabilmente diversi sono anche i pensieri che ciascuno può esprimere in base alla libertà di manifestazione del pensiero.

La seconda differenza tra diritti fondamentali e diritti patrimoniali è connessa alla prima ed è forse ancor più rilevante. I diritti fondamentali sono diritti indisponibili, inalienabili, inviolabili, intransigibili, personalissimi. I diritti patrimoniali sono invece diritti disponibili, per loro natura —dalla proprietà privata ai diritti di credito— negoziabili e alienabili. Questi si accumulano, quelli restano invariati. Non si può divenire giuridicamente più liberi, mentre si può divenire giuridicamente più ricchi. Avendo un oggetto consistente in un bene patrimoniale, i diritti patrimoniali si acquistano, si scambiano, si vendono. Le libertà, invece, non si scambiano né si accumulano. Gli uni sono alterati e magari estinti dal loro esercizio: gli altri restano invariati, qualunque sia il loro esercizio. Si consuma, o si vende, o si permuta o si dà in locazione un bene di proprietà. Non si consumano invece, e neppure possono vendersi il diritto alla vita, o i diritti all’integrità personale, o i diritti civili e politici.

L’indisponibilità dei diritti fondamentali equivale perciò alla loro sottrazione così alle decisioni della politica come al mercato. In forza della loro indisponibilità attiva, essi non sono alienabili dal soggetto che ne è titolare: non posso vendere la mia libertà personale, o il mio diritto di voto e meno che mai la mia stessa autonomia contrattuale. In forza della loro indisponibilità passiva, essi non sono espropriabili o limitabili da altri soggetti, a cominciare dallo Stato: nessuna maggioranza, per quanto schiacciante, può privarmi della vita, o della libertà o dei miei diritti di autonomia. [16] Si tratta evidentemente di una differenza connessa alla prima, ossia al carattere singolare dei diritti patrimoniali e a quello universale di quelli fondamentali. I diritti patrimoniali in tanto sono singolari in quanto possono formare oggetto di scambio nella sfera del mercato oltre che —per esempio nell’ordinamento italiano in base al 3° comma dell’articolo 42 della costituzione— di espropriazione per pubblica utilità. I diritti fondamentali, invece, in tanto sono universali in quanto sono esclusi da tale sfera non potendo nessuno privarsene, o esserne privato o menomato, senza con ciò cessare di essere uguali o universali e, quindi, fondamentali.

Ne risulta convalidata la nostra nozione formale di diritto fondamentale: la vita, la libertà personale o il diritto di voto sono fondamentali non tanto perché corrispondono a valori o interessi vitali, ma perché universali e indisponibili. Tanto è vero che, ove ne fosse consentita la disposizione —per esempio ammettendo la schiavitù, o comunque l’alienazione delle libertà, o magari della vita, o del voto— sarebbero anch’essi (degradati a) diritti patrimoniali. Per questo, con paradosso apparente, i diritti fondamentali sono un limite non solo ai pubblici poteri ma anche all’autonomia dei loro titolari: neppure volontariamente si può alienare la propria vita o la propria libertà. Ma si tratta di un limite, se vogliamo paternalistico [17], logicamente insuperabile: il paradosso, infatti, si avrebbe qualora esso mancasse e i diritti fondamentali fossero alienabili. Giacché in tal caso anche la libertà di alienare la propria libertà di alienare sarebbe alienabile, con un duplice risultato: che tutti i diritti fondamentali cesserebbero di essere universali, cioè spettanti a tutti in egual forma e misura; e che la libertà di alienare tutti i propri diritti —dal diritto alla vita ai diritti civili e politici— comporterebbe il trionfo della legge del più forte, la fine di tutte le libertà e dello stesso mercato e, in ultima analisi, la negazione del diritto e la regressione allo stato di natura.

La terza differenza è a sua volta una conseguenza della seconda e riguarda la struttura giuridica dei diritti. I diritti patrimoniali, si è appena visto, sono disponibili. Contrariamente ai diritti fondamentali, essi sono quindi soggetti a vicende, ossia destinati ad essere costituiti, modificati o estinti da atti giuridici. Ciò vuol dire che essi hanno titolo in atti di tipo negoziale o, comunque, in provvedimenti singolari: contratti, donazioni, testamenti, sentenze, provvedimenti amministrativi, da cui vengono prodotti, o modificati o estinti. Viceversa i diritti fondamentali hanno titolo immediatamente nella legge, nel senso che sono tutti ex lege, ossia conferiti tramite regole generali di rango di solito costituzionale.

Più semplicemente, mentre i diritti fondamentali sono norme, i diritti patrimoniali sono predisposti da norme. I primi s’identificano con le medesime norme o regole generali che li attribuiscono: la libertà di manifestazione del pensiero, per esempio, è in Italia disposta dall’articolo 21 della costituzione, e non è altro che la norma da questo espressa. [18] I secondi, invece, sono sempre situazioni singolari, disposte da atti a loro volta singolari e predisposte dalle norme che li prevedono quali loro effetti: la proprietà di questo mio vestito, per esempio, non è disposta, ma predisposta dalle norme del codice civile quale effetto disposto dalla compravendita da esse disciplinata. Possiamo chiamare norme tetiche le norme del primo tipo, le quali immediatamente dispongono le situazioni con esse espresse: vi rientrano non solo le norme che ascrivono diritti fondamentali ma anche quelle che impongono obblighi o divieti, come le norme del codice penale e quelle della segnaletica stradale. 
Chiamerò invece norme ipotetiche le norme del secondo tipo, le quali non ascrivono né impongono immediatamente nulla, ma semplicemente predispongono situazioni giuridiche quali effetti degli atti da esse previsti: vi rientrano non solo le norme del codice civile che predispongono diritti patrimoniali, ma anche quelle che predispongono obbligazioni civili quali effetti di atti negoziali o contrattuali. Le prime esprimono la dimensione nomostatica dell’ordinamento; le seconde appartengono alla sua dimensione nomodinamica. Tanto è vero che mentre i diritti patrimoniali consistono sempre in situazioni di potere il cui esercizio consiste in atti di disposizione a loro volta produttivi di diritti e di obblighi nella sfera giuridica propria o altrui (contratti, testamenti, donazioni e simili), l’esercizio dei diritti di libertà consiste sempre in meri comportamenti, siccome tali privi di effetti giuridici nella sfera di altri soggetti.
C’è infine una quarta differenza, anch’essa formale e non meno importante per comprendere la struttura dello stato costituzionale di diritto. Mentre i diritti patrimoniali sono per così dire orizzontali, i diritti fondamentali sono per così dire verticali. In un duplice senso. Innanzitutto nel senso che i rapporti giuridici intrattenuti dai titolari di diritti patrimoniali sono rapporti intersoggettivi di tipo civilistico – contrattuale, successorio o simili – mentre i rapporti intrattenuti dai titolari di diritti fondamentali sono rapporti di tipo pubblicistico, ossia dell’individuo nei confronti (solo o anche) dello Stato. In secondo luogo, e soprattutto, nel senso che mentre ai diritti patrimoniali corrispondono o il generico divieto di non lesione nel caso dei diritti reali oppure obbligazioni debitorie nel caso dei diritti personali o di credito, ai diritti fondamentali, ove siano espressi da norme costituzionali, corrispondono divieti ed obblighi a carico dello Stato, la cui violazione è causa di invalidità delle leggi e degli altri provvedimenti pubblici e la cui osservanza è al contrario condizione di legittimità dei pubblici poteri. «La dichiarazione dei diritti contiene le obbligazioni dei legislatori», afferma l’articolo l della sezione «doveri» della costituzione francese dell’anno III. Ed è precisamente in questo insieme di obbligazioni, ossia di limiti e di vincoli posti a tutela dei diritti fondamentali, che risiede la sfera pubblica dello stato costituzionale di diritto – in opposizione alla sfera privata dei rapporti patrimoniali – e quella che all’inizio ho chiamato la dimensione «sostanziale» della democrazia.

4. Diritti fondamentali e democrazia sostanziale

Vengo così alla seconda tesi che qui intendo sviluppare. In quale senso i diritti fondamentali esprimono la dimensione che ho chiamato «sostanziale» della democrazia, in opposizione a quella «politica» o «formale»? E in che senso essi incorporano valori pregiudiziali e più importanti rispetto a quelli della democrazia politica? In quale senso, quindi, sono frutto di una loro incomprensione, che equivale di fatto alla loro negazione quali vincoli costituzionali ai pubblici poteri, la tesi di Gerber che li qualifica come «effetti riflessi» e quelle di Jellinek e di Santi Romano che li considerano come il prodotto di un’auto-obbligazione o di un’auto-limitazione dello Stato, ossia come concessioni potestative sempre revocabili o limitabili?

