[ 1 agosto ]
QUI la prima parte dell’articolo
Pablo Iglesias e l’eredità di Antonio Gramsci
Dice Iglesias che l’obiettivo “… è riuscire a deviare il “senso comune” verso una direzione di cambiamento”.
Qui c’è forse la chiave per aprire la porta che conduce al centro dell’universo concettuale del Nostro.
Non c’è dubbio che ricorrendo al concetto di “senso comune” Iglesias ci rimanda alle specifiche riflessioni carcerarie di Antonio Gramsci, che per “senso comune” intendeva “la concezione della vita e la morale più diffusa” —la “filosofia delle moltitudini”. In una parola la weltanschauung, la visione del mondo o l’ideologia dominante la quale, come segnalava Marx, è sempre quella della classe dominante.
Curioso ma profondamente sintomatico che Iglesias parli di “deviazione” del senso comune, mentre Gramsci parlava di “trasformazione”. Una differenza di valore solo lessicale? Una modesta torsione semantica? Forse sì, ma anche no.
Di sicuro, proprio nelle sue riflessioni sulla rivoluzione in Occidente, Gramsci spiega bene cosa intenda per “trasformazione del senso comune”. Com’è noto per il rivoluzionario sardo la rivoluzione (socialista) non è possibile se il “moderno Principe” (il partito d’élite o d’avanguardia della classe proletaria) non ha prima conquistato l’egemonia ideale e morale tra le larghe masse dei subalterni e dei “semplici”, dove la lotta per l’egemonia è appunto lotta contro il vecchio “senso comune” che le tiene soggiogate, da rimpiazzare con un “nuovo senso comune” che consisteva per lui nella “filosofia della praxis”, in altre parole del pensiero marxista rinnovato. “Trasformare” significava dunque per Gramsci non venire a patti con il vecchio senso comune, ma opporgliene uno nuovo, considerando che tra essi c’è un rapporto antitetico. Non si “devia” ciò che procede in direzione sbagliata e opposta.
Non è per caso che Gramsci, proprio per qualificare la lotta contro il senso comune dominante, parli di “spirito di scissione”, per designare “…il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica” da parte delle classi subalterne, coscienza di sé senza cui esse non diventeranno mai dirigenti facendosi Stato. Costruzione di questa coscienza di sé che per Gramsci era appunto la funzione decisiva del partito politico come intellettuale collettivo.
La cartina al tornasole dell’Euro(pa)
Una infallibile cartina al tornasole per comprendere cosa ci sia dietro alla “deviazione” del senso comune è l’approccio a quella che oggi è la questione delle questioni: l’Unione europea e il regime liberista-mercantilista della moneta unica.
In quattro decenni, soprattutto in Spagna, sotto la formidabile spinta dei fatti e della potente macchina propagandistica dei dominanti, si è venuto costituendo un “senso comune europeista”, l’idea volgare che “non si può tornare indietro” o, peggio, che tornare indietro equivarrebbe a sprofondare nella barbarie. Soprattutto in Spagna l’ideologia europeista è forte e capillare tra i cittadini perché l’approdo nell’Unione europea è stato considerato come la definitiva cesura col passato franchista, clericale e oscurantista.
Dobbiamo o no, opporre a questa narrazione liberista (ed al senso comune che ne è risultato) un discorso alternativo? O ci si deve limitare a “deviarlo”? Per Podemos, al netto di alcune minoranze, vale la seconda che abbiamo detto. Dove “deviare” significa utilizzare la mediocre narrazione che “un’altra Europa è possibile”, sostenendo che la battaglia non può che svolgersi nel campo da gioco di questa Unione europea, non per romperla bensì per riformarla e democratizzarla, raccontando quindi ai cittadini due frottole: la prima per cui in quest’Unione sarebbe possibile farla finita con l’austerità e le politiche di deflazione salariale ed antipopolari; la seconda che si potrebbe riconsegnare ai popoli la loro sovranità procedendo sulla via della dissoluzione degli stati-nazione. Non si sa quale di queste due frottole sia la più grave, di sicuro la seconda rivela la subalternità alla narrazione euro-liberista, all’idea che togliere di mezzo le nazioni coi loro stati sia un compito… “progressista”.
“Deviare” implica dunque che Podemos accarezza il senso comune europeista invece di contrastarlo. E perché occorre contrastarlo? Non solo perché l’idea di “un’altra Europa” è una colossale illusione. Questo senso comune va contrastato perché esso è elemento portante della gabbia psicologico-politica che tiene prigioniere le classi subalterne, perché finché i subalterni resteranno prigionieri di questa gabbia, essi resteranno tali.
