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MARX E LA CRITICA DEL LIBERALISMO di Stefano Petrucciani*

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[ 28 ottobre ]
Nell’epoca caratterizzata dall’egemonia ideologica del neoliberismo e dalla crisi delle teorie politiche ad esso alternative, di ispirazione socialista o radicale, può essere utile rileggere alcuni aspetti della critica marxiana del liberalismo, per capire se essa può avere ancora oggi una sua validità e, soprattutto, per comprendere quali sono i suoi punti di forza e quali quelli di debolezza.
1. C’è un Marx liberale
Ma prima di affrontare questo aspetto del discorso, è necessaria innanzitutto una precisazione: sarebbe del tutto errato considerare Marx semplicemente come un nemico del liberalismo; anzi, bisogna ricordare che la presenza di temi schiettamente liberali è una costante che attraversa tutto il suo pensiero, anche se nelle diverse fasi assume modalità estremamente differenti. L’esperienza politica di Marx, com’è noto, comincia proprio nel segno del liberalismo: negli articoli che pubblica sulla Gazzetta renana, tra il maggio del 1842 e il marzo del 1843, il giovane filosofo è impegnato in battaglie tipicamente liberali come quelle in difesa della libertà di stampa, contro la censura, per l’autonomia dello Stato e la laicità rispetto alle confessioni religiose. La libertà, scrive Marx intervenendo nel dibattito sulla censura, si identifica completamente con l’essenza dell’uomo. [1] 
Non solo, difendendo la libertà di stampa, Marx sottolinea (dimostrandosi così, nonostante la sua giovane età, un ottimo maestro di liberalismo) che “ogni forma di libertà presuppone le altre, come ogni membro del corpo presuppone gli altri. Ogniqualvolta vien posta in discussione una determinata libertà, è la libertà stessa che viene posta in discussione”. [2] 
Anche quando Marx avrà abbandonato il suo giovanile liberalismo, una vena liberale continuerà a innervare alcuni aspetti il suo pensiero: si pensi per esempio alla critica dello Stato “pesante”, ipertrofico e burocratico che Marx sviluppa nella Guerra civile in Francia, oppure ad un altro tema che viene talvolta trascurato: Marx non disprezza affatto le “libertà negative” del liberalismo, tanto è vero che, nella Critica del programma di Gotha, ribadisce, criticando lo “Stato educatore” sostenuto dai lassalliani, che “ognuno deve poter soddisfare tanto i suoi bisogni religiosi quanto i suoi bisogni corporei senza che la polizia vi ficchi il naso”. [3] Come appare evidente anche dal tono di queste righe, Marx considera le libertà negative liberali come qualcosa che dovrebbe essere (anche se spesso non è) un dato ovvio e scontato; ma anche come una dimensione che rimane del tutto limitata e insufficiente se quello che ci interessa è conseguire una effettiva liberazione da tutte le forme di asservimento. [4]
2. Cosa c’è di sbagliato nel liberalismo
A distanza di pochi mesi dalle battaglie liberali condotte con la Gazzetta renana, Marx conferisce una decisa svolta al suo pensiero, che lo porta alla critica radicale dei diritti liberali sviluppata nella Questione ebraica. Il punto fondamentale, nel testo del 1843, sembra essere quello che riguarda la concezione dell’uomo che sta alla base della teorizzazione liberale che, come appare nelle Dichiarazioni dei diritti della Rivoluzione francese e come già accadeva nel liberalismo lockiano, individua come diritti fondamentali dell’uomo essenzialmente la libertà, la sicurezza e la proprietà.
Il limite fondamentale del liberalismo consiste in sostanza, secondo questo Marx, nel fatto di fare propria una visione isolante e atomizzante dell’individuo, considerato come una “monade che riposa su stessa”. [5] E proprio partendo da questo rilievo critico  Marx può scrivere che “nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoista, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità”. [6] Insomma, secondo questa prospettiva, “l’intera società esiste unicamente per garantire a ciascuno dei suoi membri la conservazione della sua persona, dei suoi diritti e della sua proprietà”. [7]
A me sembra che questa riflessione marxiana si esponga fondamentalmente a due tipi di critica, peraltro largamente convergenti: per un verso essa pare sottovalutare radicalmente il tema della necessaria separatezza degli individui, del loro essere anche e sempre portatori di interessi in conflitto, conflitto dal quale nasce appunto l’esigenza di diritti che tutelino le legittime sfere di autonomia individuale. Qui Marx si contrappone a tutta la tradizione della filosofia politica moderna, dallo Hobbes teorico del conflitto fino al Kant della “insocievole socievolezza”. Per altro verso essa sembra presupporre un concetto olistico o addirittura comunitario della socialità, dove gli individui trovano nella libertà dell’altro non più un limite, ma addirittura la realizzazione della loro propria libertà. [8]
Critiche di questo tipo all’antiliberalismo marxiano hanno sicuramente le loro buone ragioni. Ma forse esse non colgono quello che invece, pur restando un po’ implicito, è a mio avviso il suo vero e proprio nocciolo razionale. Provo a esporlo sinteticamente. Il vero punto cieco del liberalismo, il suo presupposto apparentemente ovvio ma in realtà questionabile, è l’idea che le regole sociali, i principi regolativi di base della convivenza civile, debbano avere come loro obiettivo primario se non unico quello di assicurare interazioni ordinate tra estranei potenzialmente nocivi l’uno all’altro. E che invece non debbano avere come loro scopo primario quello di garantire nel modo migliore la soddisfazione dei bisogni vitali e l’acquisizione del maggior benessere possibile per tutti. Il vero punto di fondo, che Marx non riesce a cogliere in modo esplicito, ma che la sua critica in qualche modo illumina, è che il pensiero liberale occulta quello che, anche per la filosofia politica antica, è sempre stato l’aspetto fondamentale della relazione sociale, e cioè che gli uomini stanno insieme per godere di una vita migliore e più agiata.