La risposta a queste domande, pur investendo il piano dei contenuti dei diritti fondamentali, ossia la natura dei bisogni da essi protetti, è in gran parte conseguente all’analisi che precede sui loro caratteri strutturali: l’universalità, l’uguaglianza, l’indisponibilità, il loro conferimento ex lege e il loro rango di solito costituzionale e perciò sopraordinato ai pubblici poteri quali parametri di validità del loro esercizio.

Proprio in forza di questi caratteri i diritti fondamentali vengono infatti a configurarsi, diversamente dagli altri diritti, come altrettanti vincoli sostanziali normativamente imposti – a garanzia di interessi e bisogni di tutti stipulati come vitali, ovvero appunto «fondamentali» (la vita, la libertà, la sopravvivenza) – così alle decisioni di maggioranza come al libero mercato. La forma universale, inalienabile, indisponibile e costituzionale di questi diritti si rivela in altre parole come la tecnica – o garanzia – apprestata a tutela di ciò che nel patto costituzionale viene ritenuto «fondamentale»: ossia di quei bisogni sostanziali la cui soddisfazione è condizione della convivenza civile e insieme causa o ragione sociale di quell’artificio che è lo Stato. Alla domanda «che cosa sono i diritti fondamentali?», se sul piano della loro forma si può rispondere a priori, elencando i caratteri strutturali che ho prima illustrato, sul piano dei contenuti – ossia di quali beni sono o devono essere protetti come fondamentali – si può rispondere solo a posteriori: allorché si vuol garantire un bisogno o un interesse come fondamentali, li si sottrae sia al mercato che alle decisioni di maggioranza. Nessun contratto, si è detto, può disporre della vita. Nessuna maggioranza politica può disporre delle libertà e degli altri diritti fondamentali: decidere che una persona sia condannata senza prove, o privata della libertà personale, o dei diritti civili o politici o, ancora, lasciata morire senza cure o nell’indigenza.

Di qui la connotazione «sostanziale» impressa dai diritti fondamentali allo stato di diritto e alla democrazia costituzionale. Sono infatti per l’appunto «sostanziali», cioè relative non alla «forma» (al chi e al come) ma alla «sostanza» o «contenuto» (al che cosa) delle decisioni (ossia al che cosa non è lecito decidere o non decidere), le norme che ascrivono – al di là e magari contro le contingenti volontà delle maggioranze – i diritti fondamentali: sia quelli di libertà che impongono divieti, sia quelli sociali che impongono obblighi al legislatore. Ne risulta smentita la concezione corrente della democrazia quale sistema politico fondato su di una serie di regole che assicurano l’onnipotenza della maggioranza. Se le regole sulla rappresentanza e sul principio di maggioranza sono norme formali in ordine a ciò che dalla maggioranza è decidibile i diritti fondamentali circoscrivono quella che possiamo chiamare la sfera dell’indecidibile: del non decidibile che, ossia dei divieti corrispondenti ai diritti di libertà, e del non decidibile che non, ossia degli obblighi pubblici corrispondenti ai diritti sociali.

Questa identificazione del paradigma dello «stato di diritto» con la dimensione «sostanziale» della democrazia può certo apparire singolare, se non altro per i molteplici usi ideologici che hanno in passato logorato l’espressione «democrazia sostanziale». [19] E tuttavia è proprio con la sostanza delle decisioni che hanno a che fare gli obblighi e i divieti imposti alla legislazione dai diritti fondamentali stipulati nelle norme sulla produzione che possiamo perciò chiamare «sostanziali» (quelle, per esempio, contenute nella prima parte della costituzione italiana): le quali, a differenza delle norme che ho chiamato «formali» (quelle contenute nella seconda parte) e che dettano le condizioni del loro vigore, stabiliscono le condizioni della loro validità. Se infatti le norme formali sul vigore s’identificano, nello stato democratico di diritto, con le regole della democrazia formale o politica in quanto disciplinano le fornire delle decisioni che assicurano l’espressione della volontà della maggioranza, le norme sostanziali sulla validità, vincolando a pena d’invalidità la sostanza (o il significato) delle medesime decisioni al rispetto dei diritti fondamentali e degli altri principi assiologici in esse stabiliti, corrispondono alle regole con cui ben possiamo caratterizzare la democrazia sostanziale.

Il paradigma della democrazia costituzionale non è altro che la soggezione del diritto al diritto generata da questa dissociazione tra vigore e validità, tra mera legalità e stretta legalità, tra forma e sostanza, tra legittimazione formale e legittimazione sostanziale o, se si vuole, tra le weberiane «razionalità formale» e «razionalità materiale». In forza del riconoscimento di questa dissociazione, viene meno quella che Letizia Gianformaggio ha chiamato la «presunzione di regolarità degli atti compiuti dal potere» negli ordinamenti positivi, [20] tanto più se politicamente democratici: giacché il principio formale della democrazia politica, relativo al chi decide e al come si decide – in altre parole il principio della sovranità popolare e la regola della maggioranza – si subordina ai principi sostanziali espressi dai diritti fondamentali e relativi a ciò che non è lecito decidere e a ciò che non è lecito non decidere.

I diritti fondamentali sanciti nelle costituzioni —dai diritti di libertà ai diritti sociali— operano in tal modo come fonti d’invalidazione e di delegittimazione, oltre che di legittimazione. Per questo, la loro configurazione come «elementi organici dello Stato» ed «effetti riflessi» del potere statale nel passo di Gerber qui richiamato, e più in generale nella dottrina dei diritti pubblici elaborata dalla giuspubblicistica tedesca e italiana del secolo scorso, rappresenta un capovolgimento del loro significato ed esprime una profonda incomprensione del costituzionalismo e del modello dello stato costituzionale di diritto. Giacché questi diritti esistono, è vero, come situazioni di diritto positivo in quanto sono stabiliti nelle costituzioni. Ma proprio per questo essi rappresentano non già un’autolimitazione sempre revocabile del potere sovrano, ma al contrario un sistema di limiti e di vincoli ad esso sopraordinato; non dunque «diritti dello Stato» o «per lo Stato» o «nell’interesse dello Stato», come scrivevano Gerber e Jellinek, ma diritti verso e, se necessario, contro lo Stato, ossia contro i poteri pubblici sia pure democratici o di maggioranza. Di più: il fatto che i diritti fondamentali, come si è mostrato nel paragrafo che precede, non siano predisposti da norme quali effetti di atti precettivi singolari, ma siano essi stessi norme, retroagisce sulla natura del rapporto tra i soggetti e la costituzione. Ne consegue infatti che di queste norme, ossia della parte sostanziale della costituzione, sono per così dire «titolari», oltre che destinatari, tutti i soggetti cui i diritti fondamentali sono con esse ascritti. Di qui la loro non modificabilità a maggioranza. Quelle norme sono in via di principio dotate di rigidità assoluta perché altro non sono che gli stessi diritti fondamentali stabiliti come inviolabili, sicché tutti e ciascuno ne sono titolari.

Sotto questo aspetto possiamo ben dire che il paradigma della democrazia costituzionale è figlio della filosofia contrattualistica. In un duplice senso. Nel senso che le costituzioni altro non sono che contratti sociali in forma scritta e positiva: patti fondativi della convivenza civile generati storicamente dai movimenti rivoluzionari con cui sono state di volta in volta imposte ai pubblici poteri, altrimenti assoluti, quali fonti della loro legittimità. E nel senso che l’idea del contratto sociale è una metafora della democrazia: della democrazia politica, dato che allude al consenso dei contraenti e vale quindi a fondare, per la prima volta nella storia, una legittimazione dal basso anziché dall’alto del potere politico; ma anche una metafora della democrazia sostanziale, dato che questo contratto non è un vuoto accordo, ma ha come clausole e insieme come causa e ragione precisamente la tutela dei diritti fondamentali, la cui violazione da parte del sovrano legittima la rottura del patto e l’esercizio del diritto di resistenza. [21]

Si rivelano in tal modo le ascendenze teoriche dei diritti fondamentali ben diverse da quelle civilistiche e romanistiche dei diritti patrimoniali. Se è vero che i diritti fondamentali altro non sono che il contenuto del patto costituente, dobbiamo riconoscere a Thomas Hobbes, teorico dell’assolutismo, l’invenzione del loro paradigma. Questo paradigma è quello espresso dal diritto alla vita quale diritto inviolabile di tutti, dalla cui tutela dipende la giustificazione del superamento del bellum omnium dello stato di natura e la costruzione di «quel gran Leviatano, chiamato uno Stato (in latino civitas), il quale non è che un uomo artificiale, benché di maggiore statura e forza del naturale, per la protezione e difesa del quale fu concepito». [22] Nasce insomma, con Hobbes, la configurazione dello Stato come sfera pubblica istituita a garanzia della pace e, insieme, dei diritti fondamentali.

