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CLAUSOLE DI SALVAGUARDIA: DOVE VA A SBATTERE RENZI

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[ 24 luglio ]

Giorni addietro Leonardo Mazzei smontava la cosiddetta “rivoluzione fiscale di Renzi. Li si spiegava che a Renzi serve una deroga forte da parte del sinedrio eurocratico e un balzo del Pil ben più consistente dello 0,4. Ma dietro a questa pantomima l’euorcrazia è in agguato ed ha  la pistola delle “clausole di salvaguardia” puntate sul governo italiano.

«Il prossimo triennio presenta un conto da brividi per i tecnici del Tesoro, che l’hanno ben presente a maggior ragione dopo la promessa di choc fiscale del premier, Matteo Renzi: una manovra da 45 miliardi che parte dall’abolizione della Tasi sulla prima casa e dell’Imu sui terreni agricoli (2016), per poi abbatere Ires ed Irap (2017) e quindi rivedere gli scaglioni Irpef (2018). 
Oltre a reperire le risorse necessarie per queste misure – e già si è scatenata la bagarre sulla prossima legge di stabilità – Pier Carlo Padoan dovrà tenere fede agli impegni precedenti, che si sono addensati dietro l’ormai celebre locuzione delle “clausole di salvaguardia”. Voce che vale oltre 74 miliardi per i bilanci dal 2016 al 2018.

Grazie alla ricostruzione realizzata dalla Cgia di Mestre, emerge il quadro delle clausole che pendono sul prossimo triennio: l’anno prossimo servono 17,485 miliardi per una manovra che – includendo l’intervento su Tasi e Imu, ma anche altre voci come la proroga delle decontribuzioni per i nuovi assunti –arriva già a 25 miliardi. Quei diciassette miliardi e mezzo sono per la gran parte (12,8 miliardi circa, che salirebbero fino a 21 miliardi nel 2018) eredità della Legge di Stabilità del 2015, che ha previsto gli incrementi di due punti dell’Iva (rispettivamente dal 10 al 12% e dal 22 al 24%) dal 2016 e via via anche negli anni successivi (nel 2018 si avrebbero due aliquote del 13 e 25,5%, con la terza aliquota – agevolata – fissa al 4%), salvo trovare altre risorse. Proprio quelle che stanno cercando i professionisti dei tagli, alle prese con una spending review che questa volta dovrà per davvero portare in dote i 10 miliardi promessi, a meno di mandare tutto all’aria: sia le promesse di choc fiscale che quelle di disinnesco delle clausole di salvaguardia.


L’intervento sull’Iva dell’ultima stabilità non è l’ultimo. La stessa legge, infatti, ritocca nuovamente le accise sui carburanti con un impatto da 700 milioni nel 2018. Le stesse leve verrebbero attivate – per un valore di 728 milioni all’anno – per salvaguardare i conti a seguito della bocciatura europea del reverse charge (l’inversione contabile nel pagamento dell’Iva) applicato alla grande distribuzione. Ancora, ci sono 671 milioni coperti con l’aumento degli acconti Irpef ed Ires per il 2015 (da far scattare con il prossimo 30 settembre), che diventerebbero un nuovo aumento delle accise negli anni successivi. E’ una vecchia posta che risale all’abolizione dell’Imu del 2013, i cui costi sono poi stati scaricati sull’incasso previsto dalla Voluntary disclosure, il rimpatrio dei capitali partito al ralenti. Se anche questa non dovesse bastare, ecco arrivare le clausole a salvare in corner il bilancio pubblico. Sempre dal 2013 (dalla Legge di Stabilità 2014, per la precisione), arrivano gli altri 3,3 miliardi di impegni da coprire (portati in ‘dote’ dal governo Letta) per l’anno prossimo, che lievitano a 6,3 miliardi nel 2017 e nel 2018.

Chiaro dunque che l’impegno richiesto al Tesoro è di massima importanza e difficoltà, per dare concretezza alla promessa di alleggerimento fiscale che ha già fatto partire le simulazioni sui possibili risparmi: dalla sola Tasi, 180 euro a famiglia. Anche per evitare quanto accaduto nel recente passato, quando dalle sole pompe di benzina si è prelevato assai. Ancora l’elaborazione della Cgia di Mestre mostra l’incredibile incremento delle accise sui carburanti tra il 2011 e il2015, per finanziarie la cultura ma anche rendere permanenti gli aumenti per finanziare gli interventi post alluvioni e terremoti. Con una crescita del 29,1% e del 46% delle accise su benzina e gasolio, per 1000 litri di carburante si è passati (tra il 2011 e il 2015) a versare 728 euro (da 564) e 617,4 euro (da 423)».

* Fonte: Economia & Finanza, 21 luglio

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