Il punto fondamentale,  a mio avviso, sta esattamente qui: il liberalismo politico borghese-moderno, rompendo con una tradizione bimillenaria, non pensa più la società come una cooperazione lavorativa per la migliore soddisfazione di ciascuno, ma, al contrario, la tematizza come una relazione tra estranei potenzialmente nocivi, che non nasce dal problema di soddisfare le necessità vitali di ciascuno, ma da quello di garantirgli l’ordinato godimento dei suoi beni dopo che egli ha provveduto da solo a procurarseli.
Per questo aspetto, il nocciolo razionale non immediatamente visibile della critica marxiana può essere così riassunto: il pensiero liberale e neoliberale non è in grado di esibire nessuna buona ragione a sostegno del suo assunto fondamentale, e cioè che lo Stato e la politica abbiano come primo compito quello di garantire la sicurezza, la proprietà e le transazioni di mercato, e non invece quello di operare per assicurare a ciascun individuo condizioni di benessere e di sviluppo umano.
3. Il liberalismo e la società di mercato
L’altro aspetto della riflessione marxiana sul quale bisogna a questo punto soffermarsi è che vi è, secondo l’autore del Manifesto, una sorta di precisa corrispondenza tra la teoria politica del liberalismo e l’ordine delle relazioni economiche vigente nella società di mercato. Ma per comprendere meglio questo punto conviene lasciarsi alle spalle gli scritti giovanili e passare al Marx del Capitale, e più precisamente alle pagine dove Marx riflette sulle modalità della cooperazione sociale e, a partire da lì, sulla questione del feticismo delle merci. Nella società mercantile la dipendenza di  ciascuno dalla cooperazione lavorativa con tutti gli altri viene occultata dal fatto che gli attori economici agiscono ognuno per conto proprio e senza un piano. La dipendenza reciproca si occulta dietro l’indipendenza apparente, che in realtà non è indipendenza ma dipendenza in una forma non consapevole, non programmata e mediata dal denaro. Ma questa è esattamente la prospettiva nella quale si colloca  il liberalismo, quando considera l’associazione politica come un rapporto che nasce da individui originariamente indipendenti, e il cui bisogno di legarsi reciprocamente sotto norme comuni è motivato solo dalla necessità di conseguire la sicurezza fisica (Hobbes) o la tutela della propria persona e dei propri averi (Locke).
Ma il problema più interessante che si cela dietro questo primo livello di riflessione è a mio avviso quello che è stato messo in risalto nel pluriennale lavoro analitico che all’opera marxiana ha dedicato Jacques Bidet: il punto in sostanza è che la stessa idea della società di mercato, che Marx sembra prendere per buona, almeno come tipo ideale, nelle pagine sul feticismo, [9] è una rappresentazione immaginaria. Lo è in primo luogo nel senso che Marx stesso mette in luce, perché chi ragiona in termini di società mercantile vede solo ciò che accade nella sfera della circolazione (dove regnano “Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham[10] e non vede ciò che accade nel regno della produzione, dove vige invece il dominio del capitale sul lavoro. Ma lo è anche in un altro senso che Marx non tematizza, e che invece è al centro del lavoro di Bidet. L’idea della società di mercato, che caratterizza la tradizione liberale e che rappresenta oggi il sogno o l’utopia del neoliberismo, è una rappresentazione immaginaria (e naturalmente anche apologetica) perché le relazioni di mercato non sono autosussistenti, non bastano a se stesse, ma possono sussistere solo in quanto si inscrivono e sono supportate a monte e a valle da forme di coordinazione sociale non mercantile, come ad esempio la fornitura di beni pubblici (quali ad esempio strade, infrastrutture, mantenimento di un ambiente salubre) da parte dello Stato o lo scambio di “servizi” alle persone nell’ambito delle relazioni familiari, amicali e affettive.
Ciò significa che la società di mercato che il (neo)liberalismo vagheggia è, oltre che indesiderabile, illusoria, perché – e questo è un punto che neppure Marx vede adeguatamente –  la soddisfazione dei bisogni sociali, anche e soprattutto nella tarda modernità, passa in larghissima parte per ciò che mercato non è, ovvero da un lato per lo Stato e dall’altro per i legami familiari o di solidarietà. Perciò la pretesa della mercatizzazione integrale distrugge (paradossalmente) le basi sociali che rendono possibile il mercato stesso. Esso infatti dipende manifestamente per la sua sopravvivenza e per la sua sostenibilità sociale dal fatto che è integrato da altre modalità di produzione dei beni e di soddisfazione dei bisogni. E quanto più queste modalità si restringono, come vorrebbe il credo neoliberista che conosce solo individui atomizzati e che proclama che “la società non esiste”, tanto più entra in crisi, come la storia recente ha dimostrato abbondantemente, la stessa economia capitalistica. Perciò si può dire che il neoliberismo lavora a tagliare proprio il ramo sul quale è seduto.
* Stefano Petrucciani è Professore di Filosofia politica presso il Dipartimento di Filosofia della Sapienza – Università di Roma