Questa sfera pubblica e questo ruolo garantista dello Stato, limitati da Hobbes alla sola tutela del diritto alla vita, si sono poi estesi storicamente, allargandosi ad altri diritti volta a volta affermati come fondamentali: ai diritti civili e di libertà, ad opera del pensiero illuminista e delle rivoluzioni liberali da cui nacquero le prime dichiarazioni dei diritti e le costituzioni ottocentesche; poi ai diritti politici, affermatisi con il progressivo allargamento del suffragio e della capacità politica; poi, ancora, il diritto di sciopero e i diritti sociali nelle costituzioni di questo secolo, fino ai nuovi diritti alla pace, all’ambiente e all’informazione oggi rivendicati e ancora non tutti costituzionalizzati. Sempre, i diritti fondamentali si affermano come leggi del più debole in alternativa alla legge del più forte che vigeva e vigerebbe in loro assenza.

La storia del costituzionalismo è la storia di questo progressivo allargamento della sfera pubblica dei diritti. [23] Una storia non teorica, ma sociale e politica, dato che nessuno di questi diritti è mai calato dall’alto ma tutti sono stati conquistati da rotture istituzionali: le grandi rivoluzioni americana e francese, poi i moti ottocenteschi per gli statuti, infine le lotte operaie, femministe, pacifiste ed ecologiste di questo secolo. Tutte le diverse generazioni di diritti, possiamo ben dire, corrispondono ad altrettante generazioni di movimenti rivoluzionari: dalle rivoluzioni liberali contro l’assolutismo regio dei secoli scorsi, fino alle costituzioni di questo secolo, inclusa quella italiana del 1948, nata dalla Resistenza e dal ripudio del fascismo quale patto fondativo della democrazia costituzionale. Di questa storia fa parte anche l’estensione, sia pure embrionale, del paradigma costituzionalistico al diritto internazionale. Anche nella storia delle relazioni internazionali si è infatti prodotta, con l’istituzione dell’Onu e le carte internazionali sui diritti umani, una rottura epocale: la rottura di quell’ancien régime internazionale nato tre secoli fa dalla pace di Westfalia, fondato sul principio della sovranità assoluta degli Stati e giunto al suo fallimento con la tragedia delle due guerre mondiali.

5. Diritti fondamentali e cittadinanza

È questa internazionalizzazione dei diritti fondamentali la terza tesi all’inizio indicata su cui ora intendo soffermarmi. Dopo la nascita dell’Onu, e grazie all’approvazione di carte e convenzioni internazionali sui diritti umani, questi diritti non sono più «fondamentali» solo all’interno degli Stati nelle cui costituzioni sono formulati, ma sono diritti sovra-statali cui gli stati sono vincolati e subordinati anche al livello del diritto internazionale; non più diritti di cittadinanza, ma diritti delle persone indipendentemente dalle loro diverse cittadinanze.

Eppure proprio questo mutamento rischia di essere misconosciuto da una parte rilevante dell’odierna filosofia politica. Due anni dopo la Dichiarazione universale dei diritti, Thomas Marshall, nel saggio qui ricordato Citizenship and Social Class, ha appiattito sulla cittadinanza tutto il variegato insieme dei diritti fondamentali, da lui distinti nelle tre classi dei diritti civili, dei diritti politici e dei diritti sociali tutti chiamati, indistintamente, diritti di cittadinanza. Una simile tesi, che contraddice tutte le costituzioni moderne —non solo la Dichiarazione universale dei diritti del 1948, ma anche la maggior parte delle costituzioni statali che conferiscono quasi tutti questi diritti alle «persone» e non ai soli «cittadini»— è stata in questi ultimi anni rilanciata [24], proprio quando i nostri benestanti paesi e le nostre ricche cittadinanze hanno cominciato ad essere minacciate dal fenomeno delle immigrazioni di massa. Nel momento in cui si è trattato di prendere sul serio i diritti fondamentali, ne è stata insomma negata l’universalità, condizionandone l’intero catalogo alla cittadinanza indipendentemente dal fatto che quasi tutti, eccettuati i diritti politici e taluni diritti sociali, sono attribuiti dal diritto positivo —sia statale che internazionale— non già ai soli cittadini ma a tutte le persone.

Alla base di questa operazione c’è una deformazione del concetto di «cittadinanza»: inteso da Marshall non già come uno specifico status soggettivo in aggiunta a quello della «personalità», ma come il presupposto di tutti i diritti fondamentali, inclusi quelli della persona, a cominciare dai «diritti civili» che in tutti gli ordinamenti evoluti non spettano, a dispetto del nome, ai soggetti in quanto cittadini ma unicamente in quanto persone. [25] La cittadinanza viene così a sostituirsi all’uguaglianza quale categoria basilare della teoria della giustizia e della democrazia. Per Marshall questa sostituzione e l’ancoraggio alla cittadinanza dell’intero insieme dei diritti fondamentali erano forse dettati dalla volontà di fornire un più solido fondamento teorico alle politiche di Welfare. Il suo scopo —e questo ne è indubbiamente l’aspetto progressivo— era quello di offrire, attraverso tale categoria, una base teorica ai diritti sociali in vista del superamento in senso socialdemocratico, che proprio in quegli anni si veniva realizzando nei paesi di capitalismo avanzato, dei vecchi modelli liberal-democratici. Per un verso, quindi, la categoria dell’uguaglianza veniva abbandonata proprio nel momento in cui la qualità di persona e la titolarità universale dei diritti erano state solennemente riconosciute, non solo dalle nuove costituzioni statali del dopoguerra ma anche nella Dichiarazione universale del 1948, a tutti gli esseri umani del pianeta. Ma per altro verso l’assunzione dei diritti sociali come diritti altrettanto vincolanti e inderogabili quanto i classici diritti di libertà valeva a conferire un nuovo spessore alla qualità della democrazia. Ancora ai tempi di Marshall, d’altro canto, i processi di globalizzazione e di integrazione mondiale e i fenomeni migratori non erano giunti al punto da mettere in contraddizione stridente diritti dell’uomo e diritti del cittadino.

Più difficile è comprendere il senso dell’operazione a distanza di cinquanta anni dal saggio di Marshall. Da un lato infatti, come si è visto, molti teorici odierni della cittadinanza sono arrivati a negare o quanto meno a mettere in dubbio la natura di «diritti» dei diritti sociali e così ad abbandonare, di fronte alla crisi di efficienza e di legalità dello stato sociale giudicata irreversibile, l’idea di uno stato sociale di diritto basato appunto sui diritti anziché sulla discrezionalità degli apparati. Dall’altro lato, di fronte alla parallela crisi dello Stato nazionale e della sovranità statale, cui la cittadinanza è connessa, sembra oggi ancor meno legittimo declinare i diritti fondamentali in termini statalistici. La sovranità anche dei paesi più forti si è infatti dislocata, insieme ai limiti ad essa imposti dalla stipulazione dei diritti, in sedi sovra-nazionali. Al tempo stesso, la crescita delle interdipendenze e insieme delle disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri e i fenomeni di migrazione e globalizzazione ci avvertono che stiamo avviandoci verso un’integrazione mondiale che dipenderà anche dal diritto se si svilupperà all’insegna dell’oppressione e della violenza o invece della democrazia e dell’uguaglianza.

In queste condizioni la categoria della cittadinanza rischia di prestarsi a fondare, ben più che una teoria della democrazia basata sull’espansione dei diritti, un’idea regressiva e nei tempi lunghi illusoria della democrazia in un paese solo, o meglio nei nostri ricchi paesi dell’Occidente, a prezzo della non-democrazia nel resto del mondo. [26] Con il risultato di una definitiva qualificazione dei diritti fondamentali e del nostro stesso modello di democrazia, la cui credibilità è interamente legata al loro proclamato universalismo. Questi diritti —come ben sappiamo— sono sempre stati universali solo a parole: se normativamente, fin dalla Dichiarazione francese del 1789, sono sempre stati diritti della persona, di fatto sono sempre stati diritti del cittadino. E questo perché di fatto, all’epoca della rivoluzione francese e poi per tutto il secolo scorso e la prima metà di questo secolo, fino ancora alla Dichiarazione universale del 1948 e agli anni in cui scriveva Marshall, la dissociazione tra «persona» e «cittadino» non faceva problema, non essendo i nostri paesi minacciati dalla pressione migratoria. Ma sarebbe oggi un ben triste fallimento dei nostri modelli di democrazia, e con essi dei cosiddetti valori dell’occidente, se il nostro universalismo normativo fosse rinnegato nel momento stesso in cui viene messo alla prova.

