27 visite totali, 1 visite odierne

Browse By

SOVRANITÀ E CAPITALISMO (Parte prima) di Tonguessy

27 visite totali, 1 visite odierne

[ 25 febbraio ]

C’era una volta la sovranità….inizia così la nostra favola odierna. Era tutto ciò che permetteva al capitale di crescere localmente, dando il via alle furibonde sgomitate tra Stati per accaparrarsi fette di mercato sempre più importanti. Tale competizione internazionale trascinava con sé valori sempre maggiori di contenuti tecnologici e scientifici, parcellizzazioni della conoscenza sempre più mirate e specifiche (quindi stratificazioni sociali ancora più complesse) oltre all’inevitabile questione del plusvalore.

Se si accetta questa premessa, non si può conseguentemente collocare la scienza nell’alveo di quella neutralità che viene da più parti sbandierata. Nossignori, senza il fortissimo impatto che scienza e tecnologia moderna hanno avuto nel nostro modo di vivere, il capitale non avrebbe potuto fare i passi da gigante che tutti noi riconosciamo. E’ un binomio inscindibile, e lo è stato fin dalla nascita della Modernità, già dal lontano Rinascimento. Evito per il momento di approfondire la questione, e mi concentro piuttosto sui rapporti tra capitali e Stati. E’ stato da più parti evidenziato come la crisi del ’29 in realtà sia stata risolta solo attraverso la ricostruzione postbellica.

Il cosiddetto Occidente si doveva attrezzare per il nuovo compito: sparito (o quasi) il sistema coloniale che prevedeva pochi imperi saccheggiare tanti Paesi, si prospettava la divisione della torta non in base unicamente alla rapina dell’ecosistema altrui, ma anche in base ai contenuti tecnologici e scientifici aggiunti (chiamiamolo plusvalore tecnologico). Fu così che l’Italia, con scarsissime risorse autonome (povera autarchia mussoliniana…) balzò ai primi posti delle nazioni più industrializzate: il plusvalore tecnologico era in grado di trasformare le materie prime importate in manufatti di prim’ordine che venivano esportati in tutto il mondo. Il capitale vendeva le materie prime sul mercato, e lasciava gli Stati liberi di trasformarli seguendo le indicazioni del mercato del prodotto finito. Sicuramente è stato il Giappone a sapere coniugare al meglio il concetto del plusvalore tecnologico. Ma anche da noi non andò poi così male. Le condizioni necessarie e sufficienti affinché questa battaglia per la supremazia scientifica e tecnologica (legata con doppio filo al mercato) avesse luogo erano di sviluppare in loco una capacità di elaborazione dei materiali tale da competere sul piano internazionale. In parole povere: serviva la sovranità. Servivano frontiere chiuse, dazi doganali in grado di proteggere il prodotto nazionale dalla concorrenza internazionale, flussi migratori sotto controllo del capitale che decideva di volta in volta dove spostare e chi. Oltre ad un’infinità di cosucce non secondarie, come la concertazione tra vertici politici ed economici per far decollare lo Stato sul piano internazionale: aiuti di Stato, detassazioni, agevolazioni da una parte e dazi e balzelli dall’altra. In realtà era Confindustria a “suggerire” il modo migliore per far sviluppare il capitale sul suolo natio, e tali suggerimenti non trovavano alcuna seria contrapposizione né ideologica né tantomeno pratica. La coesione al modello di sviluppo capitalista postbellico era tale per cui le reali battaglie all’interno delle italiche aule parlamentari erano limitate, mentre esisteva di fatto una comunione di intenti sui criteri di sviluppo nazionale. In realtà né al PCI né a maggior ragione alla DC interessava contrastare la costante crescita del capitale nazionale. Cossiga si vide costretto a constatare come la FIAT fosse stata comprata 4 volte dallo Stato Italiano, e questo era sembrato un bene: se da una parte i padroni si fregavano le mani assaporando il piacere di vedere crescere il capitale a dismisura, i lavoratori ed i loro difensori non si lamentavano di certo se c’era lavoro per tutti.

Una parte consistente di italiani strappati dalle campagne venivano irregimentati nei quartieri-dormitorio adiacenti ai complessi industriali, e fatti crescere come consumatori che alla fine del mese possono disporre di denaro sufficiente a far girare il volano economico nazionale. L’Italia stava creando la sua classe media per far decollare il Paese, né più né meno che come la Cina del nuovo millennio.

L’avere acquistato 4 volte la FIAT rimaneva comunque la punta dell’iceberg. La parte sommersa era rappresentata da tutte le strutture che permettevano al capitale di organizzarsi ed espandersi secondo il proprio volere: istruzione destinata a formare i quadri dirigenti ed intermedi, via libera alla trasformazione del territorio in quel mostro di asfalto e cemento che è sotto gli occhi di tutti, creazione di vie di comunicazione che permettessero a merci e forza lavoro di collegare i centri di produzione alle periferie e via elencando.

