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LA “QUESTIONE MERIDIONALE” A SCALA EUROPEA di Emiliano Brancaccio

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[ 24 dicembre ]

Una ricerca sulla “mezzogiornificazione” delle aree deboli d’Europa pubblicata sul Cambridge Journal of Economics. E un commento sulle politiche dei governi, che accentuano le sperequazioni tra Nord e Sud.

Intervista a Emiliano Brancaccio a cura di Emanuele Imperiali

Un’Italia spaccata in due, con il Settentrione che finalmente registra qualche timido segnale di ripresa mentre il Mezzogiorno anche quest’anno rimane al palo. E’ il quadro che emerge dall’ultimo rapporto di Bankitalia sulle economie regionali. Dell’allargamento della forbice tra Nord e Sud discutiamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica presso l’Università del Sannio e autore di ricerche pubblicate a livello internazionale dedicate alla divergenza tra aree economicamente più forti e aree più deboli d’Europa.
Professore, per Bankitalia e altri istituti di ricerca a fine anno il Centro-Nord segnerà un aumento del Pil di circa un punto percentuale, mentre al Sud dovremmo registrare crescita zero. L’uscita dal tunnel della crisi riguarda solo le regioni più ricche del paese?
Per nessuna zona del paese parlerei di “uscita dal tunnel”: anche lì dove si manifesta, la ripresa risulta molto fragile. E’ vero tuttavia che nella crisi generale del paese la frattura tra Nord e Sud tende ad accentuarsi. Il problema principale riguarda il crollo degli investimenti delle imprese: rispetto al 2007 nel Mezzogiorno sono precipitati di oltre un terzo, una caduta di dieci punti percentuali più pesante di quella, già di per sé drammatica, che si è registrata al Nord.
Le misure di rilancio adottate dal governo Renzi sembrano accentuare i divari: gli ultimi dati evidenziano uno spostamento di risorse pubbliche a favore del Centro-Nord. Penso al bonus di 80 euro. Come mai?
In alcuni casi si tratta di un risultato scontato. Prendiamo il famigerato bonus di 80 euro ai lavoratori dipendenti: era prevedibile che il beneficio fiscale andasse a vantaggio soprattutto delle regioni caratterizzate da più elevati livelli di occupazione. In altri casi il meccanismo è più sottile. Un esempio interessante è il modo in cui i fondi pubblici vengono oggi ripartiti tra le università. L’attuale sistema tende a penalizzare gli atenei in cui si registra un numero più elevato di iscritti fuori corso. Il problema è che nelle realtà meridionali gli studenti vanno un po’ più a rilento non tanto a causa di una inefficienza delle strutture universitarie, quanto piuttosto per la carenza di occasioni di lavoro offerte dai territori in cui operano. Il risultato è che l’istruzione pubblica superiore subisce tagli più accentuati proprio nelle aree economicamente più deboli, dove rappresenta una delle pochissime vie per l’emancipazione sociale. Potremmo descrivere molti altri esempi di meccanismi sperequativi, che determinano uno spostamento dei fondi pubblici a favore delle regioni più forti. Una parte rilevante di essi è stata ideata dall’attuale governo, ma a ben guardare si tratta di una linea di politica economica consolidata, che si reitera ormai da anni.
Un caso ulteriore è rappresentato dalla sanatoria fiscale dei capitali esportati illegalmente. A quanto pare i benefici andranno soprattutto a favore di contribuenti del Nord. Ma non era il meridione a detenere il record di evasione fiscale?
In termini assoluti l’evasione fiscale si concentra soprattutto al Nord, specialmente se si tratta di mancato gettito sui redditi da capitale. Era inevitabile, quindi, che la sanatoria sul rientro dei capitali espatriati provocasse un ulteriore effetto distributivo favorevole al Settentrione. Ma gli effetti negativi sul Sud non si limitano a questo.
In che senso?
Una sanatoria sui capitali fuoriusciti illegalmente avalla il convincimento che viga ormai una competizione fiscale senza regole, in cui pur di attrarre risorse finanziarie un paese è disposto a negare la certezza del diritto. E’ una delle forme più deteriori di quella concorrenza al ribasso che governa l’attuale sistema di rapporti internazionali, e che danneggia soprattutto le aree economicamente più deboli dell’Unione europea. Oggi ci illudiamo che permettendo agli evasori di rimpatriare i capitali a costi irrisori favoriremo gli investimenti in Italia, in particolare nel Sud. Domani ci renderemo conto che la sanatoria ha solo alimentato un clima di impunità, e che gran parte dei capitali è nuovamente fuoriuscita all’estero a caccia di rendimenti più elevati in paesi più spregiudicati del nostro non soltanto in ambito fiscale ma anche sul versante dei salari e delle condizioni di lavoro.
In una ricerca recentemente pubblicata sul Cambridge Journal of Economics, Lei ha parlato di “mezzogiornificazione europea”. Che cosa intende con questa espressione?
E’ lo sviluppo di una tesi sostenuta fin dagli anni Settanta dal compianto Augusto Graziani, che è stata in seguito riproposta dal premio Nobel Paul Krugman. L’idea centrale è che lo storico divario tra Nord e Sud Italia non rappresenta un’eccezione a livello europeo ma andrebbe piuttosto intesa come fenomeno anticipatore di una forbice che oggi si riproduce su scala continentale, tra i paesi del Nord e i paesi del Sud Europa. Anche questo è il risultato di politiche che invece di contribuire a ridurre i divari fra i territori tendono ad amplificarli.
Quali ricette per affrontare  questi divari che caratterizzano la “questione meridionale”, in Italia e in Europa?
Bisognerebbe riconoscere che le soluzioni “di mercato” adottate in questi anni non hanno dato i risultati attesi, e che i tagli alla spesa pubblica in conto capitale hanno prodotto più danni che benefici. La Svimez in questo senso fa bene a invocare una discontinuità di politica economica, basata sulla ripresa degli investimenti statali per la reindustrializzazione delle zone depresse. A mio avviso, però, questa richiesta di discontinuità andrebbe collocata in una riflessione più generale sul rapporto tra la cosiddetta globalizzazione e l’ampliamento dei divari tra aree ricche e aree povere. In questo senso domando: una credibile politica di rilancio dei Sud, in Italia e più in generale in Europa, può realisticamente svilupparsi in un contesto di indiscriminata libertà di circolazione internazionale dei capitali da e verso paesi che accumulano surplus verso l’estero a colpi di deflazione e concorrenza al ribasso? Molti studiosi, tra cui Dani Rodrik, ritengono che la risposta sia negativa. Forse è ora di aprire una discussione in merito.
* Fonte: Emiliano Brancaccio
Corriere del Mezzogiorno – Economia, 21 dicembre 2015

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