E chiaro che nei tempi lunghi —nei quali le interdipendenze, i processi d’integrazione e le pressioni migratorie sono destinati ad accrescersi— questa antinomia tra uguaglianza e cittadinanza, tra l’universalismo dei diritti e i loro confini statalistici non potrà risolversi, per il suo carattere sempre più insostenibile ed esplosivo, che con il superamento della cittadinanza, la definitiva de-nazionalizzazione dei diritti fondamentali e la correlativa destatalizzazione delle nazionalità. Ma è anche chiaro che se si vuol pervenire gradualmente e pacificamente a questi risultati e insieme dare risposte immediate a quello che è già oggi il più grave problema dell’umanità e la più grande sfida alla democrazia, la politica e, ancor prima, la filosofia politica dovrebbero assecondare questi processi, prendendo coscienza della crisi irreversibile delle vecchie categorie della cittadinanza e della sovranità, nonché dell’inadeguatezza di quel debole rimedio alla loro valenza discriminatoria che è stato fino ad oggi il diritto d’asilo.

Il diritto d’asilo ha infatti un vizio d’origine: esso rappresenta, per così dire, l’altra faccia della cittadinanza e della sovranità, ossia del limite statalistico da queste imposti ai diritti fondamentali. Tradizionalmente, inoltre, esso è sempre stato riservato ai soli rifugiati per persecuzioni politiche, o razziali o religiose, e non anche ai rifugiati per lesioni del diritto alla sussistenza. Questi suoi ristretti presupposti riflettono una fase paleo-liberale del costituzionalismo: nella quale per un verso i soli diritti fondamentali riconosciuti erano i diritti politici e di libertà negativa delle cui violazioni erano vittime solo ristrette élites avvertite dalle élites liberali dei paesi d’accoglienza come loro «simili» e, per altro verso, le emigrazioni per ragioni economiche si svolgevano prevalentemente all’interno dell’Occidente dai paesi europei a quelli americani, con beneficio sia degli uni che degli altri.

Oggi questi presupposti del vecchio diritto d’asilo sono cambiati. 
Le odierne costituzioni europee e le carte internazionali dei diritti hanno aggiunto, ai classici diritti di libertà negativa, una lunga serie di diritti umani positivi —non più solo alla vita e alla libertà, ma anche alla sopravvivenza e alla sussistenza— disancorandoli dalla cittadinanza e facendo anche del loro godimento la base della moderna uguaglianza en droit e della dignità della persona. Non c’è quindi ragione perché quei presupposti non siano estesi anche alle violazioni più gravi di questi altri diritti: ai rifugiati economici oltre che a quelli politici. 
È invece prevalsa la tesi restrittiva, ulteriormente svuotata dalle recenti leggi sull’immigrazione, ancor più restrittive. Il risultato è una chiusura dell’occidente che rischia di provocare non solo il fallimento del disegno universalistico dell’Onu, ma anche un’involuzione delle nostre democrazie e la formazione di una loro identità come identità regressiva, cementata dall’avversione per il diverso e da quello che Habermas ha chiamato «sciovinismo del benessere». [27] C’è infatti un nesso profondo tra democrazia ed uguaglianza e, inversamente, tra disuguaglianza nei diritti e razzismo. Come la parità nei diritti genera il senso dell’uguaglianza basata sul rispetto dell’altro come uguale, così la disuguaglianza nei diritti genera l’immagine dell’altro come disuguale, ossia inferiore antropologicamente proprio perché inferiore giuridicamente. [28]

6. Diritti fondamentali e garanzie

Gli argomenti teorico-giuridici con cui si replica di solito alla tesi del carattere sovranazionale dei diritti umani, siano essi di libertà o sociali, sono di stampo realista. I diritti scritti nelle carte internazionali non sarebbero diritti perché sforniti di garanzie. Per la stessa ragione non sarebbero diritti, secondo molti filosofi e politologi, i diritti sociali, parimenti privi di adeguate garanzie giurisdizionali. [29] Si tratta della quarta tesi, classicamente formulata da Hans Kelsen, che mi sono proposto all’inizio di confutare: al di là delle sue proclamazioni, anche di rango costituzionale, un diritto non garantito non sarebbe affatto un diritto.

Siamo così giunti alla quarta questione all’inizio enunciata, pregiudiziale a qualunque discorso sui diritti, siano essi di diritto interno o internazionale: quella del rapporto tra i diritti e le loro garanzie. È chiaro che se confondiamo diritti e garanzie risultano squalificate, sul piano giuridico, quelle che sono le due più importanti conquiste del costituzionalismo novecentesco: l’internazionalizzazione dei diritti fondamentali e la costituzionalizzazione dei diritti sociali, ridotte l’una e l’altra, in difetto di adeguate garanzie, a semplici declamazioni retoriche o, al più, a vaghi programmi politici giuridicamente irrilevanti. Basterebbe questo a sconsigliare l’identificazione e a giustificare la distinzione, sul piano teorico, tra i diritti e loro garanzie: le definizioni teoriche sono definizioni stipulative, la cui accettazione dipende dalla loro idoneità a soddisfare le finalità esplicative ed operative con esse perseguite.

Ma non è questa la ragione principale —necessaria oltre che sufficiente— per distinguere concettualmente tra i diritti soggettivi, che sono le aspettative positive (o di prestazioni) o negative (di non lesioni) attribuite a un soggetto da una norma giuridica, e i doveri corrispondenti che ne costituiscono le garanzie parimenti dettate da norme giuridiche: siano queste gli obblighi o i divieti ad essi correlativi, che ne formano quelle che nel § 2 ho chiamato le garanzie primarie, oppure gli obblighi di secondo grado di applicare la sanzione o di dichiarare la nullità delle violazioni delle prime e che ne formano quelle che ho chiamato garanzie secondarie. Ciò che rende necessaria questa distinzione è una ragione assai più di fondo, intrinsecamente legata alla natura positiva e nomodinamica del diritto moderno.

Entro un sistema nomostatico, come è la morale e come sarebbe un sistema di diritto naturale fondato unicamente su principi di ragione, i rapporti tra figure deontiche sono rapporti puramente logici: dato un diritto, ossia un’aspettativa giuridica positiva o negativa, esiste in capo a un altro soggetto un obbligo o un divieto ad esso corrispondente; dato un permesso positivo, il comportamento permesso non è vietato e non esiste quindi il relativo divieto; dato un obbligo, del comportamento obbligatorio non è permessa l’omissione e non esiste quindi il relativo permesso negativo mentre esiste il relativo permesso positivo. In questi sistemi l’esistenza o la non esistenza di tali figure deontiche è implicata e dedotta dall’esistenza di quelle assunte come «date». 
In essi, conseguentemente, non esistono né antinomie né lacune: ove due norme siano tra loro in contraddizione, una delle due dov’essere esclusa come inesistente, ancor prima che invalida. È questo il senso del principio giusnaturalistico veritas non auctoritas facit legem: in mancanza di criteri formali d’identificazione del diritto esistente, i soli criteri disponibili sono criteri logici e razionali di tipo immediatamente sostanziale, cioè legati a ciò che dicono le norme.

Tutto questo non è vero nei sistemi nomodinamici di diritto positivo. In questi sistemi l’esistenza o l’inesistenza di una situazione giuridica, ossia di un obbligo o di un divieto o di un permesso o di un’aspettativa giuridica, dipende dall’esistenza di una norma positiva che la prevede, la quale a sua volta non è dedotta da quella di altre norme, ma è indotta, quale fatto empirico, dall’atto della sua produzione. È ben possibile, conseguentemente, che dato un diritto soggettivo, non esista – pur se dovrebbe esistere – l’obbligo o il divieto corrispondente a causa dell'(indebita) inesistenza della norma che li prevede. Così come è possibile che, dato un permesso, esista – pur se non dovrebbe esistere – il divieto del medesimo comportamento a causa dell'(indebita) esistenza della norma che lo prevede. Sono insomma possibili e in qualche misura inevitabili, in sfiniti sistemi, sia lacune che antinomie. Ne deriva che in queste condizioni, espresse dal principio giuspositivistico auctoritas non veritas facit legem, le tesi della teoria del diritto, come la definizione di diritto soggettivo quale aspettativa giuridica cui corrisponde un obbligo o un divieto, sono – non diversamente dalle definizioni del divieto come non permesso della commissione e dell’obbligo come permesso dell’omissione, e perfino dal principio logico di non contraddizione – tesi di tipo deontico o normativo, non sull’essere ma sul dover essere del diritto di cui si parla.