Il senso comune europeista è oggigiorno uno degli ostacoli principali alla rivoluzione democratica, ad una sollevazione popolare che non sia solo un fuoco di paglia ma atto di liberazione, quindi conquista del potere per la trasformazione sociale. E’ evidente che non si rovescia questo senso comune dalla mattina alla sera, che occorre pedagogia, linguaggio e tattica accorte. Di sicuro non si rovescia nulla che non lo si voglia rovesciare.
Iglesias ci risponderà che occorre vincere le elezioni di novembre, e che per vincerle occorre prendere un mucchio di voti, e che per prendere un mucchio di voti non si debbono “spaventare” gli elettori con parole d’ordine troppo radicali. Quante volte ci siamo sentiti rivolgere questa litania! Una pietanza condita con svariati ed ammiccanti spezie, tra cui quella del buon senso, ma il cui ingrediente principale era, appunto, l’elettoralismo. E qual è il problema degli elettoralisti? Che una volta giunti al governo non sulla base di un discorso di verità ma arruffianandosi le larghe masse, accarezzandone la parte posteriore (li dove si annida il senso comune), non sono stati in grado di cambiare un fico secco, e sono finiti nel modo più inglorioso, a tutto vantaggio dei dominanti —che per un po’ le lasciano fare, che davanti al risveglio popolare per un po’ indietreggiano, ma solo per prendere la rincorsa in vista della loro inesorabile controffensiva.
E’ francamente inquietante che davanti alla tragica lezione di SYRIZA, e di Tsipras in particolare —l’avere capitolato ai diktat dell’eurocrazia dopo aver detto ai quattro venti che mai avrebbero sottoscritto un nuovo Memorandum-garrota, e ciò in barba ad un referendum che consegnava al governo un mandato pieno a resistere— Podemos, ed Iglesias in particolare, abbiano sostenuto l’accordo infame. Iglesias ha detto infatti che se fosse stato nel Parlamento greco, avrebbe anche lui votato il terzo memorandum. Sorvoliamo per carità di patria su un’altra frase terrificante che sembra presa in prestito dal linguaggio dei falchi euro-atlantisti, quella per cui un’alleanza della Grecia con la Russia sarebbe stata “la vigila della terza guerra mondiale”.
Lo abbiamo capito, Podemos, o almeno la maggioranza che si raccoglie attorno alla direzione di Pablo Inglesias, non vuole che la Spagna esca dall’eurozona, condividendo la stessa illusione di certa sinistra che pensa sia possibile una Unione con democrazia e un euro senza austerità. Ma ogni illusione ha un limite, questo limite è quello che si chiama “principio di realtà”. E qual è la realtà? è che l’Unione europea con la sua moneta unica, per sua stessa natura, è destinata a deflagrare. Così che uno dei compiti principali di un’élite antagonista è proprio indicare non come evitare l’inevitabile, ma come farvi fronte, indicando che l’alternativa c’è, ed è necessariamente il recupero della dimensione stato-nazionale. Recupero che avverrà, o nella forma democratico-rivoluzionaria se noi saremo capaci di guidare il processo di transizione, o in una forma reazionaria e fascista.
E’ proprio in Grecia che il sogno di un’altra Europa è miseramente fracassato. Il confine che separa un venditore di sogni da un venditore di fumo è spesso molto labile.
Iglesias ed alcuni economisti di Podemos a lui vicini ci risponderanno che “la Spagna non è la Grecia”, volendo dirci che con un debito pubblico più modesto (siamo comunque al 100% del Pil), ed un Pil che per il 2015 è stimato in crescita al 2,8%, un governo di Podemos “avrebbe ben più ampi margini di manovra” con l’euro-Germania per strappare la cosa che a Podemos più preme: la fine dell’austerità, l’avvio di politiche volte al rilancio della domanda interna con milioni di nuovi posti di lavoro, l’aumento dei redditi da lavoro dipendente, ecc.
Le cose, però, non stanno esattamente così. Stando sul piano squisitamente economico, per capire quali potrebbero essere i margini di manovra di un eventuale governo di Podemos—ammesso, come ci auguriamo, che Podemos vinca le prossime elezioni— non depongono a favore di questa ipotesi due fattori importanti: la montagna di debito privato (soprattutto con l’estero), il deficit pubblico.
Per avviare politiche espansive su larga scala, che abbiano cioè effetti profondi e duraturi dal punto di vista della qualità della “crescita”, ovvero a favore del popolo lavoratore, un governo di Podemos dovrebbe non solo derogare alle regole euro-tedesche, dovrebbe letteralmente ribaltarle.
