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«L’EURO ED IL DESTINO DEI COMUNISTI ITALIANI» di Domenico Moro e Fabio Nobile

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[ 25 settembre ]

Domenico Moro e Fabio Nobile sono due intellettuali che hanno attraversato per intero la diaspora comunista in Italia. Due voci importanti ma ancora fuori dal coro. Pubblichiamo la parte finale di un loro recente contributo.

(…)

Ancor meno senso ha dividerci su Tsipras e sulla Grecia: ciò su cui dobbiamo discutere sono i contenuti attorno a cui definire un posizionamento politico generale. Per cominciare, non possiamo eludere la questione principale: dobbiamo definire una linea condivisa tra i comunisti e all’interno della sinistra sull’euro. Noi riteniamo che i punti su cui ci sia bisogno di trovare un accordo siano tre:

a) La funzionalità dell’integrazione valutaria europea agli scopi di riorganizzazione complessiva della società da parte del capitale;
b) L’irriformabilità dell’euro proprio a causa della sua architettura che costituisce una gabbia ferrea per i lavoratori europei;
c) La necessità, quindi, di superare l’euro.

Che vuol dire superare l’euro? Vuol dire che il primo elemento da cui partire per definire un orientamento politico che sia veramente attuale è mettere in discussione l’architettura che lo sorregge e riconoscere nella moneta unica uno dei vettori principali dell’attacco alla classe salariata europea sul piano economico e politico. Se non c’è chiarezza su questo aspetto risulta poco realistico articolare una politica antiausterity, dato il legame tra euro e austerity. Il tema di oggi non è disquisire tecnicamente se il superamento avvenga in un modo o in un altro, attraverso una uscita unilaterale o concordata di un singolo paese o di più paesi o attraverso uno scioglimento consensuale dell’intera area. Sicuramente, però, se il superamento dell’euro è una condizione necessaria alla definizione di una strategia ciò non vuol dire che sia una condizione sufficiente. Se l’euro è lo strumento principe, chi lo usa come un grimaldello è il capitale. Quindi, il superamento dell’euro va collegato ad una critica generale al capitale e alla ridefinizione di un concetto di ripresa dell’intervento pubblico diretto nell’economia, che, a sua volta implica una rinnovata riflessione sulle forme dello stato, sul rapporto tra masse e potere ed in definitiva una critica di classe sulla questione dello Stato. Del resto, ancora la Grecia di Tsipras ci dimostra che vincere le elezioni e conquistare il governo non equivale a conquistare il potere effettivo.

Il potere effettivo riguarda, infatti, il comando diretto sui gangli vitali della società. Dalla burocrazia all’esercito, dalla banca centrale ai settori principali dell’economia se restano in mano alle classi dominanti difficile è incidere strategicamente. Senza rompere almeno parte della macchina statale precedente e far crescere anche in nuce una nuova entità statale difficilmente si può reggere un qualsiasi livello di scontro in grado di portare ad una vittoria duratura. Questo è l’unico sbocco che i dominati hanno per vincere.

È proprio partendo da questo assunto che abbiamo bisogno di fare un ulteriore passo avanti nella nostra riflessione per definire un orientamento e un posizionamento attuali. I processi di ristrutturazione della società europea, che determinano l’impoverimento di massa e l’emarginazione politica di milioni di lavoratori, stanno producendo profonde trasformazioni anche nelle forme della rappresentanza politica e partitica. Purtroppo, ciò sta avvenendo non nel senso che molti avevano sperato. Anche se la situazione varia molto da paese a paese e in Italia appare particolarmente negativa, la polarizzazione sociale non sta favorendo in misura significativa i partiti comunisti in nessun paese. A beneficiare della crisi della socialdemocrazia europea e del partito popolare europeo sono soprattutto i partiti populisti e, fatto recente da osservare con attenzione, la rinascita di una socialdemocrazia che ritorna a una dimensione classica, come nel caso inaspettato della vittoria di Jeremy Corbyn alle primarie del Labour britannico. Bisognerebbe chiedersi perché questo accada. È vero che, almeno in Italia, nell’emarginazione dei comunisti ha giocato un certo ruolo la questione della casta e un ruolo ancora più importante il governismo, segnatamente la partecipazione disastrosa ai governi Prodi. C’è, però, un’altra questione ancora più importante. Si tratta del discredito del comunismo come alternativa allo stato di cose presenti, che è ormai diventato senso comune. I comunisti non sono stati capaci di reagire in modo creativo a questa aggressione, cioè attraverso la definizione di un nuovo proprio paradigma che contenga gli elementi del socialismo adeguato all’oggi. Ci si è limitati a ripetere sempre più stancamente il vecchio paradigma, anche se declinato in maniere a volte anche molto diverse tra di loro. Non porsi il problema della definizione di un nuovo paradigma, a fronte di una realtà che si è modificata profondamente, vuol dire scomparire definitivamente e non c’è tatticismo o politicismo che tenga per evitarlo.