Riprendiamo allora in esame la nozione kelseniana di «diritto soggettivo». Kelsen opera non una, ma ben due identificazioni o riduzioni del diritto soggettivo ad imperativi ad esso corrispondenti. La prima è quella del diritto soggettivo al dovere in capo al soggetto in rapporto giuridico con il suo titolare, ossia a quella che ho chiamato garanzia primaria: «non vi è nessun diritto per qualcuno», egli afferma, «senza un dovere giuridico per qualcun altro». [30] La seconda è quella del diritto soggettivo al dovere che, ove ne ricorra la violazione, incombe a un giudice di applicare la sanzione, ossia a quella che ho chiamato garanzia secondaria: «il diritto soggettivo» consiste «non già nell’interesse presunto, ma nella protezione giuridica». [31]

Ebbene, queste identificazioni sono tesi teoriche, sicuramente non più vere di quanto non siano le equivalenze logico-deontiche tra permesso della commissione e non divieto, tra permesso dell’omissione e non obbligo, tra divieto e non permesso della commissione e tra obbligo e non permesso dell’omissione. Ma al pari di queste esse possono essere smentite, o meglio violate, dalla realtà effettuale del diritto.

È infatti possibile che in un sistema di diritto positivo esistano di fatto antinomie, ossia contraddizioni tra norme, al di là dell’esistenza, che a sua volta è un fatto, di criteri per la loro soluzione; che accanto alla libertà, e quindi al permesso di manifestare liberamente il proprio pensiero esista, come per esempio nel diritto italiano, il divieto penale di vilipendio o di altri reati d’opinione. In tali casi non possiamo negare l’esistenza di norme in conflitto, ossia, nel nostro esempio, l’esistenza del permesso e insieme del divieto del medesimo comportamento: si potrà solo dire che le norme sui reati d’opinione sono norme invalide, pur se esistenti (o vigenti) fino a che non siano annullate dalla Corte costituzionale. Il principio di non contraddizione, ossia il divieto di antinomie, è insomma, rispetto al diritto positivo, un principio normativo.

Analogamente è ben possibile che di fatto non esista l’obbligo o il divieto correlativo a un diritto soggettivo e, più ancora, che non esista l’obbligo di applicare la sanzione in caso di violazione degli uni e dell’altro: che esistano, in altre parole, lacune primarie, per la mancata stipulazione degli obblighi e dei divieti che del diritto soggettivo costituiscono le garanzie primarie, e lacune secondarie, per la mancata istituzione degli organi obbligati a sanzionarne o ad invalidarne le violazioni, ossia ad applicare le garanzie secondarie. Ma anche in tali casi non possiamo negare l’esistenza del diritto soggettivo stipulato da una norma giuridica: si potrà solo lamentare la lacuna che fa di esso un «diritto di carta» [32] ed affermare l’obbligo di colmarla ad opera del legislatore. Il principio di completezza, ossia il divieto di lacune, è anch’esso, al pari del principio di non contraddizione, un principio teorico normativo.

Tutto questo è probabilmente oscurato, nella teoria kelseniana, dal fatto che in essa vengono assunti, come figure paradigmatiche del diritto soggettivo, i diritti patrimoniali. In tali casi, in effetti, la definizione teorica di diritto soggettivo come aspettativa cui corrisponde un dovere non solleva alcun problema, soprattutto per quanto riguarda le garanzie primarie, dato che non sembra al fatto una tesi normativa ma corrisponde esattamente a ciò che di fatto accade: «una parte contraente», scrive Kelsen, «ha un diritto nei confronti dell’altra soltanto se questi ha un dovere giuridico di comportarsi in una data maniera nei confronti della prima; e la seconda ha un dovere giuridico di comportarsi in una data maniera nei confronti della prima soltanto se l’ordinamento giuridico dispone una sanzione in caso di comportamento contrario».[33] Ma ciò dipende dal fatto che tali diritti, come si è visto, sono non disposti ma pre-disposti da norme ipotetiche quali effetti di contratti, i quali sono sempre, simultaneamente, le fonti delle correlative obbligazioni che ne formano le garanzie primarie. E dipende, per altro verso, dalla millenaria tradizione giurisprudenziale del diritto civile che ha sempre strettamente associato i diritti patrimoniali al diritto d’azione quale specifica tecnica per attivarne le garanzie secondarie.

Diverso è il caso dei diritti fondamentali —di tutti, e non solo dei diritti sociali e di quelli di livello internazionale— che come ho mostrato sono immediatamente (disposti da) norme tetiche. 
In questo caso l’esistenza delle relative garanzie —di quelle primarie e più ancora di quelle secondarie— non è affatto scontata, dipendendo dalla loro espressa stipulazione ad opera di norme di diritto positivo ben distinte da quelle che ascrivono i diritti. In assenza del diritto penale, per esempio, non esisterebbe, in forza se non altro del principio di legalità penale, garanzia primaria per nessuno dei diritti da esso tutelati, a cominciare dal diritto alla vita. In assenza della norma sul divieto di arresto senza mandato motivato dell’autorità giudiziaria non esisterebbe la garanzia primaria della libertà personale. Ancor più evidentemente, in assenza di norme sulla giurisdizione, non esisterebbero, per nessun diritto, garanzie secondarie. Ma ovviamente sarebbe assurdo negare per ciò solo l’esistenza dei diritti, in presenza delle norme che li dispongono, anziché, più correttamente, l’esistenza delle loro garanzie in assenza delle norme che le predispongono.

È insomma la struttura nomodinamica del diritto moderno che impone, in forza del principio di legalità quale norma di riconoscimento delle norme positivamente esistenti, di distinguere tra i diritti e le loro garanzie: di riconoscere che i diritti esistono se e solo se normativamente stabiliti, così come le garanzie costituite dagli obblighi e dai divieti corrispondenti esistono se e solo se anch’esse normativamente stabilite. E questo vale per i diritti di libertà (negativi) come per i diritti sociali (positivi), per quelli stabiliti dal diritto statale come per quelli stabiliti dal diritto internazionale. Se non vogliamo cadere in una forma di paradossale giusnaturalismo realistico e non vogliamo far svolgere alle nostre teorie funzioni legislative, dobbiamo ammettere che i diritti e le norme che li esprimono esistono tanto quanto sono positivamente prodotti dal legislatore, sia esso ordinario, o costituzionale o internazionale.

La conseguenza di questa distinzione tra diritti e garanzie è di enorme importanza, non solo a livello teorico ma anche a livello metateorico. Sul piano teorico essa comporta che il nesso tra aspettative e garanzie non è un nesso empirico ma un nesso normativo, che può essere contraddetto dall’esistenza delle prime e dall’inesistenza delle seconde; e che quindi l’assenza di garanzie dev’essere considerata come un’indebita lacuna che è obbligo dei pubblici poteri, interni e internazionali, riempire; così come le violazioni dei diritti ad opera dei pubblici poteri contro i loro cittadini devono essere concepite come indebite antinomie che è obbligatorio sanzionare come atti illeciti o annullare come atti invalidi. Sul piano metateorico essa comporta un ruolo non puramente descrittivo ma altresì critico e normativo della scienza giuridica nei confronti del suo oggetto: critico nei confronti delle lacune e delle antinomie che essa ha il compito di rilevare, e normativo nei riguardi della legislazione e della giurisdizione cui essa impone il loro completamento o la loro riparazione.

Altra questione è quella della realizzabilità concreta delle garanzie. Certamente l’enunciazione costituzionale dei diritti sociali a prestazioni pubbliche positive non è stata accompagnata dall’elaborazione di adeguate garanzie sociali o positive, cioè da tecniche di difesa e di giustiziabilità paragonabili a quelle apprestate dalle garanzie liberali o negative per la tutela dei diritti di libertà. Lo sviluppo in questo secolo del Welfare State è avvenuto in gran parte attraverso il semplice allargamento degli spazi di discrezionalità degli apparati burocratici e non già tramite l’istituzione di tecniche di garanzie appropriate ai nuovi diritti. Ancor meno sono state realizzate garanzie a sostegno dei diritti umani stipulati da carte internazionali, i quali sono contrassegnati da una pressoché totale ineffettività. Ma questo vuol solo dire che esiste una divaricazione abissale tra norme e realtà, che dev’essere colmata o quanto meno ridotta in quanto fonte di delegittimazione non solo politica ma anche giuridica dei nostri ordinamenti.