Che l’eurocrazia conceda a Iglesias ciò che non ha concesso non solo a Tsipras, ma neanche a Rajoy, è non solo pia, ma pericolosissima illusione. Anche a Podemos, anzi, soprattutto a Podemos, gli euro-oligarchi ribadiranno che non c’è euro senza austerità, che non ci sono né sovranità popolare né democrazia in seno a questa Unione. Faranno contro Podemos quanto han fatto a SYRIZA, anzi, faranno peggio, proprio per il più grande peso che la Spagna ha rispetto alla piccola Grecia.
A quel punto, Iglesias, ammesso che riesca a diventare primo ministro, che farà? Vorrà calcare le orme di Tsipras andando incontro a una debacle sicura? O imboccherà la sola strada possibile: quella dell’indipendenza e della rottura? I nostri amici spagnoli sono divisi: c’è chi non nutre speranze e da per scontato un fallimento fragoroso di un eventuale governo Podemos; c’è invece chi non ha dubbi sul fatto che Iglesias —che ci dicono “ha gli attributi” e la sa più lunga di quanto lascia intendere— avrà il coraggio di spezzare le catene euriste.
Vogliamo augurarci che abbiano ragione questi ultimi. Ma allora Iglesias dovrà non solo avere un “piano B” (quello che SYRIZA ha rifiutato di approntare), dovà prepararsi ad una lotta titanica, la quale implica avere alle spalle un potente movimento nazionale e di popolo ed un gruppo dirigente che sia disposto a vincere, costi quel che costi.
Digressione su Lenin
Nel suo discorso a Valladolid Pablo Iglesias, per sostenere la sua critica ai marxisti dottrinari ricordava:
«Ve lo ricordate quel compagno calvo e col pizzetto che nel 1905 parlava di soviet?. Era un genio. Aveva intuito l’importanza di un’analisi concreta della situazione concreta. In tempo di guerra, nel 1917, quando il regime russo era sull’orlo del collasso, disse una cosa molto semplice ai russi, fossero essi soldati, contadini o lavoratori. Disse: “Pane e pace”. E quando disse “pane e pace”, che era ciò che tutti volevano – che la guerra finisse e che si potesse avere abbastanza da mangiare – molti russi che non sapevano neppure se fossero di “destra” o di “sinistra”, ma sapevano di essere affamati, dissero: “Il tizio calvo ha ragione”. E il tizio calvo fece molto bene. Non parlò ai russi di “materialismo dialettico”, gli parlò di “pane e pace”. E questa è una delle lezioni più importanti del ventesimo secolo».
Strigliata d’orecchie sacrosanta ai dottrinari, ma il racconto di Iglesias è zoppo, incompleto. E’ vero che i bolscevichi poterono conquistare il potere grazie alla loro “linea di massa”, ovvero a tre (non due slogan), ovvero “Pace, pane e assemblea costituente”. Iglesias dimentica di dire che chiedendo la “pace” i bolscevichi rivendicavano l’uscita immediata e senza condizioni della Russia dalla guerra. E per questo essi non sostennero il governo provvisorio di Kerensky, che invece continuava a spedire al macello del fronte milioni di giovani russi. “Pace” quindi non era in bocca al Lenin uno slogan astratto (tutti parlavano e dicevano di volere la “pace”). Lenin, con “spirito di scissione” non si limitò a correre dietro al “senso comune” pacifista, indicò alle masse che per ottenere la pace occorreva rompere l’alleanza che legava la Russia a Francia, Inghilterra e Italia, quindi rovesciare il governo provvisorio.
Riportandoci all’oggi, giusto chiedere la fine delle politiche austeritarie, chiedere lavoro e reddito dignitosi, più democrazia ecc., ma se vogliamo seguire l’esempio di Lenin e non ingannare i popoli, si deve spiegare che per ottenerli occorre spazzare la gabbia dell’euro, rovesciando i regimi nazionali guidati da Quisling e Gauleiter.
Per stare all’analogia: l’Unione europea non è un’entità ideale, metafisica, ventotenica, essa consiste in una ALLEANZA politico strategica (di segno liberista e imperialista) di diversi paesi sotto l’egida atlantista e con la Germania come potenza economico-finanziaria dominante.
Pablo, non vorrai mica dirci che il “compagno calvo e col pizzetto” ci avrebbe detto di stare in questa alleanza di carogne per di più destinata a miglior vita?