Tale debolezza strategica dei comunisti non può essere sottaciuta. Ed il percorso di ridefinizione di tale paradigma non potrà essere lineare, a meno che non si pensi che per farlo i comunisti debbano rinchiudersi in una setta. Per questa ragione, non possono essere sottovalutati i segnali di ritorno di una parte della socialdemocrazia ad una dimensione “classica”. Da questo punto di vista il documento firmato da Varoufakis, Lafontaine, Fassina, Melanchon va valutato con molta attenzione. In quel documento possiamo riscontrare una riflessione che affronta alcuni nodi in maniera, almeno in parte, condivisibile. Si tratta di nodi cruciali, visto che riguardano l’euro, la sua funzione strategica e l’atteggiamento da tenere nei suoi confronti. Su questi temi da parte dei firmatari del documento ci sono passi in avanti importanti. Noi non pensiamo che sia necessario condividere l’intera impostazione teorica di coloro che hanno promosso quel documento, bensì riteniamo che sia possibile condividerne alcuni obiettivi politici su alcune questioni importanti. Di fronte alla possibile apertura di importanti spazi politici, sarebbe miope rinchiudersi in sé stessi rifiutando qualunque relazione, così come sarebbe altrettanto errato rinunciare ad avere una definita e autonoma fisionomia programmatica in nome dell’unità.

Del resto, in Italia possiamo fare a meno di aprire una relazione con quanto si muove a sinistra, in particolare con la sinistra che oggi ha deciso di rompere con il PD? Pensiamo davvero che, nelle difficili condizioni soggettive ed oggettive in cui ci troviamo, sia possibile ai comunisti portare avanti un progetto completamente autonomo che sia credibile?
La questione in discussione, per quanto ci riguarda, non è quella di costruire un’aggregazione partitica unitaria a sinistra, bensì quella di definire un nuovo campo di azione, anche sul terreno della rappresentanza, in modo da ricostruire un riferimento credibile nel nostro Paese per le classi subalterne. Caratterizzare la nostra presenza in tale percorso ed in generale nella battaglia politica dei prossimi anni è dunque decisivo. La definizione di un nostro profilo politico, il profilo di Rifondazione Comunista, è fondamentale se intendiamo influenzare il resto della sinistra evitare ogni possibile subalternità. A questo proposito bisogna essere consapevoli che i passaggi tattici non possono e non devono ipotecare in una direzione o in un’altra il futuro e che invece ad essere decisiva sarà la capacità di svolgere un lavoro lungo e paziente di reinsediamento nel tessuto di classe.

A questo proposito, è necessario far avanzare la battaglia in Italia e in Europa sia sul terreno tattico che strategico. La rottura di ogni collaborazione con i partiti di centro-sinistra che sono l’asse portante della UE, come il Pd, il Psf e la Spd, è imprescindibile se si vuole riacquisire credibilità, così come lo è la capacità di dire parole finalmente chiare sulla funzione dell’euro e della UE. Su questi due aspetti, che hanno un profondo nesso tra loro, si può provare a ripartire, articolando un programma in grado di aggredire le fondamentali questioni materiali che colpiscono la maggioranza dei lavoratori e dei settori popolari. Tenendo fermi questi due punti è possibile cercare di stabilire un rapporto di collaborazione con i settori fuoriusciti dall’alveo neoliberista della socialdemocrazia europea.

È su questi temi che va portata la discussione a sinistra, senza settarismi e senza subalternità nei confronti di nessuno. Ovviamente tutto ciò ha poco senso se, come abbiamo già accennato, i comunisti non si misurano di nuovo con la comprensione di una realtà profondamente cambiata e non si impegnano a ricostruire, a livello di massa, una prospettiva di trasformazione rivoluzionaria della società.


Un pensiero su “«L’EURO ED IL DESTINO DEI COMUNISTI ITALIANI» di Domenico Moro e Fabio Nobile”

  1. Anonimo dice:

    IO direi quasi, e chiedo scusa se posso sembrare un po' impertinente, "meno male che sono rimasti fuori dal coro" perché il coro delle sinistre italiane è apparso in questi decenni che ci separano dal fatidico 1989, piuttosto stonato e molti si sono messi Marx e il marxismo sotto i tacchi (non nomino per pietà ideologica il principale protagonista delle vicende politiche delle sinistre italiane).Contare ora sulla"resurrezione dai morti del vecchio PC mi sembra, ahimè, cosa onirica.

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