Occorre distinguere, in proposito, tra realizzabilità tecnica e realizzabilità politica. Sul piano tecnico nulla autorizza a dire che i diritti sociali non siano garantibili al pari degli altri diritti perché gli atti richiesti per la loro soddisfazione sarebbero inevitabilmente discrezionali, non formalizzabili e non suscettibili di controlli e coercizioni giurisdizionali. Innanzitutto questa tesi non vale per tutte le forme di garanzia ex lege che, diversamente dalle pratiche burocratiche e potestativa proprie dello stato assistenziale e clientelare, possono ben realizzarsi attraverso prestazioni gratuite, obbligatorie e perfino automatiche: come l’istruzione pubblica gratuita ed obbligatoria, l’assistenza sanitaria parimenti gratuita o il reddito minimo garantito. In secondo luogo la tesi della non giustiziabilità di questi diritti è smentita proprio dalla più recente esperienza giuridica, che per vie diverse (provvedimenti d’urgenza, azioni di danno e simili) ha visto ampliarsi le loro forme di tutela giurisdizionale, in particolare per quanto riguarda i diritti alla salute, alla previdenza e all’equa retribuzione. In terzo luogo, al di là della loro giustiziabilità, questi diritti hanno il valore di principi informatori del sistema giuridico, largamente utilizzati nella soluzione delle controversie dalla giurisprudenza delle Corti costituzionali. Soprattutto, poi, nuove tecniche di garanzia possono ben essere elaborate. Nulla impedirebbe, per esempio, che a livello costituzionale si stabilissero quote minime di bilancio da destinare ai vari capitoli della spesa sociale e si rendesse così possibile il controllo di costituzionalità sulle leggi finanziarie. E nulla impedirebbe, almeno sul piano tecnico-giuridico, l’introduzione di garanzie di diritto internazionale: come l’istituzione di un codice penale internazionale e di una correlativa giurisdizione sui crimini contro l’umanità; l’introduzione di un controllo giurisdizionale di costituzionalità su tutti gli atti degli organismi internazionali e magari su tutti quelli degli Stati per violazioni dei diritti umani; l’imposizione e la regolazione infine di aiuti economici e di interventi umanitari, declinati nella forma delle garanzie, a favore dei paesi più poveri.

Del tutto diversa, anche se spesso viene confusa con la prima e magari a questa addebitata, è la questione della realizzabilità politica di queste garanzie: a livello interno e, cosa ancor più lontana e difficile, a livello internazionale. Certo, la soddisfazione dei diritti sociali è costosa, esige il prelievo e la redistribuzione di risorse, è incompatibile con la logica di mercato o quanto meno comporta limiti al mercato. Altrettanto certo è che la presa sul serio dei diritti umani proclamati a livello internazionale richiede che mettiamo in discussione i nostri livelli di vita che consentono all’occidente benessere e democrazia a spese del resto del mondo. Certamente, inoltre, l’attuale vento liberista, che dell’assolutismo del mercato e dell’assolutismo della maggioranza hanno fatto un nuovo credo ideologico, non fanno sperare sulla disponibilità dei ceti benestanti, in maggioranza all’interno dei nostri ricchi paesi, e in minoranza rispetto al resto del mondo, a vedersi limitati e vincolati da regole e diritti informati al principio di uguaglianza. Ma allora diciamo che gli ostacoli sono di natura politica, e che la sfida aperta alle forze democratiche è per l’appunto politica, e consiste oggi più che mai nella lotta per i diritti e per le loro garanzie. Ciò che non è consentito è la fallacia realistica dell’appiattimento del diritto sul fatto e quella deterministica dell’identificazione tra ciò che accade e ciò che non può non accadere.

7. Il costituzionalismo come nuovo paradigma di diritto

Le quattro tesi fin qui sviluppate consentono di concepire il costituzionalismo —quale è venuto a configurarsi in questo secolo negli ordinamenti statali democratici con la generalizzazione delle costituzioni rigide e, in prospettiva, nel diritto internazionale con la soggezione degli stati alle convenzioni sui diritti umani— come un nuovo paradigma, frutto di un profondo mutamento interno del paradigma paleo-giuspositivistico.

Il postulato del positivismo giuridico classico è infatti il principio di legalità formale, o se si vuole di mera legalità, quale meta-norma di riconoscimento delle norme vigenti. In base ad esso una norma giuridica, qualunque sia il suo contenuto, esiste ed è valida in forza unicamente delle forme della sua produzione. La sua affermazione, come sappiamo, ha provocato un rovesciamento di paradigma rispetto al diritto premoderno: la separazione tra diritto e morale, ovvero tra validità e giustizia, in forza del carattere interamente artificiale e convenzionale del diritto esistente. La giuridicità di una norma non dipende più, nel diritto moderno, dalla sua intrinseca giustizia o razionalità, ma solo dalla sua positività, ossia dal fatto di essere «posta» da un’autorità competente nelle forme previste per la sua produzione. Il costituzionalismo, quale risulta dalla positivizzazione dei diritti fondamentali come limiti e vincoli sostanziali alla legislazione positiva, corrisponde a una seconda rivoluzione nella natura del diritto che si esprime in un’alterazione interna del paradigma positivistico classico. Se la prima rivoluzione si era espressa nell’affermazione dell’onnipotenza del legislatore, ossia del principio di mera legalità (o di legalità formale) quale norma di riconoscimento dell’esistenza delle norme, questa seconda rivoluzione si è realizzata con l’affermazione di quello che possiamo chiamare principio di stretta legalità (o di legalità sostanziale): ossia con la sottomissione anche della legge ai vincoli non più solo formali ma sostanziali imposti dai principi dei diritti fondamentali espressi dalle costituzioni. E se il principio di mera legalità aveva prodotto la separazione della validità dalla giustizia e la cessazione della presunzione di giustizia del diritto vigente, il principio di stretta legalità produce la separazione della validità dal vigore e la cessazione della presunzione aprioristica di validità del diritto esistente. In un ordinamento dotato di costituzione rigida, infatti, perché una norma sia valida oltre che vigente non basta che sia emanata nelle forme predisposte per la sua produzione, ma è anche necessario che i suoi contenuti sostanziali rispettino i principi e i diritti fondamentali stabiliti nella costituzione. Attraverso la stipulazione di quella che nel § 4 ho chiamato la sfera dell’indecidibile (dell’indecidibile che, espressa dai diritti di libertà, e dell’indecidibile che non espressa dai diritti sociali), le condizioni sostanziali di validità delle leggi, che nel paradigma premoderno s’identificavano con i principi del diritto naturale e nel paradigma paleopositivistico erano state rimosse dal principio puramente formale della validità come positività, penetrano nuovamente nei sistemi giuridici sotto forma di principi positivi di giustizia stipulati in norme sopraordinate alla legislazione.

C’è un momento, nella storia, nel quale può essere collocato questo mutamento di paradigma. È all’indomani della catastrofe della seconda guerra mondiale e della sconfitta del nazi-fascismo. Nella temperie culturale e politica nella quale nasce l’odierno costituzionalismo —la Carta dell’Onu del 1945, la Dichiarazione universale dei diritti del 1948, la costituzione italiana del ’48, la legge fondamentale della Repubblica Federale tedesca del ’49— si comprende che il principio di mera legalità, se è sufficiente a garantire contro gli abusi della giurisdizione e dell’amministrazione, è insufficiente a garantire contro gli abusi della legislazione e contro le involuzioni illiberali e totalitarie dei supremi organi decisionali. E si riscopre perciò il significato di «costituzione» come limite e vincolo ai pubblici poteri stipulato due secoli fa nell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789: «Ogni società nella quale non sono assicurate la garanzia dei diritti né la separazione dei poteri non ha costituzione». Si riscopre insomma – a livello non solo statale ma anche internazionale – il valore della costituzione come insieme di norme sostanziali volte a garantire la divisione dei poteri e i diritti fondamentali di tutti: ossia esattamente i due principi che erano stati negati dal fascismo e che del fascismo sono la negazione.

Possiamo esprimere il mutamento di paradigma del diritto prodotto dalla costituzionalizzazione rigida di questi principi, affermando che la legalità viene in base ad esso contrassegnata da una doppia artificialità: non più solo dell’«essere» del diritto, ossia della sua «esistenza» – non più derivabile dalla morale né reperibile nella natura, ma appunto «posto» dal legislatore – ma anche del suo «dover essere», ossia delle sue condizioni di «validità», anch’esse positivizzate a livello costituzionale, quale diritto sul diritto, in forma di limiti e vincoli giuridici alla produzione giuridica. Non si tratta di un venir meno o di una messa in crisi della separazione tra diritto e morale realizzatasi con il primo giuspositivismo, [34] ma al contrario di un completamento del paradigma giuspositivistico e insieme dello stato di diritto: grazie a questa doppia artificialità, infatti, non solo la produzione del diritto, ma anche le scelte con cui questa viene progettata vengono positivizzate da norme giuridiche, ed anche il legislatore viene sottomesso alla legge. Sicché la legalità positiva nello stato costituzionale di diritto ha cambiato natura: non è più solo (mera legalità) condizionante, ma a essa stessa (stretta legalità) condizionata da vincoli anche sostanziali relative ai suoi contenuti o significati.