NOTE
[1] Cfr. Marx-Engels, Opere, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 154.
[2] Ivi, pp. 181-182.
[3] Marx, Critica al programma di Gotha (1875), in Marx-Engels, Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 953-975: 972-973.
[4] Cfr. a questo proposito R. G. Peffer, Marxism, Morality and Social Justice, Princeton University Press 1990, p. 127, dove l’autore giustamente sottolinea che il bersaglio della critica di Marx è la tesi che la libertà negativa esaurisca il concetto di libertà, mentre invece per Marx ne è solo un aspetto limitato.
[5] Marx-Engels, Opere, vol. I, cit., p. 177.
[6] Ivi, p. 178.
[7] Ivi, pp. 177-78.
[8] Ivi, p. 177. Un’aspra critica del concetto giovane-marxiano della società si trova negli importanti lavori di Roberto Finelli, di cui si veda da ultimo Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Jaca Book, Milano 2014.
[9] Come osserva criticamente Jacques Bidet, “contrapponendosi al liberalismo, Marx si è situato in un certo qual modo sul terreno di esso, nella prospettiva storica che definisce la modernità capitalistica attraverso il mercato” (J. Bidet, Il capitale. Spiegazione e ricostruzione, ed. it. a cura di Eleonora Piromalli, manifestolibri, Roma 2010, p. 150).
[10] K. Marx, Il capitale. Libro primo, ed. it. a cura di A. Macchioro e B. Maffi, Utet, Torino 2009,  p. 271, corsivo di Marx.
* Fonte: Micromega

2 pensieri su “MARX E LA CRITICA DEL LIBERALISMO di Stefano Petrucciani*”

  1. Vincenzo Cucinotta dice:

    Interessante. Tuttavaia, Marx e lo stesso Petruccioli hanno ancora una visione centrata su ciò che è desiderabile. In altre parole, nell'articolo si dice che l'individualismo non va bene e che invece bisogna curare gli interessi sociali. A me invece potrebbe andar anche bene che si curino gli interessi individuali come vuole il liberalismo. Ciò per cui lo rifiuto è la constatazione della nostra natura sociale che esclude la possibilità che ci siano punti di vista realmente individuali. Come tristemente osserviamo nella società liberale in cui viviamo, la libertà di scelta teoricamente predicata risulta il mezzo più efficiente per costruire la società più conformista che sia mai esistita. Se per nostra natura non possiamo che essere fortemente condizionati da chi ci vive attorno, dalla società nel suo complesso, allora ogni scelta individuale è per certi versi una scelta collettiva. e quindi le tipologie di diritti individuali non sono una specie di diritto individuale, ma va al contrario definito politicamente volta per volta. Insomma, il liberalismo non è che sia un sistema cattivo, è un sistema errato sin nei suoi fondamenti e diventa dannoso proprio perchè, ignorando la vera natura umana, non può raggiungere i suoi obiettivi teorici, creando anzi delel società che sono nelal realtà una parodia del modello desiderato.

  2. Anonimo dice:

    Pccorre superare la dicotomia beni pubblici/beni privati per arrivare ai beni comuni, questa è la vera rivoluzione concettuale

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