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ALBERTO BAGNAI E LO SPETTRO DI MARX di Moreno Pasquinelli

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[ 20 gennaio ]

«L’unica funzione delle previsioni economiche è quella di far apparire rispettabile l’astrologia».

J. Kenneth Galbraith

«L’economia dipende dagli economisti quanto il tempo dipende dai meteorologi».

Jean-Paul Kauffmann



A premessa

Sulla pretesa dell’economia di essere scienza, e degli economisti di essere considerati scienziati, rimando ad un mio contributo [DI CHE SCIENZA STIAMO PARLANDO?] Me la prendevo con un disarmante intervento su Il Sole 24 Ore del “luminare” Antonio Guarino (pace all’anima sua) che tacciò l’Appello dei cento economisti  (una critica di tipo keynesiano alla politica economica delle oligarchie euriste ma svolta in nome dell’ideale unionista europeo) come “non scientifico” perché lo condannava, a torto, marxista.
Guarino scriveva:

«Che scienza è quella in cui ci si distingue in scuole, peraltro chiaramente legate a opinioni politiche? Per fortuna le cose non stanno così. In tutti i dipartimenti di economia del mondo in cui si fa ricerca scientifica, da Harvard a Standford alle migliori scuole europee, gli economisti non si distinguono in base a faziose visioni del mondo, ma solo in base alla specializzazione scientifica. (…) La scienza economica progredisce con ricercatori che propongono nuove teorie e altri che le sottopongono a verifica empirica. Così si fa in economia, così come in tutte le scienze. I ricercatori di economia cercano solo di capire i fenomeni economici con gli strumenti matematici e statistici che negli anni hanno sviluppato, non vogliono proporre una visione del mondo».

L’idea che uno possa essere considerato scienziato solo se scevro da ogni visione del mondo, solo se fa suo il principio weberiano di separare giudizi di fatto da quelli di valore è lo stigma dei quella peculiare ideologia che va sotto il nome di economia politica.


E qui veniamo subito ad Alberto Bagnai il quale, in un post recente dal titolo Addendum sugli azeri e discours de la méthode scrive:

«Poi c’è un altro elemento, che secondo me è quello cruciale. Io ho scelto fin dall’inizio, e l’ho anche esplicitato, come ricorderete, qui, di combattere quello che si proponeva e veniva percepito come mainstream, usando l’armamentario teorico del mainstream. Questo ha suscitato fin dall’inizio una serie di stolte polemiche con personaggi “puri e duri” di varia estrazione e livello intellettuale. Dal brillante economista post-keynesiano che mi rimproverava di usare l’IS/LM, al marxista-leninista che mi imputava di credere nel mercato (dopo 800 pagine sui fallimenti del mercato), al simpatico infiltrato di provincia che mi rampognava l’uso del “moltiplicatore monetario” nelle mie dispense del 1997». [sottolineature mie]

E’ possibile che io abbia la coda di paglia, ma ho la vaga sensazione che con quel “marxista-leninista” egli si riferisca proprio al sottoscritto. Ammettiamo di sì. Bagnai lascia capire che la mia critica sarebbe stata pretestuosa e faziosa poiché, nel mercato, lui, non crederebbe affatto. 

Problema

Lui quale? Visto che di Bagnai ce ne sono almeno due: il posato cattedratico che ricorre all’armamentario concettuale marginalista o Dr. Jekyll, e un cazzuto Mr. Hyde che indossa, in peculiari circostanze, una improbabile maschera anticapitalista. Se insisto ad occuparmi del Dr. Jekyll è perché considero lo sdoppiamento solo un trucco, poiché in sede scientifica non ci si occupa dei travestimenti, e perché, diciamolo, mi annovero tra coloro che Bagnai lo prendono sul serio. 
Di eventuali doppie nature lasciamo che si occupi la disciplina che su questo si scorna da duemila anni: la cristologia e la mistica sufi.


Ma che sul serio travisai il suo pensiero?  [1]  Davvero Bagnai non sarebbe un seguace della teoria marginalista del valore — quella per cui il valore di un prodotto dipenderebbe, non da lavoro contenuto in una merce ma dall’importanza che il consumatore attribuisce al prodotto stesso, quindi, più il prodotto è desiderato, più ha valore? 
Non mi pare proprio.

Nello stesso Addendum sugli azeri infatti Bagnai scrive:

«Ora, il fatto è che quella di combattere il mainstream con le armi del mainstream è stata una scelta tattica ben precisa, ed è una scelta vincente, anche se farla richiede una certa intelligenza (e quindi non lo si può chiedere a tutti). Semplicemente, il discorso è: “Sei liberale? Bene, anch’io (del resto, Keynes lo era). Ma allora perché tu vuoi un sistema nel quale viene impedito ai prezzi di dare un segnale che guidi correttamente la libera azione degli individui?“». [sottolineatura mia]

Abbiamo dunque, seguendo il suo ragionamento, se quest’ultimo contiene un briciolo di contenuto di verità o rigore scientifico, che i prezzi dovrebbero essere lasciati liberi di “guidare correttamente la libera azione degli individui“. Tornerò sul feticismo manifesto nascosto in questo pastrocchio teorico, ovvero sulla radicale antitesi concettuale per cui, se liberi di muoversi sono i prezzi delle merci l’azione degli individui non sarà mai libera ma al contrario coatta.

Da Smith a Marshall-Lerner …

Cosa si evince da quanto scrive il Nostro?  Che la sua non è affatto “tattica” comunicativa o discorsiva [2] bensì la condivisione dell’antidiluviano dogma teologico liberoscambista della “mano invisibile del mercato” che tutto sistemerebbe (una versione secolarizzata della Divina Provvidenza), quindi che i prezzi sarebbero determinati e fissati ex-post dalla pseudo-legge della domanda e dell’offerta, quella per cui l’incontro di acquirenti e venditori condurrebbe al formarsi automatico di un prezzo d’equilibrio, che la quantità domandata sarebbe uguale alla quantità offerta. Il che rimanda a sua volta a Say ed alla sua legge degli sbocchi per cui, a condizione che le forze del mercato siano lasciate libere di operare, si assicurerebbe un equilibrio economico permanente e gli eventuali squilibri provvisori sarebbero destinati a raggiustarsi.


Dunque debbo confermare quanto scrivevo due anni fa. La questione non è solo di astratta dottrina, né tantomeno linguistica, ha delle pesanti ricadute sull’oggi. 
Se infatti proviamo a distillare l’essenza della critica di Bagnai alla moneta unica è questa: il regime di cambio fisso, impedendo la libera fluttuazione dei tassi e dei prezzi, causa lo squilibrio delle bilance dei pagamenti favorendo quelle economie che con più efficacia hanno perseguito la via della deflazione salariale (e grazie!). 
Basterebbe dunque, per avere una “economia simmetrica” —concetto tanto caro al Nostro— seguire la condizione di Marshall-Lerner e svalutare la moneta et voilà, le cose tornerebbero al loro posto “naturale” e il motore economico italiano riprenderebbe a tutto gas. Di qui la sua tesi politica che sarebbe del tutto indifferente uscire dall’euro “da destra o da sinistra”, quindi lo sconcio capitombolo del voto alla Lega ruspista salviniana. Le cose non stanno così: il motore dell’economia italiana, per ripartire, ha bisogno di ben altro e la sovranità monetaria è solo una condizione necessaria ma nient’affatto sufficiente. Ciò che chiama in causa non solo retorici riferimenti alla”lotta di classe”, ma un’alternativa di società. Qui sta un punto cruciale: da quanto scrive e dice il Nostro non si intravede alcuna alternativa, se non il miraggio di un capitalismo dal volto umano.

Come ognuno capisce (al netto delle antinomie) si affloscia e cade l’alibi che quella in questione sarebbe soltanto una “tattica” comunicativa. La verità è che, proprio come nel mito platonico della caverna, Bagnai è prigioniero dell’universo simbolico dell’economia politica mainstream e non riesce a venirne fuori. La verità è che, adottando il dogma mercatistico sulla funzione magico-totemica dei prezzi, ovvero la metafisica legge della domanda e dell’offerta (che Marx giustamente considerava il marchio di fabbrica della “economia politica borghese”), in barba alle “800 pagine di fallimenti del mercato”, va a farsi friggere la sua stessa critica al liberismo, sia quello in salsa ordoliberista che più squisitamente neoliberista.  E perché va a farsi friggere? Perché, come Bagnai ben dovrebbe sapere, una forma di mercato perfettamente concorrenziale (con il dovuto rispetto per la fiaba di A. Smith) è solo una chimera metafisica. Le forze di mercato, lasciate libere a sé stesse, non hanno mai prodotto né uno stabile equilibrio tra domanda ed offerta né l’ottimale efficienza allocativa. Con le disastrose conseguenze (per la maggioranza dei cittadini, non per chi è in cima alla piramide sociale) a tutti note. Come sosteneva Marx, la produzione dei beni come merci, non solo non sfamerà il mondo, ma porta con sé catastrofi economiche la cui profondità sarà pari allo sviluppo raggiunto dalle forze produttive. E la cosa ci riporta alla causa ultima di queste catastrofi, cioè la sovrapproduzione, che sta alla base del marasma attuale che scuote l’Occidente —e di cui gli altri fattori sono solo concause secondarie. Crisi di sovrapproduzione? Caduta tendenziale del saggio di profitto come portato dello stesso sviluppo delle forze produttive capitalistiche? Bagnai farà una rumorosa pernacchia…

I prezzi nell’era dei monopoli e degli oligopoli

Ammesso che un regime di concorrenza perfetta sia mai esistito, di certo non esiste da quando il capitalismo è passato allo stadio imperialistico, segnato dalla posizione dominante dei monopoli e degli oligopoli, supremazia che ha effetti decisivi sulla formazione dei prezzi e sulla dinamica degli scambi a scala globale. Lo sanno anche i bambini, oramai, che la concentrazione delle risorse naturali, dei mezzi di produzione e di scambio nelle mani di poche colossali imprese multinazionali consente loro non solo di influenzare ma di manipolare unilateralmente i prezzi di vendita delle merci modificando a proprio piacimento sia la quantità offerta che quella domandata. Lasciare liberi i prezzi nei mercati monopolistici globali equivale a lasciar liberi i monopoli di fare il bello ed il cattivo tempo, legittimando non solo la loro caccia al massimo profitto a spese del lavoro salariato, dei popoli e di madre natura, ma pure l’assoggettamento degli Stati. L’euro essendo solo l’ultima e più diabolica forma di scippo delle sovranità degli stati nazionali.


Le cronache di questi giorni sono piene di prove fattuali su come i prezzi (da quelli delle materie prime a quelli delle valute, ma pure a quelli dei titoli finanziari) crollano o salgono non anzitutto grazie alle “cieche leggi di mercato”, ma in virtù delle mosse di potenti decisori globali, siano essi multinazionali, banche centrali o Stati nazionali. Vogliamo poi parlare delle “libere leggi di mercato” che soggiacciono alla madre di tutti gli scambi, quella tra lavoro capitale? C’è forse bisogno di scomodare Marx per capire quale inganno si celi dietro all’idea che capitale e lavoro si confrontino sul mercato ad armi pari? Quale spontaneo incontro può esserci in ambiente capitalistico tra chi, avendo il monopolio dei mezzi di produzione, domanda lavoro e chi, per tirare a campare, può offrire la sola merce che possiede, ovvero la sua forza-lavoro? La parità giuridico-formale nasconde la più grande delle disparità sostanziali. Le centinaia di milioni di migranti che vengono deportati da un capo all’altro del mondo in cerca di lavoro ne sanno qualcosa di come opera la “mano invisibile” e come essa alloca “ottimamente” (per il capitale) le risorse. E ne sanno qualcosa, delle virtù salvifiche delle leggi di mercato, alias dittatura del capitale, i milioni di precari costretti a vendersi per quattro soldi.

La legge della domanda e dell’offerta… Un totem dietro al quale il capitale non solo cela la sua dispotica supremazia, ma vorrebbe far credere che la fonte della ricchezza, sua e quella generale, non sia il lavoro che gli produce un plusvalore, ma sé medesimo.

Ma davvero i prezzi delle merci (non parliamo qui dei titoli finanziari) sono determinati da questa pseudo-legge? Oppure, come sosteneva Marx (correggendo la tesi del “valore intrinseco”), essa è solo un epifenomeno ed i prezzi sono anzitutto determinati dalla quantità di lavoro sociale mediamente necessario per produrle?
Sentiamo Marx:

«Commettereste un grave errore se ammetteste che il valore del lavoro o di qualsiasi altra merce è determinato, in ultima analisi, dall’offerta e dalla domanda. La domanda e l’offerta non regolano altro che le oscillazioni temporanee dei prezzi sul mercato. Esse vi spiegheranno perchè il prezzo di mercato di una merce sale al di sopra o cade al di sotto del suo valore, ma non vi possono mai spiegare questo valore. Supponiamo che la domanda e l’offerta si facciano equilibrio o, come dicono gli economisti, si coprano reciprocamente. Nel momento stesso in cui queste forze contrapposte sono ugualmente forti, esse si elidono reciprocamente e cessano di agire in una direzione o nell’altra. Nel momento in cui domanda e offerta si fanno equilibrio e perciò cessano di agire, il prezzo di mercato di una merce coincide con il suo valore reale, con il prezzo normale, attorno al quale oscillano i suoi prezzi di mercato. Se indaghiamo la natura di questo valore, non abbiamo niente a che fare con gli effetti temporanei della domanda e dell’offerta sui prezzi di mercato. Lo stesso vale per i salari e per i prezzi di tutte le altre merci». [3]

Capiamo che per alcuni lettori la spiegazione di Marx possa risultare inaccessibile. Non spaventatevi, lo è anche per certi economisti della cattedra. Lo studio fa fatica, e non produce risultati se prima non si cambia di paradigma. 

La nostra tesi è che il valore delle merci è in ultima istanza determinato dalla quantità di lavoro umano in esse contenuto, ma i loro prezzi possono oscillare (sotto o sopra il valore medio) anche a causa della domanda e dell’offerta. Per correggere Marx quindi: il prezzo non viene determinato solo  ex ante, dal lavoro incorporato, ma pure ex post, dalla domanda di mercato. Potremmo dire che è co-determinato, figlio di una correlazione per sua natura non solo mutevole ma contraddittoria.

E Keynes…

Ribadisco perciò la mia critica: considerare quella della domanda e dell’offerta la “legge” che spiegherebbe la formazione dei prezzi delle merci, svincolare i prezzi dal loro contenuto di valore, svela la sostanziale adesione alla teoria marginalista per  cui il valore sarebbe determinato non anzitutto a monte, nel ciclo del lavoro produttivo, ma a valle, al lato dei gusti e delle preferenze dei consumatori.


Gli avvocati d’ufficio di Bagnai, infastiditi, agiteranno lo spauracchio: “Ancora con questa solfa della legge marxista del valore? Volete forse abolire il mercato e pianificare tutto? Keynes dava piuttosto la giusta risposta e Bagnai si muove sul solco del maestro”.

Non spetta a noi stabilire il tasso di keynesismo che scorre nelle vene del Nostro ed in quelle degli altri keynesiani in circolazione. Del resto, se sono entrati in uso i suffissi quali neo e post, una ragione dev’esserci. Ed è che nemmeno il pensiero di Keynes è il talmud —come per noi non lo è quello di Marx. 

Una domanda i neo e post keynesiani dovranno pur porsela: com’è che il cosiddetto “trentennio dorato” si è sfracellato aprendo la strada ad un nuovo e globale neoliberismo? Ci permettiamo, tanto per restare in tema, ed evitando puerili risposte cospirative, di suggerire una risposta: non sarà che gli “spiriti animali” del capitalismo sono irriducibili ad ogni regolazione pubblica? Che la classe borghese che li incarna tende al dominio incontrastato ed a sussumere lo Stato come sua propria protesi? Non sarà che le politiche keynesiane sono andate ramengo anche a causa del combinato disposto delle grandi conquiste operaie in seno ai paesi imperialistici (con conseguente caduta dei profitti) e dei successi dei movimenti di liberazione delle periferie che a quei paesi impedirono di perpetrare la mulitisecolare rapina che sostenne il loro sviluppo nonché il successo dello stesso “trentennio dorato”? Che poi, di contro una posticcia leggenda, non siano state le terapie keynesiane a far uscire il capitalismo dall’ecatombe del ’29, è questione assodata da tempo —ci sono volute le immani distruzioni della seconda grande guerra e livelli salariali da fame in cambio di una crescente. produttività del lavoro a far ripartire i motori delle economie capitalistiche nel dopoguerra.

No, non vogliamo “pianificare tutto”. Nel socialismo che immaginiamo resteranno sfere mercantili, ma i grandi settori economici dovranno essere di proprietà pubblica, quindi orientati a rispettare il bene comune. Chiamatela, se volete, “pianificazione”. E’ possibile conoscere ex ante tutti gli output sulla base dei quali orientare la produzione e allocare le risorse sociali? No, non tutti sono conoscibili, ma buona parte lo sosno e comunque non si può lasciare al mercato decidere tutto ex post. Già nella regolazione economica in ambiente capitalistico sono impliciti elementi di pianificazione sistemica. Quindi proveremo ad andare oltre Keynes (sui limiti della sua teoria abbiamo scritto molto, in specie QUI) che per spiegare le crisi generali del capitalismo aveva sì plagiato Marx, ma rifiutandone le radicali implicazioni. Andremo oltre l’idea che la collettività  organizzata debba limitarsi a svolgere ruolo di supplenza nei periodi di tempesta affinché poi il mercato torni al suo tran tran. Ci sarà domani lavoro socialmente utile per degli economisti che si rispettino.


Feticismo e reificazione

Mi accingo alla conclusione, appunto spiegando la radicale antinomia contenuta nell’affermazione del Nostro secondo cui “… i prezzi debbono essere lasciati liberi di guidare la libera azione degli individui” Un pastrocchio teorico dicevo, perché qui le due libertà entrano in aperta collisione, sono anzi in una relazione antagonista.
Abbiamo detto che in mercati monopolistici ed oligopolistici i prezzi non si muovono affatto “liberamente” in base alla pseudo-legge della domanda e dell’offerta, ma vengono in larga misura determinati ex ante da singole potentissime multinazionali (da grandi banche centrali e d’affari e dagli Stati) o tra accordi di cartello fra esse. Inutile dilungarsi nello spiegare che in simili mercati l’economia dei prezzi non solo condiziona la vita degli individui (parliamo anzitutto dei salariati, i soli che pur essendo titolari della merce che possiedono non hanno la facoltà, come può invece un droghiere con le sue mercanzie, di cambiare il prezzo sul cartellino) ma addirittura, manipolando il loro immaginario, predetermina i loro bisogni. Ma di quale “libera azione degli individui” si sta parlando?!

Il gregge degli homine bagnaiani obietterà che né Dr. Jekyll né Mr. Hyde sono a favore, anzi, delle multinazionali, che quindi io starei distorcendo il pensiero di entrambi. Ah sì? Ed allora a quale tipo di mercati gli sdoppiati farebbero riferimento? Ai “bei tempi” andati degli albori del capitalismo? Quando si lavorava come bestie 16/18 ore al giorno, compresi i bambini? Quando si andava in Africa a incatenare gli schiavi? Quando l’Inghilterrà di Sua Maestà colonizzava e depredava mezzo mondo per finanziare la sua rivoluzione industriale? Di certo non fa riferimento al “trentennio dorato”, che fu appunto l’epoca della definitiva affermazione dei mercati oligopolistici e dove ad ogni modo gli Stati “keynesiani” intervenivano, e come, per impedire il “libero gioco dei prezzi”?

Mi ripeto: una forma di mercato perfettamente concorrenziale o in equilibrio è solo una chimera metafisica.


L’homo bagnaianus, letteralmente rapito dalle esibizioni econometriche del Nostrosi chiederà: 
“E vabbè,  mò che centra il feticismo? Di nuovo con questi mischietti marxisti di economia e filosofia?” C’entra eccome invece. Se il feticismo è l’attribuire potere magico agli oggetti, in economia questo feticismo è l’attribuire alle cose create dagli uomini, in questo caso alle merci —«A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezze metafisiche e di capricci teologici» scrisse Marx—  la capacità di comandare e appunto guidare le loro azioni. Di qui la metamorfosi per cui i rapporti tra gli uomini sono non solo mediati dalle cose, ma trasformati in rapporti tra cose (reificazione).
Cos’è infatti che gli uomini, quando vendono e comprano merci si scambiamo se non il frutto del proprio lavoro, della propria creatività, del loro tempo di vita? 
Sono quindi gli uomini reali che producono i soggetti, ed i prodotti un loro predicato. Col capitalismo, invece, avviene l’inversione soggetto predicato, per cui si vale e ci si relaziona in base alle merci che si possiedono, in cima a tutte la loro forma suprema e astratta: il denaro. Di qui il feticismo, «il misticismo del mondo del le merci, tutto l’incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci», visto che «Il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale». [4]

Quindi il Dr. Jekyll, pur conducendo una sacrosanta critica della moneta unica, spesso con argomenti ficcanti, non solo non ha nelle sue corde l’anticapitalismo, sul piano della dottrina, che lo ammetta o meno ed al netto delle piroette tattiche, è un seguace della più apologetica tra le teorie economiche capitalistiche: il marginalismo. Che non è solo una teoria economica ma una vera e propria visione del mondo, quella di Pippo. Visione che Bagnai ha infatti scolpito addirittura ne frontespizio del suo blog:

«L’economia esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato essenziale. Per contribuire a una lettura più equilibrata della realtà abbiamo aperto questo blog, ispirato al noto pensiero di Pippo: “è strano come una discesa vista dal basso somigli a una salita”. Una verità semplice, ma dalle applicazioni non banali…»

Una vera e propria chicca teorica che se non sbaglio avevo già udito al bar dello sport. 
Il carro viene messo davanti ai buoi, lo scambio e non il processo lavorativo posto a fondamento dell’economia, e quindi la principale contrapposizione sarebbe non quella tra la classe dei lavoratori salariati ed il capitale, bensì (straordinaria scoperta sociologica) tra venditori e compratori (sic!). Una contrapposizione tra individui-mercanti, che poi il libero gioco della domanda e dell’offerta, con l’aiuto provvidenziale della “mano invisibile”, risolverà. 
Se non è feticismo questo…

Questa non è la “tattica di combattere il mainstream con le armi del mainstream”. Qui, propriamente, non c’è alcun combattimento.

NOTE

[1] così ricapitolavo il punto di vista del Nostro:
«(1) la crisi non chiama in causa la struttura del sistema capitalistico, essa trae origine da alcuni “squilibri”; (2) dipende dal fatto che i debiti privati sono diventati pubblici; (3) se è anzitutto crisi dell’eurozona, ciò dipende dallo squilibrio delle partite correnti e delle bilance commerciali; (4) l’euro è causa essenziale poiché, che con le parità fisse, impedisce alle leggi di mercato di farsi valere anche nella sfera valutaria. La cura per uscire dal marasma sarebbe quindi semplice: tornare alle valute nazionali, e, grazie al gioco compensativo delle svalutazioni e rivalutazioni, i mercati capitalistici, compresi quelli finanziari e valutari torneranno a scoppiare di salute».

[2] Che Bagnai aderisca alla dogmatica liberista sulla funzione dei prezzi l’ha ripetuto in numerose occasioni. Sentiamo questa perla:

«La legge della domanda e dell’offerta.
Vi ricordo un principio fondamentale dell’economia: la legge della domanda e dell’offerta. Su un determinato mercato, se si presentano molti acquirenti (eccesso di domanda) il prezzo dovrebbe salire, se invece c’è scarsità di acquirenti (eccesso di offerta, cioè difetto di domanda) il prezzo dovrebbe scendere. Sì, lo so, mi dite che sono tecnico: ma vi ho detto che non parlo a tutti. Parlo solo a quelli che preferiscono comprare una spigola a 12 euro al chilo presentandosi sabato alle 13 (quando il mercato sta per chiudere e il pescivendolo “ta ‘a tira dietro”, come dicono a Roma), anziché pagarla 20 euro al chilo presentandosi venerdì alle 10 (quando la pressione della domanda è forte e c’è ancora un giorno e mezzo davanti). O, poi se ne hai proprio voglia la paghi anche 40 euro al chilo, per carità, sono fatti tuoi. Ma mi avete capito, no?
Bene. Ora, quello che vale per le spigole, dovrebbe valere anche per le tele di Teomondo Scrofalo, e anche per i titoli di Stato: se c’è molta domanda, il prezzo sale, se c’è poca domanda il prezzo scende». [Aste per tutti i gusti]

[3] K. Marx. Salario, prezzo e profitto

[4] «L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori»
Karl Marx. Il Capitale.  LIBRO I -SEZIONE I -Merce e denaro – CAPITOLO 1 -La merce – IL CARATTERE DI FETICCIO DELLA MERCE E IL SUO ARCANO.








13 pensieri su “ALBERTO BAGNAI E LO SPETTRO DI MARX di Moreno Pasquinelli”

  1. Anonimo dice:

    Interessante, approfondite se potete.Non capisco però perché dovrebbe essere il lavoro a creare valore in base alla semplice "quantità".Alcuni esempi e scusate se magari sono ingenui ma credo che anche altri si pongano gli stessi questi:1) ci sono due proprietari di miniera. Una di quarzo e una di diamanti. Il lavoro totale di estrazione è identico per le due miniere però il prezzo di una quantità di quarzo corrispondente a una unità di lavoro sarà certamente molto minore rispetto all'equivalente in diamanti2) due artisti dipingono dei quadri. Hanno studiato insieme lo stesso numero di anni e fanno un quadro nello stesso numero di ore. Uno dei due però venderà le sue opere a prezzi altissimi e l'altro dovrà accontentarsi di prezzi più bassi. Non dipende da quanto lavorano ma dai gusti del pubblico3) Renault e Citroen progettano una nuova macchina. Gli ingegneri e i creativi delle due ditte lavorano lo stesso numero di ore e cosí gli operai solo che Renault riesce ad avere l'idea innovativa con la pubblicità più accattivante mentre Citroen fa un buon prodotto ma senza una decisiva innovazione e con un marketing non indovinato per cui nonostante la quantità di lavoro sia sostanzialmente uguale (e nella realtà è spessissimo cosí) la gente comprerà più Renault quindi dopo un po' i prezzi Citroen dovranno abbassarsiSe mi spiegate questo vi ringrazio.

  2. chiunque scriva ciò che vuole dice:

    Provo a rispondere: L'esempio di quarzo e diamanti non funziona per una ragione semplicissima: quarzo e diamanti hanno prezzi diversi unicamente perché la loro presenza in natura e il lavoro per estrarli è enormemente diverso: il quarzo lo si trova con grande facilità, c'è persino nella sabbia dei fiumi, i diamanti invece sono molto più rari e molto più impegantivo il lavoro per estrarli. Opere artisticheNon sono i gusti del pubblico a decidere il valore dei dipinti mai mercanti d'arte e tutta la serie di influenze di critici e sedicenti esperti. (Picasso non sarebbe mai divenuto quello che è se Gertrud Stein non avesse iniziato a valorizzare i suoi quadri). Il valore degli artisti viene creato dal "mercato" che ne caso dell'arte è probabilmente il più manipolato di tutti. Nel caso dell'opera d'arte c'è infine l'aspetto del feticismo, l'originale che vale per il solo fatto di esserlo (e finché non si scopre che magari è un falso). L'esempio delle automobili sembra calzare meglio l'obiezione, ma per chi come il sottoscritto ha lavorato in un ufficio prototipi la cosa non è cosí semplice: una innovazione è sempre frutto di lunga ricerca e grossi investimenti, l'idea geniale non appare di notte ad un igegnere che magari ha fumato mariuana ma è frutto di prove e lunghi studi e collaudi. Dunque se un' auto si vende meglio di un'altra è quasi sempre perché in essa c'è più forza lavoro (e capitale fisso) investito. Ovviamente la pubblicità gioca la sua parte (ma anche qui, la pubblicità più efficace implica maggiori costi, dunque in tutti i casi citati la quantità di lavoro è sostanzialmente decisiva per determinare il prezzo.

  3. Anonimo dice:

    E allora lascia stare il quarzo, era un esempio.Esistono sostanze che per estrarle l'operaio lavora come un somaro esattamente come un altro che però estrae minerali di maggior prezzo.Sull'artista abbi pazienza, non mi venire a dire che Picasso senza Gertrude Stein non avrebbe venduto perché significa che non frequenti la pittura. È uno dei più grandi della storia e comunque ci sono centinaia o migliaia di altri esempi. Prendi un quadro fiammingo che ha richiesto un lavoro da certosino dell'artista poi del restauratore e prendi "concetto spaziale" di Lucio Fontana che consiste in una rasoiata sulla tela più una spruzzata di fissante per un totale di un'oretta al massimo (o di più se c,è da aspettare che si asciughi il fissante). Il primo costa qualche decina di migliaia, il secondo supera il milione.Sulle macchine lo dici tu stesso: "quasi sempre".Scusate, questa cosa che il valore di un manufatto dipenda direttamente dalla quantità di lavoro non mi sembra esatta quindi invito la Redazione a spiegarla meglio dato che è presumibile che molti altri si pongano gli stessi problemi.

  4. chiunque scriva ciò che vuole dice:

    Sul resto dei commenti tralascio, e concordo che il rapporto fra valore di un manufatto e lavoro contenuto il discorso è più complesso. Chiaramente conta anche il lavoro che non si vede immediatamente ma che sta a monte. Forse è più facile prendere l'esempio dei servizi:un chirugo che opera al cuore con un'operazione che dura otto ore costa intorno ai 100.000 euro, un operario che lavora otto ore in fabbrica o chiunque svolga un servizio per la stessa durata non può certo avere un costo paragonabile. Dunque nella "quantità di lavoro" rientrano i costi a monte ma indispensabili alla specifica esecuzione del prodotto o del servizio: la formazione di un chirugo e del suo team costa evidentemente molto di più che non la formazione di un tornitore o di un sorvegliante. Per quanto riguarda l'arte invece probabilmente non hai capito che la mia era appunto un ragionamento "ad absurdum", esattamente il caso in cui la teoria tempo lavoro e valore è inapplicabile. Io sono pittore copista (non falsario: eseguo copie identiche ma le vendo come tali e non come originali) e dei quadri della lista che includo (i quadri più cari venduti alle aste) ne ho copiati un buon numero (e Picasso non figura fra i primi) : https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_most_expensive_paintings.Ho copiato però anche alcuni dei suoi quadri, lo considero geniale, non tanto per le sue opere più diffuse (certo ne ha eseguite alcune che derivano da un talento eccezionale, ma non sono le più famose) ma soprattutto per essere riuscito in vita ad arricchirsi con la sua arte, al contrario di Gauguin – il quadro più caro è il suo (l'ho copiato) che poté dedicarsi alla pittura solo perché prima aveva prima speculato con successo in borsa. E subito dopo di lui viene Modigliani, morto in miseria come Van Gogh, i cui quadri sono parimenti fra i più cari alle aste.E concordo pienamente che per certi pittori moderni come quello che hai citato il prezzo non ha nulla a che vedere col lavoro impiegato: sempre più spesso sono i mercanti a creare gli artisti. Ma infine: l'arte non ha prezzo, è il campo esatto in cui appunto il discorso non vale, questo volevo in sostanza dire. Anche in letteratura vale lo stesso discorso: dopo 70 anni i diritti d'autore cessano, non per questo l'opera letteraria perde di valore. Per i prodotti commerciali di uso e consumo come pure per i servizi invece sono convinto che il discorso vale, ovviamente tenendo conto come spiegava Marx, sia del capitale variabile (lavoro) ch edi quello fisso (macchinari) e aggiungerei, formazione del lavoratore, ingegnere, ecc. ecc.

  5. Redazione SollevAzione dice:

    UNA PRIMA RISPOSTA A MARCO VALERIOLei tocca una questione su cui molti critici di Marx hanno insistito, a partire da E. Von Bohm-Bawerk, uno dei massimi esponenti, assieme a Menger, della scuola marginalista. La sua critica alle teoria del valore di Marx è la madre di tutte le altre. Bawerk sottolinea la contraddizione, in merito alla teoria del valore espressa da Marx, tra il terzo libro del Capitale che tratta di profitto e formazione del prezzo, e il primo libro che tratta proprio della teoria del valore— ovvero la questione della trasformazione dei valori in prezzi. Ha quindi criticato Marx per la sottovalutazione del processo di domanda e offerta nella determinazione del prezzo.L'obiezione sollevata da Marco Valerio si muove sulla falsa riga di quella di Bawerk che si chiedeva: "perchè una statua, il cui costo è una giornata di lavoro di uno scultore, si scambia con un sacco di pietre che costa cinquanta giornate di lavoro al tagliatore di pietre, e non con dieci o con tre?"Bawerk contestava la spiegazione di Marx, il quale ricorse alla coppia "lavoro semplice" e "lavoro complesso". Sentiamo Marx:«Ora, allo stesso modo che nella societa’ civile un generale o un banchiere gioca un ruolo importante mentre l’uomo comune fa una parte insignificante, lo stesso accade al lavoro umano. Si tratta di un dispendio di forze semplici che ogni uomo ordinario, senza alcuna formazione particolare, possiede nell’organismo del suo corpo. Il lavoro semplice medio cambia, e’ vero, di carattere nei differenti paesi e secondo le epoche, ma e’ sempre determinato all’interno di una società data. Il lavoro complesso—skilled labour—e’ solo una potenza del lavoro semplice, o piuttosto non e’ che lavoro semplice moltiplicato, di sorta che una quantità data di lavoro complesso corrisponde ad una quantità più grande di lavoro semplice. L’esperienza mostra che questa riduzione opera costantemente. Allorquando una merce e’ un prodotto di un lavoro più complesso, il suo valore la riconduce, in una proporzione opportuna, al prodotto del lavoro semplice, di cui essa rappresenta solo una quantità determinata. Le proporzioni diverse, secondo le quali differenti specie di lavoro sono ridotte a lavoro semplice come alla loro unita’ di misura, si stabiliscono nella società all’insaputa dei produttori e appaiono loro come consuetudini tradizionali. Di conseguenza, nell’analisi del valore, ogni varietà di forza-lavoro va trattata come forza-lavoro semplice». [Il capitale, Libro Primo]Questa "riduzione" di lavoro complesso a lavoro semplice, come del resto la teoria del valore che implica la misurazione del valore in base al tempo di lavoro, è stata sottoposta a critica anche da parte di numerosi intellettuali d'area marxista. En passant: se cade la teoria marxista del valore cade il concetto di sfruttamento, ovvero del plus-valore, la cui origine sarebbe nel tempo di lavoro soverchio non pagato estorto dal capitale al lavoro salariato. Col che si avvalora la tesi di Bawerk per cui i capitalisti non sfrutterebbero affatto i loro dipendenti, ma anzi consentono loro di ottenere un guadagno dal fatturato dei prodotti creati.Nel merito, dopo aver segnalato che per noi quanto teorizzato da Marx non è un talmud, ho precisato:«La nostra tesi è che il valore delle merci è in ultima istanza determinato dalla quantità di lavoro umano in esse contenuto, ma i loro prezzi possono oscillare (sotto o sopra il valore medio) anche a causa della domanda e dell'offerta. Per correggere Marx quindi: il prezzo non viene determinato solo ex ante, dal lavoro incorporato, ma pure ex post, dalla domanda di mercato. Potremmo dire che è co-determinato, figlio di una correlazione per sua natura non solo mutevole ma contraddittoria».Moreno Pasquinelli [CONTINUA SOTTO]

  6. Redazione SollevAzione dice:

    [… SEGUE ]Una correzione di non poco conto, alla quale ne dobbiamo aggiungere una seconda: che il prezzo di una merce dipende anche dalla QUALITÀ della forza-lavoro erogata nel processo di produzione-creazione della merce, quale essa sia. Ove l'apprezzamento della "qualità" dipende da numerose circostanze, storico-sociali, dall'azione quindi di molteplici fattori e variabili, tra esse la sfera immateriale dei bisogni.Resta che è sempre il lavoro erogato, quantitativamente e qualitativamente considerato e nelle sue plurime forme, la "sostanza" del valore. E qui, lo so bene, scatta l'obiezione, squisitamente filosofica, ovvero anti-essenzialistica al discorso di Marx, la quale ci porterebbe lontano, oltre lo spazio concesso ai commenti da questa piattaforma.Moreno Pasquinelli

  7. enea dice:

    Mi sa che il discorso sta diventando più complicato di quanto non sia in realtà.Se dico M=C+L [ brutalizzo e salto N passaggi algebrici in maniera anche un po' troppo allegra ]Con M=valore della merceC=CapitaleL=Lavoro "vivo" dell'operaio che realizza il manufattodevo ricordarmi che C non è soltanto capitale investito cioè concretamente soldi spesi per procurarmi materiale grezzo e semilavorati da trasformare, ma un valore composto, al cui interno è da considerare anche "lavoro morto". Perchè il capitale C è anche le attrezzature che l'operaio finale, che compie il lavoro vivo, utilizza, e la qualità dei materiali ad esempio.Le "facilities".Per cui se fai una vite con una macchina ad asportazione di truciolo manuale vecchia di 40 anni che ti permette una tolleranza di 0,1 mm lavorando 5 ore, o lo stesso pezzo con un macchinario automatico, programmabile, che rispetta una tolleranza di 0,01 mm impiegando 20 minuti per lo stesso identico pezzo, magari M è uguale, perchè C è più alto anche se L è molto minore.Ma il primo lavoratore perderà il lavoro, perchè il padrone del secondo macchinario può produrre incomparabilmente più numerosi pezzi dello stesso tipo in un tempo per definizione limitato. Quindi ammortizzerà prima le proprie spese e potrà essere presto più aggressivo sul prezzo.Quando il falegname fa un tavolo, i chiodi non sono L, ma C.Ma mica tutti i chiodi sono uguali e hanno la stessa qualità.Se è ferraccio o acciaio inox, C a quel punto cambia.Chiodi diversi contengo lavori morti diversi. Ugualmente per i legni.Ma credo che qua non fosse tanto importante salvare *la lettera* della teoria del valore-lavoro ( che in varie parti es aspetti potrebbe magari essere anche corretta e raffinata per implementazioni successive, come normalmente si fa in ambito scientifico ) quanto il suo spirito ed il suo senso generale.E se ho beninteso il concetto generale e di fondo che si vuole esprimere è: < il mercato non tende mica ad instaurare condizioni di concorrenza perfetta, ma piuttosto tende a costituire cartelli.La concorrenza perfetta, con prezzi perfettamente e linearmente governati dalla legge della domanda/offerta, se esiste, esiste perchè in uno specifico ambito il mercato viene influenzato da uno Stato che non si limita a fare l'arbitro ma concretamente interviene per instaurare un certo tipo di funzionamento del mercato. E quand'anche fosse una condizione naturale la concorrenza perfetta con prezzi linearmente determinati da domanda/offerta, un possessore di capacità di lavoro e non di capitale dovrebbe pensarci bene ad esultare, perchè in tale regime la competitività di prezzi si realizza comprimendo i costi, e la qualità della sua vita è un costo >Credo che di tutto questo le dimostrazioni pratiche siano pressochè infinite, anche se ci limitamo a guardare la questione in termini generalissimi.In altre parole ancora: togliersi dalle scatole l'euro è necessario per fare qualsiasi altra cosa, ma se dobbiamo liberarcene per rimanere li a farci stampigliare in fronte il nostro valore dalla legge della domanda e dell'offerta, sfruttati eravamo prima e sfruttati rimarremmo anche poi. La legge della domanda e dell'offerta non si pone il problema che ciascuno può dare un contributo a questa società. "Quanto è richiesto ciò che sai fare?"Se questo parametro è sufficiente per prezzare la vita di una persona, ci saranno sempre uomini e donne che son "da buttare via", con l'euro o senza l'euro.

  8. Ippolito Grimaldi dice:

    Non vorrei dire castronerie, né difendere Bagnai, ma il nostro ha più volte ribadito che modelli socialdemocratici, che sarebbero poi quelli che egli rimpiange se ho capito bene, ne tantomeno socialisti sono possibili senza il controllo democratico dello strumento monetario.Per dirla in maniera più cruda: con l' euro non si può che " progredire " verso il Capitalesimo, mentre confini monetari nazionali potrebbero garantire, sia pure localmente , modelli socioeconomici alternativi tra cui persino quelli che volessero perseguire ideali ormai reietti come quelli di uguaglianza tra gli esseri umani.

  9. Anonimo dice:

    @Ippolito GrimaldiControllo democratico dello strumento monetario significa che deve cessare l'indipendenza della banca centrale.Mi dici per cortesia se Bagnai ha parlato esplicitamente di non indipendenza della Banca Centrale?

  10. Marcia della Dignità dice:

    Scusi signor Grimaldi, ma cosa c'entra?

  11. Anonimo dice:

    Ok, ho trovato dove Bagnai parla di indipendenza della BC incompatibile con la democraziahttp://goofynomics.blogspot.it/2012/09/tecnica-e-politica.html

  12. Ippolito Grimaldi dice:

    @Marcia della dignitàNeoliberismo e "capitalesimo": Il pensiero unico dell'attuale società neoliberistica afferma che il mondo in cui viviamo è l'unico mondo possibile. Un mondo in cui, grazie alla libera concorrenza, si otterrebbero più efficienza e redditività. Fino al punto in cui il valore economico diviene l'unica discriminante tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Il neoliberismo impone che il mercato debba regolarsi senza l'intervento pubblico, seguendo la legge della domanda e dell'offerta: ciò che non ha senso economicamente va eliminato.L'attuale progressiva riduzione delle sovranità statali e nazionali a cui stiamo assistendo, con la conseguente perdita di controllo dei sistemi finanziari e produttivi, sono una conseguenza dell' ideologia neoliberista dello "Stato minimo", del laissez-faire. Una concezione che nulla ha a che vedere con lo Stato minimo teorizzato nell'Ottocento da Immanuel Kant e da John Stuart Mill, che intendevano uno Stato non più dispotico e tiranno bensì democratico, sociale, partecipato. Certamente non uno Stato indebolito e ridotto ai minimi termini dall'ideologia del profitto e dalla privatizzazione dei servizi essenziali.

  13. Tonguessy dice:

    i miei complimenti per la brillante disamina a Moreno. Tra i patetici tecnicismi di cui gli economistici specialmente postmoderni si dotano per essere perfetti "sicari dell'economia" (parafrasando John Perkins), la reificazione unita ad una abbondante dose di argumentum ad hominem rimane la più gettonata. Si parla quindi di "libera azione degli individui" come di uno status quo ex-ante, inattaccabile da emissari e liturgie del dio Mercato. E' come se l'idea stessa di peccato originale non avesse mai avuto ragione di esistere: siamo nati liberi e nessun impedimento ha mai fatto vacillare questa nostra libertà. Il giardino dell'Eden degli economistici è presto reificato in barba a fior di sociologi e critici del costume, a partire da Pasolini degli "Scritti corsari". Al contrario tale utopico giradino paradisiaco è l'inferno, la cifra dei tempi attuali. Non esiste lato della cultura (e quindi della percezione umana) che non sia manomesso dagli inquinanti del capitalismo. Debord parlava di societé di spectacle, indicando come tutto il percettibile sia confinato all'interno di ciò che il capitalismo definisce come percettibile. «Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini», ovvero una «visione del mondo che si è oggettivata»: ecco la reificazione dei precetti capitalisti che trovano applicazione nella lotta contro il digital divide. Si tratta di digitalizzare i rapporti per rendere più fluida la cultura dell'apparire. O, per dirla con Marx «tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un'immensa accumulazione di spettacoli».La lotta contro queste denunce e contrapposizioni diventa quindi essenziale per il capitalismo, ovvero per il mantenimento della stratificazione sociale. La parola d'ordine degli economistici è scardinare i legami tra reificazioni e critica, facendo così apprire quest'ultima come una assurda pretesa di nessun valore. Al contrario le cose stanno lentamente ma inesorabilmente scivolando verso il baricentro sempre più alto dell'instabilità, basti pensare alla discrepanza tra le reificazioni politiche (siamo usciti dalla crisi, c'è la ripresina) e la percezione comune che si manifesta nella diserzione delle cabine elettorali. Da questa inconscia consapevolezza nasce la necessità per gli economistici (vere teste di ariete del sistema) di sfidare tale percezione comune giocando la partita sul piano proprio dell'esposizione mediatica (la societé du spectacle di cui sopra). Da una parte loro ed i media e dall'altra…..ditemi chi o cosa ci è rimasto.La partita è truccata dall'inizio anche perchè si da per scontato che esista l'uscita (dopo il sol dell'avvenire, ecco il si bemolle dell'avvenire che i suonatori di clavicembalo conoscono bene). Peccato sia teleguidata, per cui l'uscita è unica e non è possibile uscire "da sinistra". No, non è proprio possibile. Intanto usciamo, usiamo pure il metodo Schacht, facciamo come la germania nazista. Se gli USA sono diventati la prima potenza mondiale è perchè hanno assoldato i vertici (ed i metodi) nazisti. E noi saremmo da meno?PS: ho citato solo Debord, per semplicità. E gli economisti non se la prendano, ho solo parlato di economistici.

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