Ne è derivata un’alterazione interna del modello giuspositivistico classico che ha investito sia il diritto che i discorsi sul diritto, ossia la giurisdizione e la scienza giuridica. La stretta legalità, proprio perché condizionata dai vincoli di contenuto ad essa imposti dai diritti fondamentali, ha immesso infatti una dimensione sostanziale così nella teoria della validità come nella teoria della democrazia, producendo una dissociazione e una virtuale divaricazione tra validità e vigore delle leggi, tra dover essere ed essere del diritto, tra legittimità sostanziale e legittimità formale dei sistemi politici.

D’altra parte questa divaricazione – che forma un tratto fisiologico (pur se oltre certi limiti patologico) della democrazia costituzionale, il suo maggior pregio e il suo segno di riconoscimento oltre che il suo maggior difetto – ha mutato anche la natura della giurisdizione e della scienza giuridica. La giurisdizione non è più semplice soggezione del giudice alla legge, ma è anche analisi critica del suo significato onde controllarne la legittimità costituzionale. E la scienza giuridica non è più, se mai lo è stata, semplice descrizione, ma è anche critica e progettazione del suo stesso oggetto: critica del diritto invalido pur se vigente perché in contrasto con la costituzione; reinterpretazione alla luce dei principi in questa stabiliti dell’intero sistema normativo; analisi delle antinomie e delle lacune; elaborazione e progettazione delle garanzie mancanti o inadeguate e tuttavia imposte dalle norme costituzionali.

Ne consegue una responsabilità della cultura giuridica e politologica, che è tanto più impegnativa quanto maggiore è questa divaricazione e quindi il compito di dar conto dell’ineffettività dei diritti costituzionalmente stipulati. C’è un paradosso epistemologico che caratterizza le nostre discipline: noi facciamo parte dell’universo artificiale che descriviamo e contribuiamo a costruirlo in maniera assai più determinante di quanto pensiamo. Dipende perciò anche dalla cultura giuridica che i diritti, secondo la bella formula di Ronald Dworkin, siano presi sul serio: giacché essi altro non sono che significati normativi, la cui percezione e condivisione sociale come vincolanti è la prima, indispensabile condizione della loro effettività».

NOTE

1. Le tesi qui esposte sono elaborate, in maniera ben più analitica, nel capitolo XI del volume Principia iuris. Teoria giuridica della democrazia di prossima pubblicazione presso Laterza. Rinvio frattanto, sul tema, a Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale. Laterza, Roma-Bari (1989), 4ª ed. 1998, pp. 950-963; Dai diritti del cittadino ai diritti della persona. in La cittadinanza. Appartenenza identità diritti. a cura di D. Zolo, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 263-292; Aspettative e garanzie. Prime tesi di una teoria assiomatizzata del diritto in volume Logos dell’essere, logos della norma, a cura di Luigi Lombardi Valiauri, Adriatica Editrice, Bari 1998, trad. spagnola in «Doxa», ove sono definiti e formalizzati i concetti di aspettativa, di garanzie e di diritto soggettivo.

2. Sulla distinzione meta-teorica tra teoria generale del diritto e dogmatica giuridica, rinvio a La semantica della teorie del diritto in La teoria generale Nel diritto. Problemi e tendenze attuali. Studi dedicati a Norberto Bobbio Comunità. Milano 1983, pp. 81 – 130. Si presenta espressamente come una «teoria dogmatica» dei diritti fondamentali secondo la Legge fondamentale della Repubblica Tedesca la teoria di R. Alexy, Theorie der Grundrechte (1986), trad. spagnola di E. Garzón Valdés. Teoria de los derechos fundamentales Centro de Estudios Constitucionales. Madrid 1997, pp. 25 e 29.

3. Del tutto indipendente dalla distinzione suddetta, formulata sulla base dei di versi tipi di soggetti cui i diritti fondamentali sono attribuiti dal diritto positivo, è la disti azione tra diritti civili, diritti politici, diritti di libertà e diritti sociali che fa invece riferimento alla loro struttura: i diritti civili e quelli politici sono, oltre che aspettative negative (della loro non lesione) poteri di compiere atti di autonomia rispettivamente nella sfera privata e in quella politica; i diritti di libertà e quelli sociali sono invece solo aspettative, rispettivamente negative (o a non lesioni) e positive (a prestazioni). Rinvio. sulle due distinzioni, a Dai diritti del cittadino ai diritti della persona. cit.. pp. 272-276.

4. Per una storia dei diritti umani nell’antichità, si veda G. Pugliese. Appunti per una storia della protezione dei diritti umani in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile». 1989, pp. 619-659; G. Crifó, Libertà e uguaglianza in Roma antica. L’emersione storica di una vicenda istituzionale Bulzoni, Roma 1984.

5. In Italia la piena capacità d’agire – e conseguentemente la pienezza dei diritti secondari, sia civili che politici – è stata concessa alle donne solo in questo secolo: nel 1919. quando con la soppressione dell’autorizzazione maritale le donne hanno acquisito la piena titolarità dei diritti civili; e nel 1946. quando è stato loro riconosciuto il diritto di voto unitamente agli altri diritti politici.

6. J. Locke, Second Treatise of` Government (1690), tr. it. di L. Pareyson. Due trattati sul governo. Secondo Trattato Utet, Torino 1968, cap. l. § 6, pp. 241242.

7. K.F. Gerber, Über offentliche Rechte (1852) tr. it. di P.L. Lucchini. Sui diritti pubblici in Diritto pubblico. Giuffrè. Milano 1971. pp. 67. 82. «La posizione costituzionale di un suddito» – chiarisce Gerber, che rifiuta il concetto di «cittadino» perché è «esclusivamente politico e niente affatto giuridico» – «è quello di un dominato statalmente. ed è caratterizzata perfettamente da questo concetto» (ivi. pp. 65-ó(1), sicché <

8. K.F. Gerber, Grundzüge eines Systems des deutschen Stuatsrechts (1865), tr. it. di P.L. Lucchini, Lineamenti di diritto pubblico tedesco. in Diritto pubblico cit., pp. 107 e 130-133.

9. Georg Jellinek parla di «auto-obbligazione» dello Stato (Das System der subjektiven öffentlichen Rechte (1892), tr. it. di G. Vitagliano, Sistema dei diritti pubblici soggettivi. Società Editrice Libraria. Milano 1912, pp. 215 ss.). Analogamente, Santi Romano parla di «auto-limitazione» dello Stato, La teoria dei diritti pubblici soggettivi in Primo trattato di diritto anu1zinistrativo italiano a cura di V.E. Orlando, Società Editrice Libraria, Milano 1900. vol. l. pp.159- 163. La funzionalizzazione dei diritti pubblici dei cittadini all’interesse generale è cosi espressa da Jellinek: «Gli interessi individuali si distinguono in interessi costituiti prevalentemente da scopi individuali e in interessi costituiti prevalentemente da scopi generali. L’interesse individuale riconosciuto prevalentemente nell’interesse generale costituisce il contenuto del diritto pubblico» (op. cit. p. 58); «qualunque diritto pubblico esiste nell’interesse generale, il quale è identico con l’interesse dello Stato» (ivi, p. 78).

10. T.H. Marshall, Citizenship and Social Class (1950), tr. it. di P. Maranini, Cittadinanza e classe sociale Utet. Torino 1976, p. 24.

11. H. Kelsen, Reine Retchslehre (1960). tr. it. di M.G. Losano. La dottrina pura del diritto Torino, Einaudi, 1966, p. 150: «Questo concetto di diritto soggettivo. che è il semplice riflesso di un dovere giuridico, cioè il concetto di un diritto riflesso, può come concetto ausiliario semplificare la descrizione dei dati giuridici, ma è superfluo dal punto di vista di una loro descrizione scientificamente esatta»; ibidem: «se si definisce come “diritto” il rapporto fra un individuo (nei cui riguardi un altro individuo è obbligato ad un certo comportamento) con quest’ultimo individuo, il diritto in questione è soltanto un riflesso di questo dovere»; Id., General Tl~eo~v of Law and State (1945), tr. it. di S. Cotta e G. Treves, Teoria generale del diritto e dello stato Edizioni di Comunità, Milano 1959, p.81: «il diritto soggettivo non è, in breve. che il diritto oggettivo». La tesi riecheggia, come si vede, quella di Gerber sulla natura di «diritti riflessi» dei diritti fondamentali.

12. H. Kelsen, Teoria cit., pp. 87-88.

13. D. Zolo, La strategia della cittadinanza in La cittadinanza cit., p. 33, ove a sostegno di questa tesi viene richiamata «la prospettiva del realismo giuridico, da Roscoe Pound a Karl Olivecrona, ad Alf Ross».

14. T. Marshall, Op. cit.. p. 9.

15. D. Zolo, op. cit. p. 29-35; J. Barbalet, Citizenship. Rights Struggle and Class Inequality ( 1988). tr. it. di F.P. Vertova, Cittadinanza. Diritti conflitto e disuguaglianza sociale. con introduzione di D. Zolo, Liviana, Padova 1992, pp.104-109.

16. Di queste due forme di indisponibilità dei diritti fondamentali – quella che si esprime nella loro inviolabilità da parte dei pubblici poteri e quella che si esprime nella loro inalienabilità tra privati – mentre Locke affermò la prima e nego in parte la seconda (Secondo trattato cit., §§ 149 e 85, pp. 361-364 e 302-303), Rousseau affermò la seconda e negò la prima (Du contrat social (1762), Flammarion, Paris 1966, liv. I. 4, ch. VI e IX, pp. 46, 50-52 e 56 e liv. II, §§ 4-5, pp. 67-73).

17. Cfr. M. Jori, La cicala e la formica in Le ragioni del garantismo. Discutendo con Luigi Ferrajoli a cura di L. Gianformaggio, Giappichelli, Torino 1993, pp. 111-112, che giudica «eccezionali, e quindi da giustificare una per una» le limitazioni paternalistiche espresse dall’indisponibilità, che è invece un principio generale logicamente valido per tutti i diritti fondamentali.

18. Distingue invece espressamente tra «diritti fondamentali» e «norme sui diritti fondamentali», tra gli altri, R. Alexy, Theoria de los derechos fundarnentales, cit., pp. 47 ss.

19. Una critica all’uso di «democrazia sostanziale» e all’equivalenza da me istituita tra la dimensione sostanziale della democrazia e il garantismo mi è stata rivolta da M. Bovero, La filosofia politica di Ferrajoli, in Le ragioni del garantismo, cit., pp. 403-406.

20. L. Gianformaggio, Diritto e ragione tra essere e dover essere, in Le ragioni del garantismo, cit., p. 28.

21. Si ricordino le formulazioni del diritto di resistenza in J. Locke, Secondo trattato, cit., §§ 21, 149 e 168, pp. 254, 361-362 e 378, in 1.J. Rousseau, Du contrat social, cit., liv. III, ch. X e XVIII, pp.127 e 140, e in molte costituzioni settecentesche: nell’articolo 3 della Dichiarazione dei diritti della Virginia del 1786, nell’articolo 2 della Dichiarazione francese del 1789 e nell’articolo 3 della Costituzione francese del 24.6.1793.

22. Leviathan, (1651), tr. it. di M. Vinciguerra, Leviatano, Laterza, Bari 1911, Introduzione, p. 3.

23. Sui processi storici attraverso cui si sono venuti moltiplicando, estendendo e rafforzando i diritti fondamentali, cfr. N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990; C. Peces Barba, Curso de derechos fundamentales. Teoria general, Eudema, Madrid 1991, tr. it. di L. Mancini, Teoria dei diritti fondamentali, Giuffrè, Milano 1993.

24. Se scorriamo il lungo Saggio bibliografico di Francesco Paolo Vertova, in La cittadinanza, cit., pp. 325-333, scopriamo che pochissimi sono i libri sulla cittadinanza pubblicati prima della fine degli anni ottanta.

25. L’articolo 7 del Code civil di Napoleone, riprodotto da molti altri codici civili europei, stabilisce: «L’exercice des droits civile est indépendant de la qualità de citoyen» Per una critica più analitica delle tesi di Marshall rinvio a Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, cit.

26. Giustamente R. Bellamy, Tre modelli di cittadinanza, in La cittadinanza, cit., pp. 237 ss., ha segnalato il connotato comunitario delle dottrine della cittadinanza, le quali esprimono una concezione della democrazia basata sull’ «appartenenza a una determinata comunità».

27. J. Habermas, Recht und Moral. (Tenner Lectures), (1989), tr. it. di L. Ceppa, Einaudi, Torino 1992, p. 136. Cfr. anche J. de Lucas, Europa: Convivir con la diferencia. Racismo, nazionalismo v derechos de las minorias, Tecnos, Madrid 1992; Puertas que se cierran. Europa como fortaleza, Icaria, Barcelona 1996.

28. Si veda, sull’interazione prodottasi in passato tra discriminazione delle donne nei diritti fondamentali e loro percezione come soggetti inferiori, M. Graziosi, Infirmitas sexus. La donna nell’immaginario penalistico, in «Democrazia e diritto», 1993, 2, pp. 99- 143.

29. Si ricordino le tesi di Zolo e Barbelet richiamate alle note 13 e 15.

30. Kelsen, Teoria cit., p. 76; il diritto «non è altro che il correlativo di un dovere» (ivi, p. 77); Id., Dottrina pura del diritto, cit., p. 150: «Questa situazione, definita come “diritto” o “pretesa” di un individuo, è semplicemente l’obbligazione dell’altro o degli altri. Se si parla in questo caso di un diritto soggettivo o della pretesa di un individuo, come se questo diritto e questa pretesa fossero qualcosa di diverso dall’obbligazione dell’altro o degli altri, si crea il miraggio di due situazioni giuridicamente rilevanti, allorché la situazione è una soltanto».

31. Ivi, p. 81. Si veda anche il passo richiamato alla nota 12. Ancora: il diritto soggettivo è «la possibilità giuridica», offerta al suo titolare «di ottenere l’applicazione della norma giuridica appropriata che provvede la sanzione… Soltanto se l’applicazione della norma giuridica, la esecuzione della sanzione, dipende dall’espressione della volontà di un individuo diretta a questo scopo soltanto se la legge è a servizio di un individuo, questa può venir considerata la “sua” legge, la sua legge soggettiva, e ciò significa un “diritto soggettivo”» (ivi, pp. 82-83); «l’essenza del diritto soggettivo, che è più del semplice riflesso di un dovere giuridico, consiste nel fatto che una norma giuridica attribuisce ad un individuo il potere giuridico di far valere l’inadempimento di un dovere giuridico mediante un’azione giudiziaria» (La dottrina pura, cit., p. 159).

32. Così Riccardo Guastini chiama i diritti non garantiti (Diritti, in Analisi e diritto, 1994. Ricerche di giurisprudenza analitica, Giappichelli, Torino 1994, pp. 168 e 170)

33. Teoria cit., p. 82. Un discorso analogo viene fatto da Kelsen per i diritti reali: «Il diritto-riflesso della proprietà non è un diritto assoluto in senso proprio: è il riflesso di una pluralità di doveri di un numero indeterminato di individui nei riguardi di un solo individuo in riferimento a una sola cosa, a differenza del diritto di credito, che è soltanto il riflesso di un dovere di un certo individuo nei riguardi di un certo altro individuo» (La dottrina pura, cit., p. 155).

34. La tesi di una connessione tra diritto e morale è stata riproposta, sulla base della formulazione in forma di «principi» delle norme costituzionali sostanziali, da R. Alexy, Begriff und Geltung des Rechts (1992), tr. it. di F. Fiore, Concetto e validità del diritto, Einaudi, Torino 1997 e da G. Zagrebelski, Introduzione a R. Alexy, op. cit. e Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992. Per un’analisi critica di queste tesi, cfr. L. Prieto Sanchis, Constitucionalismo y positivismo, Fontamara, Mexico 1997

Un pensiero su “DIRITTI SOCIALI, DIRITTI CIVILI, UNIVERSALISMO, CITTADINANZA di Luigi Ferrajoli”

  1. Anonimo dice:

    I Sanculotti che mozzarono il Capo Coronato di Luigi XVI certamente non avevano alcuna nozione dei diritti del Cittadino non essendo fra l'altro ancora stato pubblicato il testo Principia Juris, Neppure conoscevano molto il Corpus Juris Civilis di Giustiniano, eppure se la cavarono ugualmente "bene" (… per modo di dire!) "facendo Storia".Alle volte bastano pochi concetti fondamentali come Libertà, Uguaglianza, Fratellanza a rovesciare Mondo.Intendo dire che ai Romani bastarono le sintetiche Leggi delle Dodici tavole a quadrare il mondo.

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