Il tutto rigorosamente in chiave sovranista (pare che il piano Marshall fosse compatibile con essa): lo Stato veniva eletto a giudice dei processi sociali ed economici, così come l’etica del capitalismo produttivo richiedeva.

Magnificamente sintetizzate nel motto della fiera mondiale di Chicago del 1933 – Science finds, Industry applies, Man conforms – (la Scienza scova, l’industria crea l’applicazione e l’uomo vi si adegua), il disegno economico-scientifico di stampo industriale cominciava a porre le proprie basi, facendosi accogliere a braccia aperte dalle società. Vi stupiremo con effetti speciali, abbiate fiducia. L’uomo, in questa etica produttiva, è ridotto a mera figura di sostegno a progetti appartenenti a ontologie moderniste quali scienza e industria. O Stato. Un solo esempio: la strage di Marcinelle, dove morirono 262 minatori in buona parte italiani, fu possibile grazie ad “un accordo tra Italia e Belgio che prevedeva un gigantesco baratto: l’Italia doveva inviare in Belgio 2mila uomini a settimana e, in cambio dell’afflusso di braccia, Bruxelles si impegnava a fornire a Roma 200 chilogrammi di carbone al giorno per ogni minatore”. [1]

Merci (umane) in cambio di merci.

Gli Stati si mettono d’accordo per attuare i piani del capitale e l’uomo si adegua, appunto. L’alternativa sarebbe consistita nel rimanere un Paese legato all’agricoltura o giù di lì, come nella Cambogia del socialismo agrario. Non un grande competitor internazionale…..

Insomma l’affare consisteva nel far passare come inevitabile la trasformazione da società agricola a società industriale, accettando il capitale (ad esempio il piano Marshall e relativa Organization for European Economic Cooperation il cui scopo era porre le basi per i cambiamenti strutturali delle economie delle nazioni europee) e permettendo che si stabilizzasse all’interno dell’economia statale. Lo Stato, una volta avviato il processo, si sarebbe fatto carico di garantire la realizzazione delle infrastrutture necessarie per il pieno sviluppo del capitale. In altre parole mentre la FIAT incassava i soldi delle vendite, lo Stato italiano creava la rete stradale. Senza strade costruite dallo Stato non si capisce come si sarebbero potute vendere le auto ed i camion. Ecco, l’affare era grosso modo questo. La sovranità permetteva allo Stato di decidere in autonomia il miglior modo per realizzare la trasformazione. E ovviamente non poteva risultare invisa al capitale di allora, data la comunanza di intenti.

A ragionarci bene, poi, non ha fatto molta differenza il fatto che uno Stato avesse giocato a favore o contro gli USA: neanche l’URSS di Stalin si era sottratta al vincolo che voleva la modernità figlia di scienza e Stato, tant’è che quel processo storico viene ancora oggi additato come capitalismo di Stato. Ed i minatori di Marcinelle diventano poca cosa rispetto ai soli Kulaki. La grandezza della conquista dello spazio da parte di Gagarin piuttosto che gli onori tributati alla Ferrari passano per il Man conforms, e se lo fa con entusiasmo è tutto di guadagnato.

Se devo fare le somme le cose nell’era postbellica in Italia sono andate così: grazie alla sovranità il Bel Paese è riuscito ad imporsi all’attenzione mondiale per i prodotti che è stato capace di inventare e produrre, trasformando materie prime in buona parte importate. I costi elevatissimi di tale trasformazione sociale sono facilmente individuabili nella devastazione ambientale (Seveso docet) e sociale (Pasolini di Scritti Corsari), mentre i benefici sono essenzialmente legati all’arricchimento di ampi strati di popolazione: umili contadini potevano vedere i propri figli diventare importanti medici, avvocati, ingegneri etc. rimescolando le carte delle appartenenze di censo e dando il via ad arrampicate sociali che oggi sono solo un lontano ricordo.

Purtroppo la fase capitalista legata alla produzione nazionale e quindi alla sovranità era destinata a non durare, compressa com’era tra crescita del capitale, crescita salariale e diminuzione dei costi delle merci (caduta tendenziale del saggio di profitto).

Se da una parte i contenuti tecnologici aumentavano a parità di costi (pensate a prezzo di acquisto rivalutati e prestazioni un’auto media degli anni 70 e confrontateli con un’auto di adesso) rendendo appetibili concetti come obsolescenza programmata ed il collaterale processo di svalutazione e rottamazione, la delocalizzazione rendeva possibile lo sfruttamento di risorse umane “vergini” (desindacalizzate) a costi irrisori, diventando il trampolino per il balzo in avanti del capitale postmoderno, passato da localista a globalista per propria convenienza. Il plusvalore, nell’Occidente ormai sindacalizzato e con una solida classe media, stava conoscendo la crisi del limite tra arricchire la middle class in quanto consumatrice dei beni prodotti, e aumento degli utili societari.

(continua)

[1]http://www.focus.it/cultura/curiosita/che-cosa-accadde-nella-miniera-di-carbone-di-marcinelle

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *