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MONDO DIGITALE, (ANTI)SOCIAL NETWORK, E VALORIZZAZIONE DEL CAPITALE di Michele Berti*

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[ 17 dicembre ]

Signori, allora vi farò un esempio…

Colletto bianco su vestito scuro, cravatta, segni particolari nessuno. Si muove sicuro, glaciale, distaccato. Così me lo immagino un Sir William Walker di oggi, in qualche sala riunioni della City. Rispetto all’avventuriero impersonato da Marlon Brando [vedi filmato più sotto, Ndr] quello che manca è  certo il fascino, ma in quanto a cinismo il cinematografico Sir William può essere considerato quasi un bravo ragazzo, un dilettante.

L’esempio sull’amore, il passaggio maestralmente diretto da Gillo Pontecorvo nel film Queimada, è una sintesi secca e cristallina di come la transizione dalla schiavitù al lavoro salariato ha rappresentato per il capitale una vantaggiosa necessità ed un passaggio evolutivo chiave in cui il processo di estrazione di valore dal lavoro si è ulteriormente sviluppato in seguito alle rivoluzioni industriali.
Il doppio paragone esplicato nel film tra matrimonio e schiavitù e quindi tra prostituzione e lavoro salariato è una perla che brillerà a lungo nelle menti di molti.
Ma cosa direbbe Sir William Walker nel 2015 alla sua ridotta platea di capitalisti moderni della piccola isola globale  chiamata pianeta Terra?
Quale grande salto evolutivo ha compiuto il sistema di estrazione di valore dal lavoro umano in questo ultimo mezzo secolo?

Fin dai tempi di Sir Walker, l’estrazione di valore per il capitale avviene attraverso il lavoro e fin dal XIX° secolo il procedimento di drenaggio di valore dalle persone è stato migliorato e reso sempre più efficiente e complesso anche attraverso un’intensa attività di sperimentazione durata generazioni e mai formalmente interrotta.
La massimizzazione del valore drenato avviene attraverso alcune condizioni che da sempre sono il pagare meno il tempo di lavoro effettivo, impiegare solo la quantità di lavoro che è necessaria, far lavorare consapevolmente o meno,  le persone senza retribuirle.
In ultimo minimizzare o cancellare qualsiasi appesantimento di costi del contesto lavorativo quali imposte, assicurazioni, spese previdenziali ecc.
Queste condizioni sono oggi perseguite a livello globale con meccanismi sempre più precisi e metodici.
La prima e l’ultimacondizione sono state ottenute dal capitale attraverso la delocalizzazionedelle attività produttive in paesi in cui il costo complessivo del lavoro risulta inferiore, a volte anche di dieci volte, a quello dei paesi sviluppati ottenendo in essi, come effetto desiderabile , anche una notevole pressione salariale al ribasso.
All’ingenua illusione di poter estendere i diritti del lavoro alle masse di sfruttati dei paesi emergenti e alla salvaguardia della competitività delle aziende nostrane è stata invece contrapposta la via del puro e semplice profitto, aumentando a dismisura i diritti del capitale rispetto ai diritti del lavoro.
Nei paesi sviluppati il processo di delocalizzazione e la  conseguente pressione salariale al ribasso ha portato all’impoverimento di interi ceti di lavoratori a livello nominale (guadagnanomeno della paga media), reale (il lavoratore ci compra meno beni di prima) e relativo (aumenta il divario tra paga oraria e valore prodotto attraverso il lavoro in un’ora).

Quest’ultimo aspetto è fondamentale per capire che dietro ad una esasperata ricerca di produttività si nasconde anche un aumento continuo dello sfruttamento reale dei lavoratori.
La seconda condizione, ovvero l’impiego della quantità di lavoro strettamente necessaria per compiere un’operazione di determinata utilità produttiva,  è stata perseguita introducendo nella legislazione del mercato del lavoro forme di occupazione  sempre più flessibili e di breve durata.
E’ l’idea del lavoro “a chiamata” e “just in time” cucita addosso ad un sistema produttivo sempre più frammentato, formato da una rete di fornitori e sub-fornitori che si muovono in un contesto sempre meno industriale e sempre più finanziario. 
Nel processo produttivo aziende grandi e piccole si trovano ad essere anelli all’interno di catene di  produzione esposte continuamente al ricatto del mercato, in termini di qualità, prezzo e tempi di consegna ma sempre dipendenti dal destino degli anelli vicini.
Basta che il rendimento economico complessivo dell’anello di produzione risulti inferiore a quello di qualche altro anello che si rischia di perdere repentinamente commesse e fatturati compromettendo anche gli anelli subalterni.  E’ chiaro che in un’incertezza del genere non c’è nessun incentivo ad investire in lavoro  e si prediligono rapporti flessibili che siano facilmente revocabilial primo calo di produzione, al primo anello che salta.
Oltre alla flessibilità molte volte per aumentare la produttività si ricorre anche all’intensificazione dei ritmi di lavoro, togliendo pause che prima erano  garantite e aumentando la frequenza dei turni.
L’esempio dello stabilimento ex FIAT di Pomigliano è solo il più famoso.
E’ la terza condizione, ovvero quella del lavoro non retribuito, la più interessante su cui riflettere.
L’estrazione di valore dal lavoro avviene senza che ci sia un compenso. Sembra impossibile ma è così.
Investimenti enormi sono stati fatti nelle tecnologie della comunicazione e dell’informatica che hanno portato alla massima filosofica non scritta “Sono connesso, dunque sono”.
Un messaggio potente, veicolato attraverso pubblicità e mass-media, ha costruito l’idea che la qualità della vita dipenda da quanto siamo in grado di essere aggiornati, veloci, tecnologici e quindi connessi.

Wi-fi, cellulari, tablet, ogni genere di dispositivo ci consente in ogni momento di mostrare al mondo, oltre che a noi stessi, quanto siamo informati e quanto la nostra vita valga la pena di essere vissuta.
La realtà è un’altra. Essere connessi 24 ore al giorno significa lavorare per 24 ore al giorno per qualcun’altro. Ogni secondo che passa, flussi interminabili di byte e di informazioni vengono scambiate, molte volte a nostra insaputa e senza nessuna possibilità di intervento.
Diceva Luhmann: 

“Siamo diventati meri relais, passive centraline di rilancio delle comunicazioni che riceviamo. Siamo immersi in un processo autogenerativo di produzione di comunicazione per mezzo di comunicazione, sradicato da ogni riferimento a un sistema psichico.”

Ecco quindi  che la connessione continua fa sembrare la risposta ad una mail di lavoro alla domenica o a un SMS notturno, una cosa normale anche quando la reperibilità è una voce che dovrebbe essere opportunamente remunerata. I gruppi whatsApp di lavoro da questo punto di vista sono trappole mortali.
Essere connessi H24, oltre ad essere un costo molto spesso piccolo ma iterato che va ad ingrassare grosse corporations del comparto telecomunicazioni, diventa un modo per diluire il tempo della nostra vita che trascorriamo al lavoro senza tirare fuori un cent di salario.
Ma in realtà, di cosa ci si lamenta? Siamo connessi, raggiungibili, possiamo inviare le foto del nostro tempo libero ad altri,   dal gatto di casa alle vacanze in Nepal, possiamo sentire i nostri famigliari, possiamo interagire con persone lontanissime.
Dietro tutto questo mondo virtuale e fittizio, la realtà è che il sistema ci desidera asserviti, connessi e alienati, dipendenti. Dipendenti in termini di rapporti di lavoro ma anche dipendenti da un apparato che sul nostro tempo di connessione crea profitto.

L'”utente” vive in una gabbia d’oro che non percepisce nella misura in cui i tempi dedicati a famiglia, tempo libero e lavoro confluiscono in uno stesso contenitore e  sono giustificati  dalla percezione che l’utilizzo di questi mezzi sia legato allo svago ed al divertimento.
Lo sviluppo più avanzato di questo tipo di processo è  nell’uso dei social network, dove inconsapevolemente  le persone impiegano il loro tempo di riposo dal lavoro, il proprio tempo libero e di svago, rimanendo ancora connessi.
Il tempo che gli utenti trascorrono sul social in realtà è lavoro e quindi profitto per chi, ammassando dati su dati, si segna ogni nostro piccolo desiderio, ogni nostra piccola tendenza, ogni nostra abitudine per poi rivenderla sotto forma di profili e statistiche all’apparato pubblicitario del marketing.

Tornando al concetto di dipendenza, sui social essa si esplicita al meglio. La dipendenza non è solo legame con il mezzo fisico, fonte molto spesso di alienazione, ma è un rapporto di lavoro vero e proprio in cui qualcuno, utilizzando il nostro tempo rigorosamente gratis, estrae e vende informazioni ricavandone profitto.
Questa è l’ultima frontiera dell’evoluzione dell’estrazione di valore dal lavoro, come ben sa il ministro Poletti che, in altri contesti, dichiara obsoleto l’orario di lavoro pensando a come inventarsi il cottimo del XXI° secolo.
Cosa direbbe quindi il nostro caro Sir William Walker?

Credo che dopo aver girato attorno al tavolo della lussuosa sala riunioni londinese avrebbe insegnato ai partecipanti che dopo aver soppiantato la moglie e fatto l’amore ad ore, la prostituta ormai, per qualche Gigabyte di traffico dati in regalo, a garanzia del suo ego virtuale e di un po’ di svago, apre la porta e ti fa accomodare gratis.

* Michele Berti, membro del Consiglio nazionale di Ora-Costituente e tra i promotori di P101

Un pensiero su “MONDO DIGITALE, (ANTI)SOCIAL NETWORK, E VALORIZZAZIONE DEL CAPITALE di Michele Berti*”

  1. Angela Matteucci dice:

    Un articolo "fresco" concreto, intenso, vero, stimolante che condivido in pieno.Angela Matteucci

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